cosmopolis rivista di filosofia e politica
Cosmopolis menu cosmopolis rivista di filosofia e teoria politica

I confini del cosmopolitismo

Edoardo Greblo
Articolo pubblicato nella sezione "Tra le righe"

Secondo molti teorici contemporanei del cosmopolitismo, il progetto di un ordine globale basato sul diritto internazionale risulta incompatibile con l’immaginario geopolitico moderno, che considera i confini come i segnali territoriali che rendono visibili i limiti dell’autorità politica e della giurisdizione sovrana. Charles Beitz, Onora O’Neill e Thomas Pogge, per esempio, affrontano il problema dell’agire nel contesto internazionale in una prospettiva che mira a porre in discussione il ruolo degli Stati e a difendere l’esigenza di affidare ad altri attori, come organizzazioni non governative, regionali o transnazionali dotate di reali capacità di intervento, i problemi di giustizia a livello globale (cfr. Beitz 1994, pp. 124-126; O’Neill 2000, pp. 181-185; Pogge 2008, pp. 202-233). Secondo questa prospettiva, la forma che assume lo spazio globale contemporaneo non può essere compresa suddividendolo in una serie di territori discreti e contigui, poiché il dinamismo dei sistemi economici rispetto allo spazio tende a ridimensionare il ruolo del confine statale come contenitore naturale delle attività economiche e politiche. In realtà, non tutti gli autori cosmopoliti considerano superato il concetto di confine, ma un settore influente del cosmopolitismo contemporaneo, quello che si potrebbe definire antistatista, tende a considerarlo come un costrutto politico il cui valore è puramente residuale, una sorta di reliquia ormai anacronistica e superata. Il dibattito sembra così polarizzarsi su due unilateralità contrapposte: da un lato i cosmopoliti antistatisti, per i quali i confini, intesi quali contorni territoriali tra Stati sovrani, così come le relazioni politiche di tipo associativo su cui essi si fondano, vanno considerati pressoché irrilevanti da un punto di vista normativo; dall’altro molti statisti, i quali ritengono invece che il diritto sovrano all’autodeterminazione possa giustificare la pretesa da parte degli Stati sovrani di controllare i propri confini e di decidere in modo discrezionale chi ammettere e chi escludere dal territorio nazionale.
L’ipotesi che si intende suggerire a tale proposito è che il «cosmopolitismo statista» (cfr. Ypi 2016) rappresenti un’alternativa a queste due opposte unilateralità. Se, come ha osservato Seyla Benhabib, da un punto di vista universale e cosmopolitico «le frontiere, incluse quelle dello Stato» (Benhabib 2008, p. 20), non possono essere considerate come delle datità precostituite, quasi si trattasse di contingenze storiche che non richiedono ulteriore convalida, il cosmopolitismo statista considera ugualmente importanti la preservazione dello Stato e l’esistenza dei confini. Senza il confine quale istituzione primaria non sarebbe possibile definire alcuni come membri, altri come stranieri, alcuni come cittadini, altri come semplici residenti. È la stessa legislazione democratica a richiedere una qualche forma di chiusura nei confronti degli “altri”, dal momento che la rappresentanza deve essere responsabile nei confronti di un demos specifico. La decisione di escludere dallo spazio territoriale stranieri e migranti, che nutre le tendenze particolaristiche ed escludenti oggi così diffuse, nasce dal fatto che la sovranità popolare e democratica deve assumere il profilo giuridico – nella forma della cittadinanza, che definisce chi è membro a pieno titolo della comunità politica e chi ne è escluso – di un demos circoscritto che agisce per governare se stesso.
Ora, il cosmopolitismo è, in ultima analisi, una teoria che si propone di sfruttare il potenziale euristico contenuto nell’idea che vede in ogni essere umano la misura ultima del valore morale. Naturalmente, il cosmopolitismo contemporaneo presenta numerose varianti (cfr. Taraborelli 2011), ma il problema di come trasformare i principi morali in obblighi politici validi universalmente ha dato vita a una distinzione fondamentale: da una parte il cosmopolitismo morale, che invita a non anteporre gli interessi della propria comunità agli interessi di coloro di cui non condividiamo né la discendenza, né la genealogia né la storia, e che tende a concepire il cittadino del mondo in senso prepolitico e pregiuridico; dall’altra il cosmopolitismo statista di tipo politico-giuridico, che si propone di intraprendere trasformazioni politiche di portata globale in corpi collettivi non necessariamente coincidenti con gli Stati, anche coinvolgendo cittadini di nazioni diverse (cfr. Beitz 1994, pp. 123-136). Non tutti i teorici cosmopoliti ritengono che tra i due orientamenti vi sia un’incompatibilità di principio. Ma per alcuni influenti sostenitori del cosmopolitismo morale o antistatista è necessario prendere le distanze dalla prospettiva di un ordine internazionale costituito da una comunità di Stati che si garantiscono reciprocamente la loro «sovrana eguaglianza» (come recita l’art. 2, par. 1, della Carta delle Nazioni Unite), e muoversi nella direzione di un ordine cosmopolitico in cui la comunità dei popoli adotta la tutela della pace e dei diritti umani quale criterio esclusivo per valutare la legittimità delle istituzioni politiche e giuridiche. Questa concezione si basa sull’idea che i confini di Stato siano privi di valore normativo o che ci debba essere congruenza tra i principi di giustizia nazionali e i principi di giustizia internazionali o globali (cfr. Beitz 1994, p. 125; Beitz 2005, p. 5; Téson 2003, pp. 93-129). Si tratterebbe cioè di trasporre la positivizzazione dei diritti civili e di quelli umani dal piano nazionale a quello internazionale o globale. E poiché il cosmopolitismo antistatista concepisce la giustizia in termini di diritti umani, il nucleo della giustizia, la protezione dei diritti umani, dovrebbe essere l’obiettivo primario del sistema giuridico internazionale (cfr. Beitz 1999, pp. 69 e 83; Téson 1997, p. 40). La protezione dei diritti umani, che rappresenta lo standard con cui valutare gli ordinamenti politici nazionali, tende a rendere ininfluenti le categorie analitiche tradizionali, che poggiano su coordinate spaziali basate su quella radicale separazione tra il dentro e il fuori che giustifica la segmentazione dello spazio globale determinata dai confini lineari dello Stato.
Questa prospettiva, che tende a destituire di significato il valore normativo dei confini, finisce però per rendere irrilevante la determinazione spaziale della politica, dove gli attori della società civile possono investirsi di ruoli attivi e passibili di sviluppi in un contesto garantito da confini certi. Ad essa si può opporre - ed è la tesi proposta in queste pagine - la prospettiva del cosmopolitismo statista improntata in senso politico-giuridico. Non si tratta, cioè, di «volgere le spalle al linguaggio dell’autodeterminazione e dell’autonomia solo a causa del suo contingente legame con la configurazione storica del potere occidentale» (Held 1999, p. 282), ma di favorire la costruzione di capacità amministrative e di risorse politiche indipendenti ai livelli regionali e globali in forma complementare rispetto a quelle già consolidate a livello nazionale e locale. Ciò significa che non è necessario rassegnarsi a prendere atto che nel mondo reale il confine non è che l’esito contingente di conflitti violenti, guerre esterne o guerre civili, come nell’impostazione “realistica” che impronta lo studio delle relazioni internazionali, ma neppure immaginare un mondo in cui si sta consumando ogni riferimento organizzativo dello spazio, come tendono invece a fare i cosmopoliti “morali”. Si tratta piuttosto di considerare i confini politici come compromessi istituzionali la cui legittimità dipende dalla loro capacità di non ostacolare, impedire o frenare gli sviluppi della democrazia che vanno nel senso di una estensione del sistema delle istituzioni e delle agenzie democratiche anche al di là degli spazi territorialmente definiti.

1. Poche istituzioni riescono a definire così profondamente la condizione giuridica, e in certi casi persino l’esistenza fisica, degli individui quanto i confini. Simbolo residuo di una sovranità nazionale sempre più erosa e aggirata (cfr. Ambrosini 2014), i confini si sono moltiplicati e disseminati anche attraverso il reclutamento di paesi terzi, cui viene demandato il compito di esercitare il ruolo di “avamposti” del controllo frontaliero. In realtà, la sorveglianza dei confini rappresenta un tratto essenziale di quella “rinazionalizzazione” del discorso politico che tenta di reagire alla denazionalizzazione dello spazio economico (cfr. Sassen 1998), una reazione simbolica dello Stato all’impatto della globalizzazione, il tentativo di compensare con la teatralità di un’esibizione di forza l’indebolimento della sua sovranità (cfr. Brown 2013). In particolare, l’accelerazione delle interdipendenze sembra da un lato promuovere una contrazione del mondo, cioè l’erosione dei confini e delle frontiere geografiche in conseguenza delle attività socioeconomiche, e dall’altro la loro proliferazione, moltiplicazione ed eterogeneizzazione (cfr. Mezzadra, Neilson 2014).
Il rimescolamento delle coordinate spaziali che definiscono la dimensione territoriale dell’esistere umano organizzato provocato dalla globalizzazione ha reso più che mai evidente come i confini siano un’istituzione le cui caratteristiche giuridiche, sociali morali e anche psicologiche mutano nel corso del tempo (cfr. Graziano 2017, p. 7; Newman, 2003, p. 14; Cassarino 2006; Donnan e Wilson 1992, p. 62). Con il tramonto, o l’indebolimento, delle forme politiche unitarie ancora omotetiche rispetto al territorio, cioè gli Stati-nazione, è venuta meno la nozione stessa di “confine naturale”, di una realtà che sembra materializzarsi sul terreno e che può essere immediatamente trasferita in una rappresentazione cartografica. Se invece si considera il confine come un’istituzione, esso perde il suo fuorviante alone di naturalità e assume il profilo di un dispositivo complesso, creato attraverso processi storici spesso violenti, che serve sia a selezionare sia a respingere l’accesso di uomini e donne agli spazi - definiti territorialmente - della cittadinanza. I confini sono anche, e soprattutto, dispositivi di inclusione selettiva e differenziale: non si limitano cioè a bloccare o a impedire la mobilità delle persone in nome e in funzione della dimensione escludente dello Stato-nazione, ma puntano a fare in modo che i flussi della migrazione possano essere controllati o negoziati così da «produrre, a partire da flussi ingovernabili, soggetti mobili governabili» (Panagiotidis, Tsianos 2007, p. 82). Dal momento che non si limitano semplicemente a frapporre muri od ostacoli ai flussi globali, ma si configurano come dispositivi essenziali per la loro articolazione, il grado o il livello di apertura che li caratterizza varia a seconda che la libertà di attraversamento riguardi le merci o il capitale, il lavoro o le persone.
Esiste ormai una consolidata tradizione di studi attenta a sottolineare il carattere strutturalmente ambivalente dei confini a partire, soprattutto, dalla loro funzione geopolitica, che li rende luoghi simultaneamente di contatto o di scontro, di passaggio o di blocco, di esclusione o di inclusione. Muovendosi all’interno di questa tradizione, il cosmopolitismo politico o istituzionale contribuisce a mettere in discussione la concezione classica del confine. In particolare, esso punta il dito sulla contraddizione tra l’adesione degli Stati alle istituzioni internazionali e alle organizzazioni intergovernative create per gestire un sistema globale caratterizzato da interdipendenze crescenti e la rinuncia a fare in modo che queste interdipendenze possano preparare il terreno a un assetto giuridico cosmopolitico. Suonano profetiche, a questo proposito, le parole di Antonio Gramsci: «Tutto il dopoguerra è crisi. [...] Una delle contraddizioni fondamentali è questa: che mentre la vita economica ha come premessa necessaria l’internazionalismo o meglio il cosmopolitismo, la vita statale si è sempre più sviluppata nel senso del ‘nazionalismo’» (Gramsci 1975, pp. 1755-56). La posta attualmente in gioco è la stessa di allora: creare le condizioni di un cosmopolitismo politico capace di essere all’altezza di un mondo che ha già superato il modello di Westfalia, che descrive e regola lo sviluppo di una comunità mondiale composta da Stati sovrani che allacciano rapporti diplomatici, oppure relazioni volontarie e contingenti di natura economica e militare, ma in generale sono poco interessati a una effettiva cooperazione e risolvono le loro divergenze con l’uso della forza - o con la minaccia della forza (cfr. Held 1999, pp. 79-88).
La globalizzazione, cioè, ha innescato una crescita esplosiva nella governance transnazionale in molte delle tradizionali sfere di responsabilità degli Stati – la difesa, l’economia, le comunicazioni, il sistema giuridico e amministrativo. Ma tutto ciò non è stato accompagnato da strutture di governance cosmopolitica capaci di istituire nuove procedure internazionali capaci di far sentire in misura paritaria e reciproca le voci di tutti gli interessati, a prescindere da quale sia il lato del confine in cui si trovano. Anche se un mondo dominato da Stati nazionali si trova in una fase di transizione verso la “costellazione postnazionale” (Habermas) di una società mondiale, la realizzazione del progetto kantiano di un ordine cosmopolitico sembra ancora di là da venire. E ciò nonostante stia venendo meno il “privilegio ontologico” attribuito al confine, inteso come lo spazio naturale delle forme di azione politica. Perché se è vero che «non esiste consenso senza esclusione, non c’è “noi” senza “loro” e non è possibile alcuna politica senza tracciare un confine» (Mouffe 2007, p. 83), è altrettanto vero che il confine, oggi più che mai, è continuamente sfidato dalle trasformazioni storiche e dai dinamismi economici rispetto allo spazio, e può essere, per questa ragione, restituito al suo ruolo di funzione istituzionale la cui legittimità dipende interamente dalla capacità di evitare che i diritti umani universali, i quali esercitano un richiamo che trascende ogni contesto, e la sovranità popolare, che deve costituire un demos circoscritto che agisce per governare se stesso, entrino vicendevolmente in conflitto.

2. Il dibattito sul cosmopolitismo, che si protrae da secoli (cfr. Scuccimarra 2006), ha costantemente oscillato tra due accezioni del termine “cosmopolita” diverse e incompatibili tra loro. A un significato negativo, venato di scetticismo e ostilità, fa riferimento la posizione di chi ritiene che «un cosmopolite n’est pas un bon citoyen», come si legge nella quarta edizione del Dizionario dell’Accademia Francese, edita nel 1762, poiché, quando il sistema di riferimento è costituito dall’umanità, ossia da una ipotetica repubblica di cittadini cosmopolitici, risulta pressoché impossibile giustificare gli obblighi degli individui nei confronti dei concittadini e delle istituzioni dello Stato. A questa critica di un cosmopolitismo “senza fissa dimora” e senza radici, indifferente a ogni forma di vita particolare, fa da contraltare un significato positivo, difeso da chi reputa di scarsa importanza le istituzioni che regolano la vita associata. In questa seconda prospettiva, la figura dell’individuo non coincide con quella del cittadino, ma con la figura dell’uomo in generale, ossia con una creatura razionale che gode di diritti la cui universalità giustifica l’esigenza di trasporre sul piano cosmopolitico la positivizzazione dei diritti civili e di quelli umani, ossia la condizione giuridica inizialmente stabilita all’interno dello Stato.
Naturalmente, il cosmopolitismo contemporaneo presenta molte varianti (cfr. Taraborelli 2011), ma la difficoltà di tradurre obblighi morali universali in forme politiche praticabili a livello globale ha fatto sì che nessuna si spinga sino al punto da proporre l’ideale di una singola comunità politica indifferenziata che includa tutti gli esseri umani. Il problema di trasformare i principi morali in obblighi politici universalmente vincolanti ha spinto alcuni autori a distinguere tra il cosmopolitismo “morale”, ossia la disposizione a non anteporre gli interessi della propria comunità agli interessi di coloro di cui non condividiamo né la discendenza, né la genealogia né la storia, poiché «ogni essere umano ha una dimensione globale in quanto misura ultima dell’interesse morale» (Pogge 1992, p. 49), e il cosmopolitismo “politico-giuridico”, che si propone di intraprendere trasformazioni politiche di portata globale in contesti associativi diversi da quelli statali, anche coinvolgendo cittadini di Stati diversi (cfr. Held 1999 e Ypi 2016). Ora, se ci si ispira a questa prospettiva, non è più possibile dare per scontato che la sfera di applicazione dei principi normativi validi a livello nazionale debba necessariamente coincidere con la ripartizione dei confini politici definita da linee territoriali. Come ha scritto Benhabib, «i principi dei diritti umani invocati dalle costituzioni democratiche rivestono un carattere cosmopolitico e indipendente dal singolo contesto: essi si estendono all’intera umanità» (Benhabib 2006, p. 140). Questo carattere cosmopolitico trascende i confini politici imposti dalla contingenza storica, poiché nel mondo reale dipende sempre dalla fattualità degli eventi stabilire a chi tocca il potere di tracciare i confini della comunità politica. Infatti, come ha osservato Habermas, «in linea di massima ciò dipende dall’esito naturalistico di conflitti violenti, di guerre esterne e di guerre civili» (Habermas 1998, p. 129). È chiaro anche, però, che il portato cosmopolitico delle rivendicazioni dei diritti non può fare a meno di scendere a patti con il fatto che ogni comunità intenzionata a vincolarsi alle leggi generali dell’autogoverno deve circoscrivere uno spazio politicamente qualificato dove i cittadini si incontrano nella dimensione di persone giuridiche rese formalmente eguali nei diritti. Ma prendere atto del ruolo che occupa la casualità nella composizione e nella definizione dei confini del demos serve a ricordare la natura contingente e arbitraria dei confini geopolitici e a impedire che i bordi territoriali dello Stato si trasformino in una realtà naturalisticamente precostituita.
Per quanto l’ideale dell’autosufficienza territoriale sia in ormai evidente contraddizione con l’assoluta interdipendenza dei popoli del pianeta e la posizione che propugna la fine di ogni restrizione ai movimenti degli esseri umani ne possa rappresentare il diretto corrispettivo sul piano morale, la democrazia richiede i confini perché è necessario sapere quale entità democratica è responsabile e nei confronti di chi. «La volontà del sovrano democratico può estendersi solo sul territorio sottoposto alla sua giurisdizione», può essere esercitata solo nel «nome di uno specifico corpo elettorale» ed «è vincolante solo per esso» (Benhabib 2008, p. 50). È difficile immaginare una comunità politica democratica che non sia legata a una qualche forma di stabilità egualitaria della popolazione e perciò a dei confini che la delimitano. Ma se vero che la democrazia, intesa quale processo di autolegislazione e autocostituzione, risulta strutturalmente collegata alla definizione dei confini, in che modo il cosmopolitismo statista di tipo politico e giuridico è compatibile con la libertà repubblicana o democratica?
Non certo abolendo i confini politici esistenti perché, come ha scritto Habermas, «una comunità politica - per lo meno se vuole intendersi come democratica - deve sempre poter distinguere gli appartenenti dai non appartenenti» (Habermas 1999, p. 94). In caso contrario, infatti, il campo di applicazione delle decisioni democratiche risulterebbe indeterminato, verrebbe preclusa ogni possibilità di distinguere tra relazioni interne ed esterne alla comunità e sarebbe impossibile avvalersi dell’opzione di exit. Non si tratta perciò, come nel caso del cosmopolitismo morale, di intendere il cittadino del mondo in senso prepolitico e pregiuridico, ma neppure di sostituire il diritto civile nazionale con un diritto civile mondiale suscettibile di rendere gli individui cittadini del mondo anziché cittadini di uno Stato. E infatti, i sostenitori del cosmopolitismo politico-giuridico non si propongono, neppure da un punto di vista normativo e controfattuale, di sostenere l’ipotesi di una singola comunità politica indifferenziata che includa tutti gli esseri umani. La loro critica è rivolta piuttosto allo status morale dei confini, che cristallizzano il carattere arbitrario della membership, dal momento che «l’appartenenza di un cittadino a una nazione piuttosto che a un’altra e la naturale diseguaglianza tra le nazioni vanno considerati quali elementi fortuiti da un punto di vista morale proprio come qualunque altra contingenza naturale» (Richards 1971, p. 290). Il fatto di nascere al di qua o al di là di un certo confine non «è nient’altro che un’ulteriore declinazione della contingenza che produce effetti rilevanti (come il corredo genetico, la razza, il genere e la classe sociale), un’altra possibile base per le disuguaglianze che sorgono immancabilmente tra gli individui al momento stesso della loro nascita» (Pogge 1989, p. 247). I benefici che derivano dall’appartenenza a un particolare Stato dipendono da una circostanza che risulta ingiustificabile dal punto di vista morale - senza che ciò, tuttavia, ne metta di per sé in discussione la loro utilità o la loro stessa esistenza.
Alla base di questa posizione vi è l’idea che i confini siano degli strumenti in grado di offrire l’opportunità di delegare alcune funzioni dall’alto verso il basso ai livelli di governo che fanno riferimento a popoli e territori particolari (cfr. Goodin 1988, pp. 663-686, e Id. 2007, pp. 40-68), oppure di incentivare modalità di aggregazione di voti democratici dal basso verso l’alto nella prospettiva di una federazione globale (cfr. Archibugi, Held 1995). La loro legittimità dipende dalla capacità di trovare una forma di equilibrio tra i diritti umani universali e i diritti assegnati esclusivamente ai cittadini, ovvero agli individui che risiedono in un dato territorio in virtù dei propri diritti di appartenenza - ovvero, tra cosmopolitismo e democrazia. Una concisa formulazione di questa prospettiva è stata proposta da Philippe van Parijs, che sintetizza in questo modo l’atteggiamento dei filosofi cosmopoliti rispetto ai confini politici: «Le nazioni, cioè popoli organizzati politicamente [...] non sono altro che strumenti da creare e smembrare, costituire e assorbire, potenziare e vincolare, al servizio della giustizia» (Van Parijs 2011, p. 139). I confini politici sono perciò istituzioni di compromesso, che risultano legittime quando l’universalismo morale e politico incorporato nella dottrina dei diritti umani non entra in conflitto con le regole di inclusione e di esclusione in cui prende corpo il senso profondo dell’autodeterminazione collettiva. Il termine cosmopolitico, se inteso come la creazione di una struttura transnazionale di azione politica, implica perciò un contesto istituzionale in espansione, che costituisce una limitazione alla sovranità degli Stati senza però costituire esso stesso uno Stato (cfr. Archibugi 2009). In altre parole, un’istituzione cosmopolitica dovrebbe coesistere con un sistema di Stati, ma assumendone le competenze in certe definite sfere di attività. Nel caso dei confini, e quindi delle istituzioni che decidono dell’inclusione o dell’esclusione all’interno degli Stati sovrani, il cosmopolitismo politico difende perciò una posizione intermedia tra chi considera ingiustificato negare a un essere umano il diritto fondamentale di movimento, ossia una delle libertà fondamentali che appartiene a chiunque in quanto simpliciter essere umano, e di chi ritiene che una politica dell’appartenenza decisa in modo discrezionale rientri fra le prerogative fondamentali dell’autodeterminazione sovrana.
Per questo il rapporto tra cosmopolitismo e democrazia sembra essere, in generale, più di tensione che di convergenza. Lo Stato democratico ha bisogno di confini: il confine è una istituzione politica che è possibile giustificare in una prospettiva democratica perché l’ordine politico garantisce le dinamiche che si fondano sull’eguaglianza degli individui e sul loro potere nella dimensione pubblica della cittadinanza, e ciò è possibile solo nello spazio delimitato e stabile dello Stato. Ma il cittadino della democrazia non è un cittadino del mondo: è piuttosto il cittadino di una unità politica chiaramente delimitata - si tratti di uno Stato unitario o di uno Stato federale, di una federazione di Stati che cedono quote di sovranità a una entità superiore, come l’Unione europea, oppure di Stati che invece continuano a mantenerne gelosamente l’esclusività. In fondo, “il diritto di avere diritti” di cui parlava Hannah Arendt non equivale forse al diritto di appartenenza, cioè al diritto degli esseri umani di essere membri di una comunità politica organizzata? Ma in che modo è possibile tradurre questi diritti in diritti che esprimano valori universali, ossia incorporare i più significativi “diritti di cittadinanza” nel contesto del diritto internazionale?

3. Non esiste, se ci si colloca entro una prospettiva cosmopolitica, un modo univoco per definire il concetto di confine. Basta gettare uno sguardo cursorio alle scuole filosofiche dell’antichità per osservare come la visione del kosmou polites proposta da Cinici e Stoici non implichi la medesima disposizione nei confronti della segmentazione spaziale che organizza la vita umana. In Diogene il Cinico l’invito a considerarci cittadini del mondo implica in un certo senso l’invito a diventare stranieri in patria e a prendere atto che se la vera base su cui le organizzazioni umane dovrebbe fondarsi non è su ciò che è arbitrario o semplicemente abituale, ma su ciò che è bene per l’uomo, la capacità di comprendere questa distinzione non conosce confini. Gli Stoici non si propongono, invece, di abolire le forme di organizzazione politica locali e nazionali e di creare uno Stato che unisca tutta l’umanità. Per diventare cittadini del mondo non è necessario abbandonare del tutto i legami particolari, che anzi sono spesso fonte di arricchimento. A questo proposito essi propongono di figurarsi l’uomo avvolto in una serie di cerchi concentrici. Il primo circonda l’individuo; poi, in successione, c’è quello che circonda i nostri vicini, i nostri concittadini, i nostri compatrioti sino al cerchio più ampio, che racchiude l’umanità come un tutto indistinto. Il cittadino cosmopolita è colui che risulta in grado di orientare tutti i cerchi verso il centro, facendo sì che tutti gli uomini diventino in qualche modo i nostri concittadini (cfr. Nussbaum 1997, p. 77). Uno stesso riferimento al cosmopolitismo può quindi suggerire due atteggiamenti distinti: il confine può essere un’istituzione da negare, esattamente come tutte le altre istituzioni umane, oppure un’istituzione da riconoscere e, per quanto possibile, da rispettare.
Anche se risale a molti secoli fa, questa distinzione risulta tutt’altro che superata. Al contrario, oggi che il cosmopolitismo «is back» (Harvey 2000, p. 529), essa riassume, in modo lapidario e conciso, il senso dei problemi attualmente in discussione. Per esempio: è possibile definirsi cittadini del mondo pur continuando a riconoscere la legittimità dei confini politici esistenti? Oppure: come stabilire la gerarchia o l’ordine di precedenza tra le diverse appartenenze, ciascuna delle quali dipende dalla specificità delle comunità che si trovano a livelli diversi e dalle relazioni che intercorrono tra di esse? Poste così, domande come queste sembrano riportare l’intera questione sul piano della filosofia morale, almeno da quando Charles Beitz o Martha Nussbaum hanno riproposto il problema di come rendere il cosmopolitismo morale compatibile con l’appartenenza nazionale e la libertà democratica (cfr. Beitz 1983, pp. 591-600; Nussbaum 1992). Il cosmopolitismo aggiornato proposto da questi autori presuppone la capacità (o implica la necessità) di considerare le proprie scelte, decisioni, azioni eccetera senza assumere i confini come l’orizzonte prioritario e determinante di riferimento. Si tratta di un ideale che consente di proporre una concezione della giustizia che globalizza i principi destinati altrimenti a rimanere circoscritti entro i confini di un paese, così da orientare la condizione globale nella direzione di un ordine giuridico che eviti di anteporre gli interessi e gli obblighi di coloro che vivono al di qua del confine rispetto a quelli che vivono al di là. Ciò non significa sostenere che ogni agente morale sarebbe tenuto a osservare e applicare gli stessi doveri positivi verso chiunque altro a prescindere dalla propria collocazione all’interno di una comunità umana concreta, costituita per discendenza o affinità, genealogia o affiliazione. Significa piuttosto riconoscere, da un lato, l’eguale dignità di tutte le persone e, dall’altro, che esistono vincolanti e univoci doveri negativi nei confronti di ogni essere umano - nel senso che ciascuno è tenuto a non danneggiare il proprio connazionale e lo straniero allo stesso e identico modo. Il cosmopolitismo, in questa versione, è un’etica universalistica che nega la rivendicazione di quelli che in teoria morale sono chiamati “obblighi speciali” e porta perciò a considerare il confine come una realtà semplicemente irrilevante dal punto di vista morale.
Questa prospettiva suggerisce due considerazioni. In primo luogo, il cosmopolitismo morale, almeno quando giudica il confine come un’istituzione da negare o da superare, sembra corrispondere a una concezione politica priva di spazialità, improntata cioè a una sorta di dequalificazione dello spazio, senza centro né periferia, senza OrtungOrdnung, vuoto di misure e indifferenziato, quasi che fosse possibile organizzare i processi politici senza tracciarne i confini. Si tratta di una concezione che può certo essere coerente con il fatto che nelle questioni morali l’orizzonte di riferimento è costituito dall’umanità, ma lo è molto meno con il fatto che nelle questioni etico-politiche l’orizzonte è invece costituito da molteplici proiezioni spaziali e da altrettanto numerose linee confinarie artificiali. Per il cosmopolitismo politico, infatti, uno spazio deterritorializzato non è più uno spazio, appunto, politico, poiché la democrazia ha bisogno di contesti, implica dei “contenitori” effettivi dove in caso di conflitto gli interessati possano appellarsi a pretese giuridiche, come, per esempio, in caso di conflitti per la distribuzione delle risorse.
In secondo luogo, va osservato che la controversia tra cosmopoliti e “sovranisti” (per sintetizzare in modo brutale una discussione ben altrimenti articolata) fa riferimento a un’idea di confine che dipende in modo sostanziale dal concetto di appartenenza. È come se, cioè, per gli uni come per gli altri l’appartenenza fosse concettualmente associata al territorio sul quale si vive, da un lato, e fosse necessariamente vincolata all’osservanza dei nostri doveri, dall’altro. Gli interrogativi che valgono per gli uni valgono perciò anche per gli altri. Per esempio: è possibile o è invece irrealistico chiedere ai cittadini di assumersi alcuni specifici doveri verso gli estranei senza che i primi avvertano questi doveri come un’imposizione fatta calare autoritariamente dall’alto o come una sorta di trasferimento ingiustificato di risorse? Oppure: i nostri doveri si arrestano ai confini del nostro gruppo (più o meno ampio) di attaccamento, alla comunità tenuta insieme da vincoli, lealtà e affiliazioni radicati e profondi, che portano a percepire i connazionali come persone in qualche modo “familiari” e tutti gli altri come “stranieri”, o si spingono invece sino a comprendere anche cerchie più ampie, capaci di includere forme di solidale responsabilità verso chiunque anche quando non vi sia alcuna ragionevole aspettativa di una contropartita?
A partire dalla metà degli anni ‘90 ha cominciato a emergere una nuova forma di cosmopolitismo: il cosmopolitismo politico o istituzionale (cfr. Rovisco, Nowick 2011). Si tratta di una declinazione politica, e non più o non più soltanto morale, del cosmopolitismo, poiché il sentirsi membri di una comunità globale non significa tanto porre in dubbio la validità delle proprie forme di vita quanto designare una cittadinanza mondiale effettiva anche a livello giuridico-politico. In altre parole, l’espressione “cittadino del mondo” ha cessato di rendere conto soltanto di una certa condizione dello spirito, nobilitata da sentimenti astratti di amore per l’umanità o da un generico senso di giustizia, ma è stata intesa per la prima volta in senso letterale. In effetti, la “costellazione postnazionale” ha contribuito a restituire valenza normativa a un ideale altrimenti confinato alle discussioni accademiche, in particolare promuovendo l’esigenza di imporre limiti e vincoli efficaci al potere e di creare strutture di agency democratica a livello transnazionale e globale, come, ad esempio, nelle proposte dei teorici della “democrazia cosmopolitica” (cfr. Archibugi, Held 1995; Archibugi 2003 e 2008).
Ora, la ripresa dell’ideale cosmopolitico avvenuta in anni recenti si configura in modo tale da modificarne in modo significativo alcuni dei tratti originari. Di fatto, il cosmopolitismo si trasforma da istanza morale a istanza politica, da utopia capace di attirare su di sé l’accusa di generare sentimenti anti-civici a teoria normativa capace invece di motivare all’azione politica. Questa trasformazione riposa su una precisa diagnosi del nostro tempo, secondo la quale le nuove sfide che impattano sulle istituzioni statali contemporanee e ne rendono sempre più evidenti i limiti rendono necessario fare in modo che le azioni efficaci da attuare da un punto di vista politico allo scopo di trasformare le relazioni politiche e sociali esistenti siano intraprese anche dai cittadini oltre che dagli Stati. Ed è questa la tesi che giustifica l’uso della nozione di cosmopolitismo, poiché si tratta di considerare le condizioni di possibilità di una cittadinanza che non sia immediatamente coestensiva al territorio dello Stato di appartenenza. Una diagnosi, dunque, che implica un progetto, al centro del quale vi è la questione “tecnica” degli assetti giuridici e istituzionali che si rendono necessari per integrare lo schema dominante di potere politico territoriale: in che modo è possibile riconfigurare gli elementi politico-istituzionali (confini e giurisdizione territoriale) suscettibili di promuovere un modello di cittadinanza distinto dalla nazionalità e nella cui prospettiva i diritti umani universali possano accompagnare e integrare i diritti nazionali? In risposta a questa domanda, i teorici della democrazia cosmopolitica propongono di creare un contesto istituzionale che regoli democraticamente Stati e società e che, senza essere ovviamente una replica delle forme di democrazia conosciute a livello nazionale, traslitteri a livello globale il modello della democrazia costituzionale di tipo liberale. Held, per esempio, offre prescrizioni dettagliate a favore di un quadro costituzionale globale che comprenda parlamenti sovranazionali a livello regionale e globale e di una serie di riforme destinate a mitigare deficit e fratture democratici (cfr. Held 1999, pp. 267-286). Altri democratici cosmopolitici patrocinano riforme da introdurre in maniera graduale e che includono sia parlamenti globali o congressi dei popoli, sia il conferimento di qualità costituzionali alla Carta delle Nazioni Unite (cfr. Archibugi, Beetham 1998).
Ciascuna di queste proposte solleva naturalmente domande ulteriori, prima fra tutte quella relativa alla possibilità di creare istituzioni sovranazionali distinte da quelle nazionali o subnazionali sulla base di un rapporto di complementarità o di sussidiarietà inversa, per così dire. In effetti, le uniche istituzioni politiche di taglia sovranazionale oggi conosciute sono le istituzioni intergovernative o interstatali. Si tratta ancora, però, di istituzioni che riprendono il modello degli Stati nazionali e che vanno poco più in là di un semplice coordinamento di attività di singoli Stati. Le comunità e le organizzazioni internazionali si danno la forma di costituzioni o di trattati funzionalmente equivalenti, senza perciò acquisire già un carattere globale. Una delle proposte di punta della democrazia cosmopolitica è quella di articolare a livello globale due tipi di istituzioni: le istituzioni intergovernative da un lato (come l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, l’Unione Europea o l’Unione Africana e come le organizzazioni interstatali che hanno competenza in un campo specifico, dal Fondo monetario internazionale all’Organizzazione mondiale del commercio, per esempio) e le istituzioni cosmopolitiche dall’altro, basate su un ideale universale di uguaglianza tra i cittadini. Questa articolazione dovrebbe permettere di cominciare a costruire i primi anelli della catena della ratificazione giuridica democratica di una politica interna mondiale (per ora) di là da venire.

4. Se il cosmopolitismo è una teoria che si pone l’obiettivo di rendere sostanzialmente irrilevanti i confini politici, che ne è del senso tradizionale del territorio, ossia dello spazio decisionale che stabilisce la portata territoriale della legislazione e delle decisioni collettive? I detrattori del cosmopolitismo politico contemporaneo tendono a ispirarsi alle ben note osservazioni critiche di Kant, che, nella Dottrina del diritto, osserva che uno Stato mondiale potrebbe facilmente degenerare nel dispotismo a causa della difficoltà di governare territori sconfinati e di arginare ineliminabili spinte centrifughe (cfr. Kant 1971, p. 313 e p. 542). In questo senso, sarebbe irrealistico (o peggio) immaginare di poter ripetere il modello politico rivelatosi a suo tempo vincente. Ovvero: come in passato gli individui si sono uniti, sacrificando la loro libertà naturale, in una comunità organizzata in Stato sotto leggi coattive, trovando la soluzione nello Stato, così ora si tratterebbe di spingere gli Stati a unirsi, sacrificando la loro sovranità, in una “comunità cosmopolitica sotto un unico sovrano”, trovando la soluzione uno Stato di Stati – lo Stato dei popoli. Questo genere di critiche tende però a sovrastimare il pericolo di una (assai improbabile) statalizzazione della società mondiale politicamente costituita, e a sottostimare le tendenze (ben altrimenti concrete) della governance sovranazionale ad affrontare tutte le questioni pratiche in termini immediatamente funzionalistici.
A queste osservazioni, che riprendono l’obiezione tradizionale dei “realisti” e che afferma il primato ontologico-sociale del potere sul diritto, è possibile opporre un’alternativa, ispirata agli ideali del cosmopolitismo morale, che afferma invece la priorità del diritto sul potere e che perciò pone l’accento sulla necessità di promuovere una sfera di civiltà globale nella quale possano trovare risonanza gli ideali dell’illuminismo, dei diritti umani e dei principi umanitari. Il cosmopolitismo politico-giuridico è un’alternativa ulteriore: esso mira a suggerire un complesso di regole istituzionali a livello globale che, pur astenendosi da ogni progetto di Stato mondiale, possano essere comunque in grado di indirizzare la condizione globale nel senso di un ordine giuridico mondiale orientato in senso cosmopolitico. Non è necessario, cioè, né accettare la ripartizione dei confini politici definita da linee territoriali come l’esito inevitabile della contingenza storica, come continuano ostinatamente a fare i “realisti”, né immaginare un mondo senza confini politici e giurisdizionali, come tendono invece a fare i cosmopoliti “morali”, che tendono a ignorare la centralità delle istituzioni che regolano la vita associata. Si tratta piuttosto di considerare i confini politici come soluzioni istituzionali che risultano legittime solo a condizione di soddisfare le richieste di giustizia.
Per questo, è importante considerare il cosmopolitismo politico-giuridico come una visione teorica impegnata a situare la nozione di Stato in una prospettiva storica, e quindi a mettere in discussione la coincidenza dei concetti di confine, sovranità, potere eccetera con il loro funzionamento moderno. Se, in linea generale, nelle forme e nelle modalità con le quali il potere viene esercitato risuona l’eco dei mutamenti che investono i soggetti che detengono la capacità di imporre i loro interessi in decisioni onnivincolanti, ciò significa che il confine così come lo conosciamo rappresenta soltanto una tra le diverse modalità di utilizzo della divisione territoriale che circoscrive l’ambito dell’organizzazione politica. I confini e le proprietà che essi comportano sono mutati nel tempo e continuano tuttora a mutare. In contrasto con l’idea che essi siano un dato “naturalisticamente” precostituito, il cosmopolitismo politico-giuridico poggia da un lato sull’osservazione che il senso e la funzione dei confini si trasformano sia nel tempo che nello spazio, e dall’altro sul fatto che, nonostante essi siano tornati di attualità, questo «non significa che corrispondano a ciò di cui l’attualità avrebbe bisogno» (Graziano 2017, p. 9). E anzi, è proprio il rinnovato appello alla solidità dei confini che impedisce di vedere quanto gli attributi e i significati del territorio si siano modificati rispetto al passato, anche recente, al punto da rendere la struttura spaziale della vita collettiva non più coerente con l’organizzazione razionale del mondo.
Ora, se è evidente che le correnti della globalizzazione operano in modo da erodere le strutture territoriali precostituite, in che modo queste tendenze possono incontrarsi con i progetti cosmopolitici volti ad affrontare le contraddizioni insite in un concetto di territorialità che non appare più al passo con le trasformazioni che stanno investendo la scala di organizzazione della società umana? La proposta dei teorici della democrazia cosmopolitica consiste nell’idea di creare un contesto istituzionale che regoli democraticamente Stati e società e che, senza essere ovviamente una replica delle forme di democrazia conosciute a livello nazionale, estenda a livello globale il modello della democrazia costituzionale di tipo liberale. In sostanza, la strategia sembra essere quella di sostenere che non vi sia un solo principio d’inclusione democratica, ma che ve ne sono diversi, e che sia importante distinguere le loro differenti funzioni in relazione al problema democratico dei confini. Il principio che caratterizza la loro proposta è lo all affected principle, per cui le comunità politiche e le constituencies si ridefiniscono a seconda degli interessi e dei problemi in gioco.
È qui, probabilmente, che l’interpretazione cosmopolitica delle relazioni globali investe più direttamente la questione del confine, nel senso che esso non appare più, o almeno non sempre, come l’istituzione politica più adatta per valutare l’impatto delle decisioni degli Stati sugli interessi degli individui. Il ricorso al principio di sussidiarietà quale principio fondamentale dell’azione politica corrisponde a un concetto più aperto, o almeno “poroso”, di confine, poiché implica che la scala pertinente sia quella più vicina alle persone interessate dalla decisione. Ma cosa significa essere “interessati” da una decisione politica? David Held propone di classificare l’intensità in base alla quale si può essere influenzati da una decisione: fortemente (se sono in gioco interessi vitali), moderatamente (se è in gioco la partecipazione ad attività politiche ed economiche) e debolmente (se è in gioco soltanto lo stile di vita) (cfr. Held 2010, p. 72 e pp. 172-177). La questione della partecipazione al processo decisionale deve quindi essere associata al modo in cui si è interessati da una decisione: le persone “significativamente toccate” da una decisione (vale a dire gli individui che rientrano nelle prime due categorie) devono partecipare alla determinazione del funzionamento e della regolamentazione di tali forze, direttamente o indirettamente tramite rappresentanti politici. Questo principio non è quindi solo un mezzo per rendere più democratico il processo politico decisionale, ma è anche un principio eminentemente cosmopolitico poiché non fa più dipendere la partecipazione dall’origine della persona interessata.
Non si tratta di garantire che la decisione dipenda solo dalle persone coinvolte, che porterebbe a sottoporre le scelte politiche esclusivamente a interessi particolari, ma di garantire che l’esercizio del potere politico implichi la partecipazione anche di coloro che dovranno subirne le conseguenze. Sostenere perciò che il confine nazionale non dispone di alcun “privilegio ontologico” non equivale a negarlo; la scala nazionale rimane rilevante per molte domande, e rimane e probabilmente rimarrà la più importante, anche nell’ambito della governance regionale o globale. Equivale soltanto ad affermare che i confini sono uno strumento e non un fine e che, come ogni altro oggetto politico, possono assumere ruoli e significati diversi a seconda delle circostanze o delle opportunità. E non si tratta neppure di cedere all’invocazione retorica di un mondo senza confini: le forme del potere, dell’economia e del diritto non sono sganciate dal suolo, dallo spazio e dai territori, poiché il diritto morale e giuridico degli esseri umani di attraversare le frontiere deve coesistere con una pubblica autorità responsabile per il territorio occupato dalla popolazione residente. Il cosmopolitismo statista di tipo politico-giuridico serve però a rimettere in discussione alcuni presupposti che la teoria democratica mainstream tende a dare tacitamente per scontati, a partire da una definizione del concetto di popolo che tende a sovrapporre l’ethnos con il demos e che finisce così per mettere da parte gli interrogativi e la riflessione sull’appartenenza politica, ovvero sulle condizioni di ingresso e di uscita vigenti in una società.


Bibliografia

Ambrosini M. (2014), Non passa lo straniero? Le politiche migratorie tra sovranità nazionale e diritti umani, Cittadella, Assisi.
Archibugi D. (2009), Cittadini del mondo. Verso una democrazia cosmopolitica, Il Saggiatore, Milano.
Archibugi D., Held D. (a cura di, 1995), Cosmopolitan Democracy. An Agenda for a New World Order, Polity Press, Cambridge.
Archibugi D., Beetham D. (1998), Diritti umani e democrazia cosmopolitica, Feltrinelli, Milano.
Beitz C. (2005), Justice Beyond Borders. A Global Political Theory, Oxford University Press, Oxford.
- (1999), Political Theory and International Relations, Princeton University Press, Princeton, NJ.
- (1994), Cosmopolitan Liberalism and the States System, in Political Restructuring in Europe, a cura di C. Brown, Routledge, London.
- (1983), Cosmopolitan Ideals and National Sentiment, «Journal of Philosophy», n. 10/LXXX, pp. 591-600.
Benhabib S. (2008), Cittadini globali, il Mulino, Bologna.
- (2006), I diritti degli altri, Cortina, Milano.
Brown W. (2013), Stati murati, sovranità in declino, Laterza, Roma-Bari.
Cassarino J.P. (2006), Approaching Borders and Frontiers: Notions and Implications, Cooperation Project on the Social Integration of Immigrants, Migration and the Movement of Persons, European University Institute, Florence.
Donnan H., Wilson T. (1999), Borders: Frontiers of Identity, Nation and State, Berg, Oxford.
Goodin R. (2007), Enfranchising All Affected Interests, and Its Alternatives, «Philosophy and Public Affairs», n. 1/XXXV, pp. 40-68.
- (1998), What is So Special about Our Fellow Countrymen?, «Ethics», n. 4/XCVIII, pp. 663-686.
Gramsci A. (1975), Quaderni del carcere, Quaderno 15, Einaudi, Torino.
Graziano M. (2017), Frontiere, il Mulino, Bologna.
Habermas J. (1999), La costellazione postnazionale. Mercato globale, nazioni e democrazia, Feltrinelli, Milano.
- (1998), Lo stato-nazione europeo. Passato e futuro della sovranità e della cittadinanza”, in Id., L’inclusione dell’altro, Feltrinelli, Milano.
Harvey D. (2000), Cosmopolitanism and the Banality of Geographical Evils, «Public Culture», n. 2/XII, pp. 529-564.
Held D. (2010), Cosmopolitanism. Ideas and realities, Polity Press, Cambridge.
- (1999), Democrazia e ordine globale. Dallo stato moderno al governo cosmopolitico, Asterios, Trieste.
Kant (1971), Principi metafisici della Dottrina del Diritto, in Id., Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, a cura di N. Bobbio, L. Firpo, V. Mathieu, UTET, Torino.
- (1795), Per la pace perpetua, in Id., op. cit..
Mezzadra S., Neilson B. (2014), Confini e frontiere. La moltiplicazione del lavoro nel mondo globale, il Mulino, Bologna.
Mouffe C. (2007), Sul politico. Democrazia e rappresentazione dei conflitti, Bruno Mondadori, Milano.
Newman D. (2003), On Borders and Power: A Theoretical Framework, «Journal of Borderlands Studies», n. 1/XVIII, pp. 13-25.
Nussbaum M. (1999) Coltivare l’umanità, Carocci, Roma.
- (a cura di, 1992), For Love of Country, Beacon Press, Boston.
O’Neill O. (2000), Bounds of Justice, Cambridge University Press, Cambridge.
Panagiotidis D., Tsianos V. (2007), How to Do Sovereignty without People? The Subjectless Condizion of Postliberal Power, «Boundary 2: International Journal of Literature and Culture», n. 1/XXXIV, pp. 135-172.
Pogge T. (2010), Povertà mondiale e diritti umani, Laterza, Roma-Bari.
- (1992), Cosmopolitanism and Sovereignty, «Ethics», n. 1/CIII, pp. 48-75.
(1989), Realizing Rawls, Cornell University Press, Ithaca (NY).
Richards D. A. J. (1971), A Theory of Reasons for Action, Clarendon Press, Oxford.
Rovisco M., Nowicka M. (a cura di, 2011), The Ashgate Research Companion to Cosmopolitanism, Ashgate, Farnham.
Sassen S. (1998), Fuori controllo, Il Saggiatore, Milano.
Scuccimarra L. (2006), I confini del mondo. Storia del cosmopolitismo dall'Antichità al Settecento, il Mulino, Bologna.
Taraborelli A. (2011), Il cosmopolitismo contemporaneo, Laterza, Roma-Bari.
Tesón F. (2003), The Liberal Case for Humanitarian Intervention, in Holzgrefe J. L., Keohane R. O. (a cura di), Humanitarian Intervention: Ethical, Legal, and Political Dilemmas, Cambridge University Press, Cambridge.
- (1997), A Philosophy of International Law, Westview Press, Boulder, CO.
Van Parijs P. (2011), Linguistic Justice for Europe and for the World, Oxford University Press, Oxford.
Ypi L. (2016), Stato e avanguardie cosmopolitiche, Laterza, Roma-Bari.



E-mail:



torna su