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Rappresentanza e democrazia digitale

Gianmarco Gometz
Articolo pubblicato nella sezione "La rappresentanza politica tra quantità e qualità"

1. La democrazia digitale

I termini sinonimi “democrazia digitale”, “e-democracy” e “democrazia elettronica” designano vari impieghi delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione come mezzo per lo svolgimento delle procedure egualitarie di autogoverno del popolo sia nei vari “invited spaces” di partecipazione istituiti e regolati dall’ordinamento giuridico, sia in “invented spaces” organizzati e fruiti dai cittadini in qualche misura autonomamente, informalmente e spontaneamente (cfr. Gometz 2017, p. 19 ss.; Kersting 2013). Le tecnologie digitali vengono oggi proficuamente impiegate non solo nella fase delle consultazioni popolari, ma anche in molti altri momenti della partecipazione dei cittadini all’autogoverno collettivo: iniziativa legislativa, esercizio del diritto di voce, controllo ex post dell’attività parlamentare, verifica dell’esecuzione delle decisioni democraticamente adottate e altre forme di coinvolgimento o intervento dei cittadini nelle scelte pubbliche, a tutti i livelli ordinamentali.
Le manifestazioni della e-democracy più rilevanti sul piano del kratos di autogoverno del demos sono senza dubbio quelle riconducibili alla democrazia elettronica diretta e alla democrazia elettronica rappresentativa. La prima è quella che si attua mediante procedure digitalizzate funzionali al concorso disintermediato dei cittadini alle decisioni politiche adottate ai vari livelli ordinamentali; la seconda prevede l’impiego delle tecnologie digitali come mezzo per lo svolgimento delle procedure con cui i cittadini designano, eleggono e valutano i rappresentanti delegati ad adottare le decisioni politiche collettive nelle varie sedi istituzionali.
Nel prossimo paragrafo, metterò a confronto queste due declinazioni della democrazia elettronica riepilogando i motivi che hanno determinato il sostanziale fallimento dei propositi di usare le tecnologie digitali come strumento di partecipazione democratica diretta. Nel § 3 evidenzierò alcune criticità delle forme di democrazia digitale ideate a supporto degli odierni assetti istituzionali basati sulla rappresentanza, concentrandomi in particolare sulle piattaforme di democrazia elettronica interna ai partiti. Concluderò che l’informalità e la presunta disintermediazione della partecipazione dei cittadini ai processi decisionali implementati in queste piattaforme rischiano di celare delle insidiose forme di rappresentanza abusiva, invisibile, mistificante e politicamente irresponsabile.


2. Democrazia digitale diretta vs rappresentanza

L’impresa teorica e tecnologica della e-democracy nasce soprattutto dal tentativo di risolvere i problemi d’ordine materiale, logistico e temporale che da sempre hanno impedito alle volontà di ingenti moltitudini di cittadini di farsi direttamente volontà generale e dunque legge. Nelle intenzioni dei suoi primi e più entusiastici fautori (cfr.Toffler 1970; Naisbitt 1982; Barber 1984; Hollander 1985; Negroponte 1995; Grossman 1995; Lévy 2002), la democrazia elettronica è infatti uno strumento inteso a far rientrare finalmente il demos nel pieno esercizio di una sovranità troppo a lungo amministrata per il tramite della rappresentanza: mero ripiego o surrogato, se non addirittura simulacro, della forma più alta e compiuta di democrazia, quella diretta, in cui i cittadini partecipano alle decisioni politiche collettive senza bisogno di rappresentanti eletti. Questo accostamento, fiorente soprattutto negli ultimi due decenni del XX secolo e nei primi anni Duemila, risente dell’influenza di Rousseau, Bryce, Marx e altri classici critici della rappresentanza, ma include un giudizio critico ulteriore: la democrazia rappresentativa viene infatti descritta come vero e proprio relitto storico, reso inutile dalla possibilità di raccogliere e computare per via elettronica, a costi irrisori, le preferenze politiche trasmesse istantaneamente da milioni di cittadini dislocati in territori vastissimi. L’avvento dell’era digitale sarebbe infatti destinato a rivoluzionare le democrazie del XXI secolo aprendo la strada a: 1) un contributo del demos esteso alla definizione dei contenuti delle decisioni pubbliche e non più limitato al mero avallo/rigetto di proposte preconfezionate e combinate nei pacchetti programmatici dei partiti tradizionali (cfr. Budge 1996, pp. 1,15, 133 ss., 161); 2) la partecipazione di ogni singolo cittadino a un’autentica deliberazione democratica intesa come discussione ponderata e ragionevole che precede la votazione (cfr. Bohman e Rehg 1997; Elster 1998; Hongju Koh e Slye 1999; Macedo 1999; Freeman 2000); 3) consultazioni popolari non occasionali o periodiche, bensì continuative (cfr. Lévy 2002, pp. 91-92); 4) una riduzione dell’apatia politica e della scarsa partecipazione che costituirebbero i sintomi più preoccupanti dell’asserita crisi odierna della democrazia rappresentativa (cfr. Wright 2011, p. 11 ss.); 5) il miglioramento degli esiti sostanziali delle procedure democratiche, o quantomeno il rafforzamento della loro legittimazione (cfr. Noveck 2009; Landemore 2012).
Nonostante il formidabile sviluppo delle tecnologie digitali negli ultimi quarant’anni, neanche uno dei menzionati propositi e pronostici dei fautori della democrazia elettronica diretta si è realizzato apprezzabilmente. I numerosi esperimenti che avrebbero dovuto mostrare al mondo le capacità democratizzanti delle tecnologie digitali sono infatti rimasti tali, confinati a una dimensione meramente locale e perlopiù non reiterati, nonostante le massicce dosi di buona volontà e di entusiasmo iniziali (si vedano ad esempio i presunti “successi” della democrazia elettronica menzionati da Barber 1998-99). La disponibilità delle nuove tecnologie, inoltre, non ha innescato cambiamenti di rilievo nelle “regole del gioco” delle odierne democrazie liberali, che sono rimaste fondamentalmente inalterate, ammettendo tutt’al più che le tradizionali consultazioni popolari potessero svolgersi anche con l’ausilio di sistemi di voto elettronico (cfr. Lindner, Aichholzer e Hennen 2016, p. 4). Sul versante della partecipazione, infine, l’uso generalizzato dei nuovi media non sembra affatto aver arrestato, e anzi secondo alcuni ha aggravato, la crescita dell’apatia politica, la sfiducia nei confronti della democrazia e della politica nel suo complesso (cfr. Clarke 2013).
La mancata realizzazione degli obiettivi dei “cyber-utopisti” (cfr. Morozov 2011) della democrazia elettronica diretta può addebitarsi ad almeno due ordini di motivi.
Il primo è prettamente tecnico: nessuno tra i sistemi congegnati per consentire ai cittadini di esprimere e comunicare digitalmente la loro volontà individuale in vista dell’adozione di decisioni collettive è stato finora in grado di aumentare in modo apprezzabile la loro influenza politica salvaguardando al tempo stesso le esigenze di sicurezza ed accessibilità richieste per una partecipazione popolare effettiva, genuina e paritaria. Per “sicurezza” qui si intende la capacità di garantire la corrispondenza tra l’autentica volontà dei cittadini, considerati individualmente e nel loro complesso, e i risultati ufficiali della loro consultazione, ciò che richiede come minimo misure volte a mettere il cittadino-utente nella condizione di esprimere e far valere liberamente le sue preferenze politiche al riparo da coercizioni, controlli ed altre interferenze esterne (dunque anonimamente e segretamente), e inoltre l’impiego di sistemi in grado di resistere agli attacchi diretti ad alterare il risultato ufficiale delle consultazioni, allontanandolo dalla fedele rappresentazione della volontà dei votanti. Per “accessibilità” dei sistemi democratico-elettronici si intende invece la loro effettiva fruibilità da parte dei titolari di diritti politici, e dunque la capacità di raccogliere e codificare la volontà politica dell’intera cittadinanza piuttosto che soltanto di una sua parte provvista degli occorrenti requisiti materiali, tecnici, culturali e intellettuali (analisi più approfondite delle criticità menzionate in questo capoverso sono in Fioriglio 2017, p. 272 ss. e Gometz 2017, p. 153 ss.).
Un secondo ordine di motivi della mancata implementazione della democrazia elettronica diretta fuori dai contesti meramente sperimentali o “micro” rileva sul piano normativo-istituzionale. Una democrazia elettronica senza rappresentanza come quella prospettata dai cyber-utopisti, in cui tutti i cittadini decidono tendenzialmente su tutto, ovunque si trovino, continuamente e alquanto informalmente, stride con gli assetti tipici delle democrazie odierne, che prevedono a livello costituzionale un ruolo prioritario della democrazia rappresentativa, relegando la democrazia diretta ad ambiti sostanzialmente e formalmente ben circoscritti. Tali costituzioni prevedono inoltre che il voto sia personale, libero, eguale e segreto, ciò che complica alquanto il ricorso a forme di voto elettronico a distanza, ossia non presidiato da pubblici ufficiali. Una seria proposta di implementazione della democrazia elettronica diretta negli ordinamenti giuridici odierni non può insomma limitarsi all’indicazione delle modalità tecniche più acconce per la rilevazione della volontà politica dei cittadini, ma deve opportunamente inserirsi in un progetto organico di riforma che in primo luogo eviti di prospettare palingenesi illegittime o addirittura eversive de iure condito (ciò che è tutt’altro che insolito nella letteratura dedicata al tema), e in secondo luogo definisca delicatissime questioni di ingegneria istituzionale in una prospettiva de iure condendo, stabilendo sul piano giuridico-normativo su che cosa, come e quando il demos possa decidere utilizzando i nuovi istituti di democrazia diretta digitalmente mediata (così anche Fioriglio 2017, pp. 148 e 157, che muove da una nozione di democrazia elettronica quale «forma complementare della democrazia rappresentativa in cui si ha l’istituzionalizzazione di strumenti di democrazia diretta, deliberativa e partecipativa che consentono un esercizio della sovranità popolare in maniera più o meno mediata in ambiti specifici, con poteri sia consultivi sia legislativi»).
Questi due ordini di problemi interferiscono tra loro in una sorta di retroazione viziosa. Da una parte, i summenzionati deficit di accessibilità e sicurezza scoraggiano l’adozione di progetti di riforma istituzionale rivolti all’incremento della partecipazione popolare per via elettronica, giacché incidono su principi non negoziabili quali l’autenticità, personalità, eguaglianza, libertà e segretezza del voto, nonché sulla possibilità stessa di parteciparvi padroneggiando il medium a ciò occorrente. Da un’altra parte, il fatto stesso che gli assetti istituzionali delle odierne liberaldemocrazie siano basati sulla rappresentanza disincentiva lo sviluppo di tecnologie per la partecipazione elettronica diretta, se non nei ristretti ambiti in cui essa è attuabile a seguito di innovazioni legislative tutto sommato marginali: i referendum, attraverso la regolazione e lo sviluppo di tecnologie accessibili e affidabili di voto elettronico; l’iniziativa popolare legislativa e referendaria, mediante l’adozione e l’impiego ad hoc di sistemi di identità digitale sufficientemente sicuri, diffusi ed efficienti (cfr. Gometz 2017, p. 98 ss.); il c.d. open government, in cui le tecnologie digitali possono essere impiegate in varie iniziative tese a coinvolgere i cittadini nelle decisioni relative allo specifico modo in cui realizzare gli obiettivi predeterminati in sede di indirizzo politico, specie a livello amministrativo locale (cfr. ivi, p. 31 ss., 77 ss.).


3. La rappresentanza digitale nelle piattaforme di democrazia interna ai partiti: opportunità e rischi

I problemi menzionati nel paragrafo precedente aiutano a spiegare come mai le forme di democrazia elettronica più funzionali alla determinazione degli indirizzi politici generali dello stato siano ancora oggi quelle impiegate dai cittadini non per decidere direttamente il da farsi, ma per decidere chi deve deciderlo, in accordo a un principio di rappresentanza definito da Luigi Ferrajoli come «una convenzione, un principium iuris, più d’ogni altro [...] idoneo a selezionare i soggetti delegati alle funzioni di governo» (Ferrajoli 2007, p. 168). In queste declinazioni della e-democracy, che abbiamo visto esser riferibili alla c.d. democrazia elettronica rappresentativa, le tecnologie digitali possono essere proficuamente utilizzate dal demos come medium di indirizzo e controllo politico sia nel momento delle consultazioni popolari finalizzate alla scelta e all’elezione dei rappresentanti istituzionali (col voto elettronico, alle condizioni di cui si parlava sopra), sia nelle fasi precedenti e successive a tali consultazioni; si pensi alla partecipazione dei cittadini alla definizione dell’agenda e dei programmi dei partiti politici, alla designazione dei candidati alle elezioni, al controllo dell’operato dei rappresentanti eletti, alla comunicazione bidirezionale tra eletti ed elettori ecc.
Tra le varie applicazioni della democrazia elettronica rappresentativa, le più interessanti e al tempo stesso problematiche sono forse le piattaforme tecnologiche impiegate nel contesto della democrazia digitale interna ai partiti politici. Un noto esempio, in Italia, è dato dalla piattaforma Rousseau, finora utilizzata per raccogliere i contributi, i voti e le manifestazioni di sostegno degli iscritti al MoVimento 5 Stelle in ordine a singole iniziative o risoluzioni, alla designazione dei candidati a vari uffici pubblici o alla redazione di proposte di legge che gli eletti del partito si impegnano a presentare in parlamento. Sulla scorta del MoVimento 5 Stelle, altri partiti politici, in Italia e all’estero, hanno adottato piattaforme web dalle funzionalità simili. In Spagna può ricordarsi la piattaforma Participa del partito Podemos (https://participa.podemos.info/es), in Argentina DemocraciaOS, sviluppato da un gruppo vicino al Partido de la Red (https://democraciaos.org/es ), e, tornando all’Italia, lo statuto del PD prevede all’art. 30 l’allestimento di «una piattaforma deliberativa on-line per l’analisi, il confronto, l’informazione, la partecipazione e la decisione, ovvero per la fase della discussione e del dialogo che precede e accompagna le decisioni assunte dagli organi rappresentativi e di direzione del partito».
Ancorché spesso qualificate impropriamente come strumenti di democrazia elettronica diretta, queste piattaforme sono un formidabile strumento di partecipazione democratica attraverso i partiti con cui i cittadini possono concorrere alla selezione dei propri rappresentanti politici designando i candidati ai relativi uffici pubblici. È inoltre almeno in qualche misura riconosciuta agli iscritti la possibilità di partecipare alla definizione del programma del partito e dell’agenda politica dei rappresentanti eventualmente eletti nelle sedi istituzionali (sia pure – è il caso di ricordarlo – in modo non giuridicamente vincolante, dato il divieto di mandato imperativo sancito dalla Costituzione italiana e dalla gran parte delle altre costituzioni democratiche, ciò che costituisce una ragione in più per ascrivere questi strumenti alla categoria della democrazia rappresentativa e non a quella diretta). Va da sé che le procedure digitalmente mediate con cui vengono operate queste scelte sono genuinamente democratiche solo a certe condizioni. Nessuna autentica rappresentanza politica, infatti, può riscontrarsi in quelle piattaforme in cui le scelte sui candidati e sui programmi, pur formalmente imputate agli iscritti, vengono in realtà adottate da soggetti che non li rappresentano né in senso statistico né in senso politico-normativo. Ciò può accadere ad esempio quando le consultazioni siano condotte tramite piattaforme informatiche private la cui gestione, lungi dall’essere trasparente ai controlli interni ed esterni, sia opaca e affidata a soggetti imperscrutabili nel loro operato. In questi casi è infatti impossibile verificare pubblicamente e con sufficienti margini di attendibilità che chi esercita un potere di amministrazione sulla piattaforma non alteri fraudolentemente gli esiti delle consultazioni dei cittadini-utenti vedendo come ciascuno di essi ha votato, profilandoli in modo da escluderli da successive consultazioni, cambiando o cancellando le loro preferenze, attribuendo ad esse peso diverso ecc., il tutto in maniera non tracciabile e dunque invisibile all’esterno (ciò che contravviene fra l’altro agli standard internazionali in materia di voto elettronico raccomandati nei documenti “E-voting handbook - Key steps in the implementation of e-enabled elections” pubblicato dal Consiglio d’Europa a novembre 2010 e “Recommendation CM/Rec(2017)5 of the Committee of Ministers to member States on standards for e-voting” adottato dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa il 14 luglio 2017).
Altre possibili degenerazioni della rappresentanza politica operante attraverso le piattaforme informatiche di democrazia interna ai partiti riguardano non l’alterazione fraudolenta dei risultati delle consultazioni degli utenti, bensì il loro possibile pilotaggio da parte degli amministratori del sistema, sempre però operato in modo da salvare le apparenze della partecipazione democratica genuina e vincolante degli iscritti. Tale manipolazione può esplicarsi in varie forme, ad esempio: a) delimitando una sorta di sandbox del decidibile, ossia stabilendo in via esclusiva quali siano le questioni da trattare nella piattaforma e impedendo o inibendo qualsiasi libera iniziativa degli utenti in ordine alla scelta dei themata decidendum; b) predeterminando tutte le alternative opzionabili dagli utenti senza includere nel loro novero quelle per qualche motivo sgradite agli amministratori; c) formulando i quesiti somministrati attraverso la piattaforma in modo da favorire le risposte più gradite agli amministratori; d) determinando in modo arbitrario i tempi della discussione/votazione o prevedendo speciali quorum o soglie di maggioranza, magari con l’intento nascosto di favorirne o impedirne il raggiungimento; e) stabilendo un particolare ordine delle questioni da deliberare; f) istituendo dei poteri di veto formalmente giustificati da funzioni di garanzia, controllo ecc. che consentano di annullare le deliberazioni elettroniche che abbiano prodotto risultati non conformi agli obiettivi degli amministratori. Anche qui siamo in presenza di procedure di decisione collettiva che dietro l’apparenza della piena e immediata partecipazione degli iscritti alla determinazione dell’agenda politica dei propri rappresentanti istituzionali celano l’occulta ma decisiva influenza di chi controlla tecnicamente e normativamente gli strumenti digitali che di quel potere decisionale dovrebbero essere mero veicolo espressivo.
Una soluzione dei problemi fin qui elencati potrebbe passare per l’istituzione di un sistema di controlli sul funzionamento di queste piattaforme svolti da autorità di garanzia o agenzie tecniche pubbliche (ad esempio, in Italia, AgID), oppure da appositi organismi inter-partitici operanti secondo procedure di rilevanza pubblicistica rivolte alla verifica degli standard internazionali prescritti nei documenti citati sopra. In subordine (o, meglio ancora, in aggiunta), si potrebbe adottare un sistema di voto elettronico verificabile end-to-end, ossia in grado di consentire a ciascun utente del sistema di accertare che il suo voto sia stato inserito correttamente nell’urna elettronica, e a chiunque di stabilire che tutti i voti trasmessi siano stati conteggiati regolarmente (si veda ad esempio Hao et al. 2020). Nessuna iniziativa di questo tipo, tuttavia, è attualmente alle viste in Italia, dove una disposizione piuttosto ambivalente come l’art. 49 della Costituzione e l’assenza di una legislazione organica in materia lasciano ai partiti politici un’autonomia organizzativa che consente di prevedere a livello statutario notevoli attenuazioni del principio di democrazia interna, e quindi di svincolare le proprie piattaforme tecnologiche da controlli pubblici o privati di sorta. La piattaforma Rousseau, ad esempio, è sottoposta soltanto a controlli volontariamente affidati a notai e a non meglio precisate società specializzate in sicurezza informatica e, quantomeno nella sua prima implementazione, ha manifestato gravi criticità già sanzionate dal Garante per la protezione dei dati personali italiano nel Provvedimento su data breach n. 83 del 4 aprile 2019 [9101974].
Questo atto contiene una serie di censure e raccomandazioni che vale la pena di riportare in quanto rilevanti non solo per la materia della protezione dei dati personali (pur riscontrata decisamente carente nel caso in questione), ma anche per il tema che qui più ci interessa: la garanzia della regolarità e affidabilità del funzionamento delle piattaforme tecnologiche di democrazia interna ai partiti. Nel provvedimento in esame, infatti, il Garante contesta l’esposizione dei risultati delle votazioni degli utenti di Rousseau a possibili accessi, alterazioni o soppressioni occulte da parte degli addetti tecnici alla gestione della piattaforma, rilevando inoltre che l’integrità, l’autenticità e la segretezza delle espressioni di voto sono state affidate soltanto «alla correttezza personale e deontologica degli incaricati di queste delicate funzioni tecniche, cui viene concessa una elevata fiducia in assenza di misure di contenimento delle azioni eseguibili e di suddivisione degli ambiti di operatività, cui si aggiunge la pratica certezza che le attività compiute, al di fuori del ristretto perimetro soggetto a tracciamento, non potranno essere oggetto di successiva verifica da parte di terzi». Il Garante inoltre manifesta forti perplessità sul significato da attribuire al termine “certificazione” riferito all’intervento di un notaio o di altro soggetto terzo di fiducia in una fase successiva alle operazioni di voto, con lo scopo di asseverarne gli esiti: «Non c’è dubbio, infatti, che qualunque intervento ex post di soggetti di pur comprovata fiducia (notai, certificatori accreditati) poco possa aggiungere, dal punto di vista della genuinità dei risultati, in un contesto in cui le caratteristiche dello strumento informatico utilizzato, non consentendo di garantire tecnicamente la correttezza delle procedure di voto, non possono che produrre una rappresentazione degli esiti non suscettibile di analisi, nell’impossibilità di svolgere alcuna significativa verifica su dati che sono, per loro natura e modalità di trattamento, tecnicamente alterabili in pressoché ogni fase del procedimento di votazione e scrutinio antecedente la c.d. “certificazione”» (cfr. punto 3.4 del provvedimento).
Le contestazioni del Garante a Rousseau costituiscono ancora oggi un utile promemoria di cosa non si deve fare se si vuole allestire una piattaforma di democrazia elettronica interna degna di questo nome (sempre che non la si voglia destinare alla mera ratifica delle decisioni già adottate dai suoi amministratori, come nota Barberis 2020, p. 76). Gli stessi gestori di Rousseau hanno in seguito dichiarato di aver tenuto conto di tutte le criticità rilevate dal Garante assicurando «la sicurezza, la privacy, la trasparenza e la robustezza» della nuova “area voto” implementata nella piattaforma, le cui votazioni sono ora «certificate da un notaio che ha accesso in tempo reale al monitoraggio del sistema di voto» (quindi, si suppone, non più soltanto attraverso verifiche effettuate ex post; cfr. https://www.ilblogdellestelle.it/2019/08/la-verita-sul-voto-su-rousseau-le-10-fake-news-a-cui-non-credere.html). Resta il fatto che senza un sistema di controlli pubblici e/o end-to-end sulle votazioni del tipo di quelli sopra raccomandati, anche queste rassicurazioni si fondano in ultima analisi su garanzie alquanto labili e più adatte ai contesti dell’autonomia privata che a quelli di elevata rilevanza democratica, e dunque pubblicistica, quali sono le consultazioni degli iscritti operate in seno alle piattaforme digitali dei partiti.
A conclusione di queste notazioni sulle piattaforme partitiche di rappresentanza digitale, occorre accennare al diffuso luogo comune secondo cui le implementazioni della democrazia elettronica negli invented spaces rientranti nell’autonomia organizzativa dai partiti politici e delle altre formazioni sociali ove si svolge la personalità degli individui, benché difettose sotto uno o più aspetti tra quelli sopra esaminati, vanno comunque apparecchiate e utilizzate in quanto sono “sempre meglio che niente” o “pur sempre un inizio” in quell’avveniristico sforzo di rinnovamento per trial and error diretto a superare le farragini, le iniquità e più in generale l’asserita “crisi” delle procedure democratiche tradizionali. Ebbene, se tali deficit provocano le summenzionate degenerazioni della rappresentanza digitale, allora queste piattaforme sono senz’altro peggio dell’assenza di qualsivoglia innovazione democratico-elettronica, poiché conferiscono alle decisioni adottate in seno a quelle piattaforme un’aura di legittimazione democratica e un’inattaccabilità politica fasulle ma generatrici di fanatismi degni di miglior causa. Nei contesti della giustificazione etico-politica si è invero indotti a trattare queste decisioni come se fossero il genuino prodotto delle libere scelte della maggioranza degli iscritti, e dunque a considerarle come ragioni d’azione indipendentemente dal loro contenuto contingente (cfr. Raz 1986, p. 35 ss.). La piattaforma diventa così uno strumento per corazzare le decisioni politiche degli amministratori rivestendole col consenso apparentemente libero, ma in realtà astutamente pre-indirizzato, manipolato o senz’altro falsificato, di una “base” blandita come la componente più meritevole e rappresentativa della cittadinanza (perché si è iscritta, perché partecipa, si informa, delibera ecc.), in un processo che rende tali determinazioni al tempo stesso più pesanti sul piano politico e meno contrastabili su quello sostanziale. Inoltre, la piattaforma si presta a essere usata come alibi da amministratori che intendano eludere le responsabilità politiche conseguenti alle proprie scelte, le quali potranno essere abusivamente imputate alla base degli iscritti ogni qual volta si intenda scaricare su di essa le colpe per i loro esiti inopinatamente indesiderabili (o opinati ma inconfessabili).
A chi sostenga che quest’uso distopico e dispotico delle tecnologie digitali è sempre “meglio che nulla” si può dunque a ragione ribattere “no, meglio nulla che questo”, giacché le decisioni “calate dall’alto” da rappresentanti che operano come tali alla luce del sole, quantomeno, non nascondono le intenzioni e l’identità dei loro reali autori, non li esentano dalle relative responsabilità politiche e non millantano patenti di democraticità, diretta o rappresentativa.


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