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Dialettica dell’Umanesimo

Fiorella Battaglia
Articolo pubblicato nella sezione "Tra le righe"

È sufficiente una semplice ricognizione delle espressioni usate per caratterizzare l’intelligenza artificiale nell’ambito del discorso pubblico per rendersi conto di come l’Umanesimo agisca come dispositivo culturale autolegittimantesi. Le espressioni coprono lo spazio concettuale di una semantica coerente. Si va dall’intelligenza cui ci rimettiamo per le nostre decisioni, di cui ci fidiamo, a quella responsabile, e poi umana e infine buona o anche benefica, che apporta benefici a coloro che la usano. Come si è arrivati a una tale posizione culturale che dovrebbe orientare lo sviluppo, in molti tratti sempre più dipendente dalla digitalizzazione, del nostro futuro? Da più parti il richiamo è all’Umanesimo, ma si tratta di chiedersi se la ripresa illuministica di alcuni motivi propri dell’Umanesimo, in particolare quella che possiamo ricondurre al canone dell’antropologia kantiana, sia davvero fedele all’ispirazione originaria o, piuttosto, non approfondisca le tensioni contenute nel manifesto di Pico della Mirandola. Credo che la ripresa odierna dell’Umanesimo ne tradisca l’impetus originario, per perpetuare forme e tradizioni, che si sono imposte fino ad ora, senza confrontarsi con gli elementi di negatività di tale tradizione. Le sue tesi sono dogmatiche perché affermano che sarebbero possibili solo le trasformazioni compatibili con lo status quo. Ma questo elogio del presente è proprio quanto l’Umanesimo voleva mettere in discussione. L’Oratio de hominis dignitate di Pico della Mirandola coltiva un sogno in cui al carattere creativo e autoriale dell’umano non sono poste condizioni. Se la latitudine delle metamorfosi dell’umano non è aperta, come mai la ripresa attuale di alcuni motivi dell’Umanesimo ritiene di poter segnare dei confini e dettare le condizioni d’immutabilità dell’umano? La definizione di alcuni aspetti inalterabili dell’umano agisce come una condizione necessaria che renderebbe possibile la realizzazione di quel programma di liberazione dalle catene e dai condizionamenti, siano essi naturali e/o sociali. A ben vedere è proprio questo l’argomento usato dai propugnatori del “nuovo Umanesimo”: bisogna essere pronti a ridurre l’autonomia in vista di proteggere la libertà. Con “nuovo Umanesimo” intendo il tentativo politico di ricorrere all’Umanesimo italiano per orientare normativamente il processo di digitalizzazione delle nostre società senza veramente confrontarsi con gli aspetti problematici delle sue tesi. Solo mantenendo alcune caratteristiche sarebbe possibile garantire un’evoluzione coerente con quei tratti iniziali. Al cambiamento è necessario che qualcosa rimanga immutabile. Solo intorno a tale nucleo inalterabile sarebbero possibili aggiustamenti e modifiche. Ma com’è determinato il nucleo inalterabile? E, soprattutto, quali sono le possibilità e modalità con cui lo possiamo chiaramente individuare? La tesi di quest’articolo è che l’innesto di motivi illuministici e razionalistici nell’impianto dell’Umanesimo italiano ha sviluppato aspetti coercitivi che erano proprio quelli contro i quali si rivolgeva l’impeto umanistico originario. Per comprendere tale evoluzione vale la pena analizzare più da vicino lo sviluppo delle idee dell’Umanesimo. Il nucleo dell’Umanesimo così come si è evoluto dal Settecento a oggi è stato molto influenzato da Kant e dalla sua concezione dell’individuo libero. Tuttavia si è passati da una filosofia che è la celebrazione dell’autonomia dell’individuo a una sua evoluzione in cui non sono assenti tratti dispotici e tirannici. La motivazione alla base di quest’analisi è critica: tale filosofia, infatti, non è adatta a fornire elementi normativi per indirizzare il progresso tecnologico perché quanto più si cristallizza in elementi d’immutabilità tanto più produce tensioni e lacerazioni. Il punto di non ritorno è rappresentato da una concezione in cui la ragione è considerata come unica fonte di conoscenza e agli elementi empirici e al sapere pre-teoretico della vita quotidiana non è lasciata nessuna possibilità d’incidenza. Anche le esperienze quotidiane e le pratiche comunicative condivise non vi avrebbero nessuna autorità. Nella misura in cui agli aspetti empirici e pre-teoretici non è riconosciuta autorità, si afferma una continuità normativa esterna al processo di valutazione. La verità sulla nostra costituzione metafisica sarebbe fornita da modelli di razionalità. Questi soltanto validerebbero le nostre pratiche e le nostre attribuzioni di libertà. Prospettive che coltivassero sogni di forme di esistenza radicalmente nuove sarebbero da considerare come delle mere illusioni (cfr. Nida-Rümelin, Weidenfeld 2019).
La storia del rapporto tra verità e politica è contrappuntata da posizioni tra loro in competizione. Una prima possibilità considera la filosofia detentrice della verità, in grado di fissare i valori secondo i quali condurre la nostra vita. Tale visione è inconcepibile senza una certa violenza. Nel mito della caverna, il filosofo visionario deve lottare contro i suoi concittadini, che si ostinano a non vedere il sapere che il filosofo ha conquistato nella propria ascesa. La violenza è diretta contro il filosofo, ma questo non cambia nulla. Non bisogna dimenticare che tali tratti autoritari caratterizzano anche l’approccio di Eraclito. La soluzione che vede la filosofia come una sorta di agenzia etica introduce una discriminazione. Il fatto che le persone si battano per una vita buona e giusta rimane un mistero irrisolto. Agostino e Campanella hanno dubitato dell’autorità della filosofia nella questione riguardo alla vita buona e giusta. A loro avviso è la religione che domina la vita sia nel mondo terreno, nella civitas terrena, sia nel regno di Dio, nella civitas dei. Per la prima volta nell’Umanesimo si è emancipato un altro attore, l’essere umano come attore politico. Il rapporto di filiazione stretta tra Umanesimo e Illuminismo è stato oggetto di analisi. Per i nostri scopi due osservazioni sono rilevanti. La prima riguarda il fatto che le dottrine dell’Umanesimo fanno parte esclusivamente dell’autocomprensione delle élite (cfr. Troeltsch 1977). La seconda che durante l’Illuminismo non mancano voci critiche. Sul fronte dell’emancipazione delle donne, si levano voci dissonanti, che denunciano la presunta universalità esemplare fatta valere nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789. Nel momento stesso in cui il riconoscimento di un’universale natura umana diventa patrimonio comune, pubblicamente condiviso, sorgono quelle istanze critiche che anche oggi alimentano il dibattito sulle ineguaglianze (cfr. Bora 2002). Se l’Illuminismo ha portato a compimento il processo di autonomia della politica, denunciando sia le limitazioni dell’Umanesimo sia quelle proprie, nel frattempo emergeva un altro tipo di sapere, che aspira a esercitare autorità rispetto alle scelte individuali e collettive, indebolendo perciò su un altro fronte l’autonomia della politica. Interferendo nel processo di emancipazione della politica dalla filosofia e dalla religione interviene l’apparizione di un attore finora sconosciuto, la scienza. Con Francis Bacon, al quale Kant dedicherà la sua Critica della ragione pura, nasce una visione secondo la quale la conoscenza scientifica ha come obiettivo il bene dell’uomo: conoscere e padroneggiare la natura è la chiave per la felicità. La combinazione di ricerca naturale sperimentale, tecnologia e uso industriale della natura è caratteristica del mondo di oggi. Nell’Illuminismo lo spirito rivendicativo ha due idoli polemici: non si esplica soltanto nei confronti delle strutture sociali opprimenti, ma anche nei confronti dello scientismo imperante. Questo bisogno si è fatto strada in maniera chiara, non a caso, nel momento in cui i progressi scientifici hanno avanzato un’ipoteca non solamente sulla comprensione del mondo esterno, ma anche di quello interno. Ecco perché Kant si situa all’inizio di questa riflessione, che deve soddisfare diverse istanze: capacità di mediazione, da un lato, con i diversi ambiti della ricerca scientifica e tecnologica e, dall’altro, con la dimensione culturale della società umana. È qui che si mostra foucaultianamente l’incrocio di motivi metafisici con il privilegio della tecnica.
La persistenza dell’utopia scientista nella cultura odierna è palpabile guardando sia al manifesto del transumanesimo sia al più moderato manifesto delle scienze cognitive. L’obiettivo di un tale approccio globale prescinde da considerazioni circa i metodi e gli oggetti di ricerca, suggerendo che le questioni vengono affrontate integralmente sulla base di un’interpretazione che ha di mira gli obiettivi senza discutere altre dimensioni pur importanti. È interessante che i sostenitori dello scientismo concepiscano se stessi come gli eredi degli ingegneri del Rinascimento, senza tuttavia considerare che nel Rinascimento la divisione del lavoro scientifico non impediva loro di porsi domande riguardo al senso delle loro attività. La situazione odierna è molto mutata. La scienza non ha alcuna esitazione a estendere l’atteggiamento “imperialista” anche al mondo della vita. Essa tende a considerarsi come l’ultima istanza che determina l’ontologia, che decide dell’esistenza delle cose che popolano il nostro mondo. Questo è l’aspetto più problematico dello scientismo: il suo voler applicare le proprie categorie e istanze veritative al di là del campo specifico dei propri oggetti scientifici, la sua tendenza, insomma, a estendere al tutto ciò che vale per territori parziali. Dal punto di vista antropologico lo sforzo di produrre una coerente immagine di sé s’identifica con l’autodeterminazione razionale. Tale immagine si deve adattare a un unico modello, a un’unica forma di vita che alcuni riconoscono con più facilità rispetto a altri. Tale aderenza alla razionalità, benché avvertita come costrizione, non è altro che il retrogusto amaro della libertà. Alcuni ne fanno esperienza, altri invece rimarrebbero nella cattività senza la possibilità di emanciparsi. L’ambivalenza insita in un tale progetto, una volta individuata, si legge in ogni passaggio della filosofia kantiana, riproducendo in alcuni luoghi la separazione che discrimina tra gli eletti e i reprobi.
Torniamo allora al presente. Come agisce un tale dispositivo in un mondo digitalizzato? Quanto più la digitalizzazione avanza, tanto più viene messo in questione il carattere dell’umanità. Gli umani più tecnologici sono sempre umani? O invece hanno abdicato alla loro condizione? E l’allineamento ai valori caratterizzanti l’umanità è una garanzia sufficiente a sostenere il carattere immutabile di diversi tratti della loro natura?
I paladini dell’ethos del nuovo Umanesimo non combattono contro le forze oscure dell’antiumanesimo. La mia tesi, dunque, è che la dialettica dell’Umanesimo non è quella tra Umanesimo e antiumanesimo, ma quella tra Umanesimo e nuovo Umanesimo. Al centro della mia analisi sono gli elementi, contenuti in germe nello stesso Umanesimo, che si sono poi rovesciati in aspetti dal carattere coercitivo. Intendo sistematicamente criticare la posizione che è stata derivata dall’Umanesimo e che si traduce in quegli elementi d’immutabilità, criticati in precedenza, rintracciabili nella seguente tesi: nulla di ciò che gli esseri umani fanno, credono o scelgono può alterare lo stato di qualche presunto elemento della nostra natura umana. A questa tesi si contrappone uno dei pilastri dell’Umanesimo, il suo tentativo di fare sul serio con l’idea che tutto il sapere, anche la conoscenza obiettiva della moderna scienza della natura, è in tutto e per tutto sapere umano, che non si può separare dall’agire umano. Questa posizione, mentre può da un lato apparire banale, dall’altro configura una serie di nuclei problematici, che senza entrare troppo nel dettaglio, possiamo definire di carattere metafilosofico e metaetico. Se tutto il sapere ricava il proprio senso a partire dal rapporto che intrattiene con le condizioni umane, cosa accade di questo sapere? Se tutti i concetti ottengono il proprio significato solo nel loro uso concreto, se sono dipendenti dalla costituzione e dall’attività dell’organismo, e perciò consegnati agli stimoli e ai bisogni, alle percezioni dei sensi e ai ricordi, sì insomma al pulsare della vita, su cosa si basano allora la legittimità e la possibilità di spiegazione? La difficoltà di questa mossa di fondazione del sapere umano a partire dalle condizioni della sua stessa possibilità riposa nella sua forma riflessiva. Occorre forse precisare che questa forma di autorità non si legittima solo di fronte a opzioni teologiche o filosofiche. Questa forma di autorità del sapere si volge, con le proprie istanze di validità, anche contro le posizioni scientiste e, più in generale, contro quelle posizioni che attribuiscono legittimazione politica agli esperti, scavalcando le pratiche sociali. Il processo di autolegittimazione, che voglio qui sostenere, parte dal basso e include forme di comunicazione e d’interazione comune.
Tanto per rendersi conto della radicalità di questa proposta, che esige un totale rinnovamento dell’epistemologia, voglio riportare un esempio kantiano. Rispetto alla legittimità di un sapere umano, Kant dichiara che nessuna legge cui gli esseri umani avessero accordato validità avrebbe potuto limitare la libertà razionale. Quindi la libertà razionale è, secondo Kant, qualcosa d’immutabile e di trascendente al di là delle pratiche epistemiche umane. Se ne traggono due conclusioni. Come detto prima, tale libertà razionale non può essere alterata da nessuna convinzione, azione o scelta compiuta dagli esseri umani. Di conseguenza anche in Kant prendono forma elementi autoritari e coercitivi. Gli sforzi che dovrebbero garantire una completa autodeterminazione si rovesciano nella costrizione verso una sola forma di vita. È questo il punto di svolta in cui le intenzioni liberatorie dell’Umanesimo vengono capovolte in una dottrina i cui elementi assumono un carattere dispotico e tirannico. Tale trasformazione spinge a rivedere i presupposti dell’Umanesimo. Secondo Isaiah Berlin, l’individuo libero di Kant è un essere trascendente al di là del regno della necessità (Berlin 1969). Questa è la critica mossa da Isaiah Berlin alla filosofia politica dell’idealismo tedesco. È interessante cogliere gli elementi comuni alle due tradizioni, apparentemente molto distanti, entrambe però molto bene equipaggiate, per mettere in luce gli aspetti totalizzanti fatti propri dal nuovo Umanesimo. Il proposito di alzare una barriera tra umani e macchine, perché così sarebbe più facile proteggere la futura esistenza degli umani sulla terra, fallisce perché in realtà azzera gli aspetti più creativi e individuali degli umani, riducendo le forme di vita in principio a una sola forma di vita giusta. Questa è anche la critica che mi sento di formulare nei confronti del nuovo Umanesimo. Kant è da un lato l’iniziatore di una tradizione influente, che ha argomentato a favore dell’autonomia e dell’autodeterminazione. Dall’altro lato con Kant si potenzia una tradizione, di origine stoica, secondo la quale non si tratta di svolgere una funzione critica nei confronti della società, ma di sfidare i bisogni e padroneggiarli. L’identificazione con la legge è un’uscita dallo stato di minorità: sono sempre sottoposta alla legge ma dato che me la sono imposta da sola sono autonoma e perciò libera. L’assunzione, difficile da condividere, è che nessuno possa schiavizzare se stesso. Questa evoluzione conduce all’identificazione di un processo, quello razionale, che a propria volta porta alla legittimazione di una sola forma di vita, quella che il nuovo Umanesimo identifica come elemento immutabile della condizione umana: in buona sostanza nulla di ciò che gli esseri umani fanno, credono o scelgono è capace di alterare lo stato degli elementi immutabili della nostra natura umana. Insomma non vi è spazio per un’autentica valutazione. La Scuola di Francoforte ha fornito una diagnosi chiara. Adorno e Horkheimer criticano l’assenza di una progettualità aperta dell’umano. Alle declinazioni contemporanee dell’Umanesimo possono applicarsi le critiche di Horkheimer all’antropologia del Novecento, che considera la natura dell’essere umano come determinata da costanti e strutture invarianti che sono considerate come basilari. Horkheimer sottolinea l’errore di tali approcci, che non prendono in considerazione il carattere storicamente mutevole e la costruzione della propria identità, di cui gli esseri umani sono autori e autrici (Horkheimer 1935). Anche Sartre nega, con la sua tesi paradossale dell’esistenza prima dell’essenza, la chiusura a priori di ogni progetto antropologico (Sartre 2007). Se si vuole fare sul serio, con la digitalizzazione, e coglierne i benefici, non ci si può appiattire su una mera conservazione del già stato. Per quanto questo possa apparire capace di orientare il nostro agire, non si possono tralasciare gli elementi di debolezza menzionati in precedenza. La sua validità deve essere messa in gioco attraverso il confronto/scontro con elementi critici (diseguaglianze, discriminazioni, dominio, ingiustizie, ecc.). Le tensioni che ne emergono non possono essere risolte aprioristicamente facendo riferimento a un modello di razionalità che rimane muto rispetto a questi elementi di negatività.
La digitalizzazione può portare al massimo sviluppo le possibilità non solo biologiche, ma anche quelle non biologiche potenzialmente presenti nel nostro bagaglio naturale e simbolico (cfr. Persson, Savulescu 2012). Non sarà però il nuovo Umanesimo a evitare il rovesciamento in esiti disumanizzanti, ma piuttosto una fruizione critica delle stesse promesse legate alla digitalizzazione. Innanzitutto occorre tenere conto del modo in cui concettualizziamo il fenomeno che informa tutte le innovazioni tecnologiche: la tecnica. In primo luogo l’abbiamo concepita come compensazione dei deficit biologici dell’umano. Cassirer osservava che alla base dell’agire tecnico c’è una relazione mezzo-scopo che presuppone un attore razionale che agisca in maniera cooperativa. Questa parte della caratterizzazione è quella più conservativa, che non mette in discussione la dotazione umana attuale. Non è però esaustiva per comprendere fino in fondo il fenomeno della tecnica. Vi è un secondo elemento, che è quello della cultura. Se analizziamo la tecnica da questo punto di vista, allora dovremo ammettere che essa è parte della creatività e libertà dello spirito e, pertanto, in grado di modificare l’assetto umano. È capace di avere effetti trasformativi tali da sconvolgere l’ontologia del nostro mondo. Su questa duplice caratterizzazione s’innestano successive considerazioni. La prima è che la tecnica può essere concepita come un mezzo di liberazione dai vincoli naturali e, così, garantirci per esempio l’esonero da operazioni difficili, ripetitive e pericolose. La tecnica, però, può essere concepita anche come rischio di alienazione degli umani da se stessi. Qui potenzialmente si collocano i profili di disumanizzazione. Nella filosofia della tecnica c’è l’idea del conformarsi alle forme obiettive dell’attività umana e perciò, in tal modo, di attribuire a esse una funzione di mediazione dell’autocomprensione. Nella tecnica sarebbe possibile conoscere ciò che ne è di noi. La tecnica mette in luce il fatto che le azioni da essa mediate comportano sempre un intervento concreto nell’ambiente materiale e, quindi, sempre anche una forma di rapporto con la natura. Poiché l’essere umano stesso appartiene alla natura, ciò include anche un certo rapporto con noi stessi e, pertanto, anche con la dimensione immateriale, simbolica e normativa. Quindi noi non soltanto ci ritroviamo nei nostri manufatti, ma soprattutto ci riconosciamo in essi (cfr. Kapp 2018). Questa tesi permette a Kapp di spiegare il corpo umano in termini di organismo ricorrendo all’oggettivazione degli strumenti da noi creati. Questo è il tipico spostamento che la filosofia della tecnica consente di attuare con benefici epistemici. Pensare gli organi umani in analogia con gli artefatti. Concepiti come alienazione inconscia dell’umano, gli organi appaiono ora, da questa prospettiva rovesciata, come estensioni di artefatti. L’oggettivazione permessa da questa deviazione epistemica permette di considerarli dei modelli per la loro esplorazione e interpretazione. C’è tuttavia un caveat. Una volta che il modello per la loro comprensione è quello degli artefatti, allora essi perdono il loro volto interno. Indubbiamente gli artefatti e il loro contesto funzionale sono inerentemente soggetti a leggi, è chiaro che essi possono fungere da modello per la ricerca sull’organismo umano, a condizione però che anch’esso sia inteso limitatamente a quelle configurazioni che sono governate da leggi naturali. Questo detour epistemologico ha un indubbio valore. È però condannato a non riuscire a rendere conto né dei processi psicofisici né di quelli normativi. Quando, per esempio, utilizziamo la metafora dell’uomo macchina, allora dobbiamo essere avvertiti delle dimensioni che inevitabilmente vanno a fondo. Occorre aggiungere che per gli esseri umani è inaggirabile discutere sulla propria costituzione e identità. Ciò accade attraverso pratiche riflessive e nell’interazione sociale. Perciò non è sbagliato considerare la dialettica della partecipazione alle pratiche sociali come parte essenziale dell’essere umano. Non bisogna intendere tale esercizio come un esercizio solo cognitivo. La natura sociale di questo processo riflessivo e il fatto che si eserciti attraverso risposte emotive suggerisce che il processo di partecipazione si dispone su assi differenti: certamente individuali e collettivi, ma anche cognitivi ed emotivi. È molto importante comprendere che questo processo non è mai qualcosa che è determinato dall’esterno. Applicare la misura della coerenza razionale, significherebbe negare giustificazione ai processi riflessivi prima descritti. Perciò gli elementi di questa identificazione riflessiva non devono essere presi a prestito né dalla scienza né da un’altra istanza che volesse ergersi al di sopra dei processi e delle pratiche. Tali elementi sono punti di riferimento per il giudizio. Sono razionalmente ed emotivamente vincolanti e forniscono sia orientamento sia motivazione a lungo termine per l’azione. Tali immagini o dispositivi normativi, qualora dovessero servire a dare ai giudizi un fondamento più solido, dovrebbero sempre muoversi all’interno di una caratterizzazione che li considerasse come questioni di giudizio e decisione comune, come una sorta di processo di co-creazione, e non d’indagine e scoperta indipendente. Il programma di macchinizzazione dell’umano è una conseguenza del successo dei programmi di ricerca nell’ambito dell’intelligenza artificiale forte. Quello che tali programmi non considerano è la perdita delle dimensioni simboliche e normative che partecipano alla definizione dell’umano con ugual titolo rispetto alla dimensione oggettivabile che si esprime con l’adesione alla legalità naturale che in altri casi l’azione umana addirittura sovverte. L’adesione condizionata a un progetto, che non coltiva sogni di forme nuove di esistenze perché si affida a un’unica forma di vita, quella indicizzata dall’Umanesimo, non è ciò che occorre per muoverci nel mondo complesso della digitalizzazione.
Due punti meritano di essere affrontati con chiarezza pur nella brevità di questo contributo, per dare maggiore concretezza al dibattito pubblico ben informato che deve essere alla base dei processi normativi che ispirano le scelte in tema di innovazione tecnologica e sociale: mi riferisco in primo luogo al criterio che guida tale dibattito pubblico e in secondo luogo agli attori e alle attrici di tale dibattito. Il criterio non potrà essere che quello dell’inclusione con la limitazione che non tutte le posizioni sono ammesse al processo. Escluse dal processo sono, infatti, tutte quelle posizioni che sono compromesse da ipoteche razziste, omofobe e sessiste. Per fare un esempio, una decisione che fosse in sintonia con tali posizioni non sarebbe sicuramente da considerare ammissibile. Per quanto riguarda il secondo punto, il soggetto coinvolto nel processo valutativo è sicuramente chi è investito da questi stessi processi di innovazione. Data l’ubiquità delle possibilità tecnologiche, si preferisce parlare di sistemi tecno-sociali. Ecco, il soggetto coinvolto in tali sistemi è chi partecipa anche ai processi valutativi e decisionali. Non è, infatti, sufficiente una partecipazione meramente passiva ma ciò che si richiede è il rispetto del diritto alla definizione dei fini.
Dobbiamo piuttosto individuare i rischi dell’alienazione e della disumanizzazione, ma essere, allo stesso tempo, disponibili al cambiamento. Solo così sarà possibile porre in essere cose che non sono esistite in passato.


Bibliografia

Berlin I. (1969), Two concepts of Liberty, in Four Essays On Liberty, Oxford University Press, Oxford, pp. 118-172.
Bora P. (2002), Diversità culturali e differenze di genere: complessità e comunicazione, in A. Fabris (a cura di), Comunicazione e mediazione interculturale, Edizioni ETS, Pisa, pp. 65-82.
Horkheimer M. (1935) Bemerkungen zur philosophischen Anthropologie, in «Zeitschrift für Sozialforschung», 4(1), pp. 1-25.
Kapp E. (2018), Elements of a Philosophy of Technology. On the Evolutionary History of Culture, Minnesota University Press. Minneapolis.
Nida-Rümelin J., Weidenfeld N. (2019), Umanesimo digitale. Un’etica per l’intelligenza artificiale, FrancoAngeli, Milano.
Persson I., Savulescu J. (2012), Unfit for the future. The need for moral enhancement, Oxford University Press, Oxford.
Sartre J.-P. (2007), Existentialism is a Humanism. Yale University Press, New Haven.
Troeltsch E. (1977), Aufklärung, in Graf F. W., Albrecht C., Drehsen V., Hübinger G., Rendtorff T. (a cura di), Kritische Gesamtausgabe, Beiträge zu Enzyklopädien und Lexika (1897-1914), Berlin, New York, De Gruyter; tr. it. G. Cantillo, L’essenza del mondo moderno, Bibliopolis, Napoli.



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