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La rappresentanza come problema della filosofia politica

Giuseppe Duso
Articolo pubblicato nella sezione "La rappresentanza politica tra quantità e qualità"

1. Quale rappresentanza?

Recenti avvenimenti referendari hanno riacceso un dibattito sulla rappresentanza politica nel quale lo stesso contrasto tra le opposte convinzioni appare possibile sulla base del presupposto, non messo in discussione, che sia la rappresentanza a consentire e rendere affettiva la partecipazione democratica dei cittadini alla politica. Del resto questo è un luogo comune della nostra democrazia rappresentativa, e specialmente di una concezione costituzionale della democrazia di tipo parlamentaristico. La rappresentanza è ritenuta il mezzo che non solo realizza la vicinanza dei cittadini al potere, ma anche rende loro possibile influire sulle decisioni politiche. Conseguente è anche la diffusa opinione che compito dei rappresentanti sia quello di rispecchiare e tradurre in decisioni le volontà dei cittadini. Nella maggiore o minore rappresentatività delle istituzioni appare giocarsi l’attuazione dell’idea democratica. Credo che, anche sul tema della rappresentanza, il compito della filosofia politica sia quello, comparso fin dal dialogo messo in atto da Socrate nella polis, di mettere in questione le opinioni diffuse e chiedere ragione di ciò che appare a tutti ovvio (Duso 2008, pp. 123-157). Questo atteggiamento critico della filosofia si rivolge oggi a quei concetti, con cui viene pensata la politica, che sono così diffusi nel senso comune e anche nei modi dell’organizzazione politica da essere ritenuti valori indiscutibili. In questa sede è possibile solo indicare i punti di una riflessione filosofica sulla genesi del concetto di rappresentanza, sulla sua logica e sulle sue aporie, segnalando i testi in cui è presente una argomentazione meno schematica.
L’esigenza di un qualche legame tra la volontà degli elettori e quello che i rappresentanti faranno, si pone, come si vedrà, ma ciò avviene all’interno della funzione centrale che la rappresentanza assume nelle costituzioni moderne: è questa funzione che bisogna innanzitutto intendere. Con la Rivoluzione francese si afferma storicamente un concetto radicalmente nuovo, che nega il ruolo che la rappresentanza aveva nell’Ancien Régime, cioè quello di rispecchiare realtà particolari con le loro istanze, bisogni, privilegi e libertates nei confronti del re, cioè di colui a cui spettava l’esercizio del governo. È questa concezione della politica che viene negata con la nuova costituzione del 1791: nel momento in cui il terzo stato si fa Stato, non ci sono più parti che possano rivestire una funzione politica, come sancisce la legge Le Chapelier, e il popolo non ha più di fronte a sé un’istanza a cui spetti il comando politico, in quanto è esso stesso il sovrano. Nel passaggio da una rappresentanza per ceti alla rappresentanza per testa, nelle elezioni i cittadini sono presenti non in ragione alla loro appartenenza a gruppi o corporazioni diverse, ma al di fuori di ogni relazione che li condizioni, come singoli, liberi ed uguali tra loro. A loro volta i rappresentanti non devono più rispecchiare volontà determinate esistenti: non quelle di gruppi o forme associative e corporative, né quelle dei singoli, cosa che sarebbe non solo indebita ma anche impossibile. Il corpo rappresentativo ha una ben diversa funzione: quella di esprimere la volontà del soggetto collettivo, cioè del popolo. E la volontà del popolo è da rappresentare in quanto non è esistente, non è data: se fosse presente non sarebbe necessario e nemmeno possibile rappresentarla. Si tratta allora non tanto di rispecchiare una volontà che c’è, ma di dare forma a qualche cosa che non c’è nell’esperienza concreta. Il termine di rappresentazione riesce meglio ad esprimere questa funzione formativa, che rimane occultata nel modo comune di intendere la rappresentanza.
Con la Rivoluzione si afferma dunque storicamente quel nesso di sovranità del popolo e rappresentanza politica che, nonostante tutte le trasformazioni, resterà alla base delle costituzioni democratiche. I due concetti sono così legati tra loro da essere impensabili l’uno senza dell’altro. La sovranità del popolo comporta una cifra di assolutezza, richiede obbedienza e non è passibile di resistenza, ma tale assolutezza dipende dal fatto che non si tratta di una qualsiasi forma di potere coercitivo, ma di un potere legittimo in quanto rappresentativo, in quanto cioè in esso è da ravvisare la volontà politica di tutti i cittadini in quanto parte del soggetto collettivo. In questo passaggio epocale della fine del Settecento, questa funzione della rappresentanza dipende dal concetto di popolo prima inconcepibile: esso non consiste più in una realtà composta di parti e gruppi diversi, ma nella totalità dei cittadini uguali. È un concetto che evidenza due lati, che si presentano nella loro immediatezza come opposti tra loro: da una parte il soggetto unico che esprime il comando nella forma di legge, e dall’altra la moltitudine dei cittadini che alla legge devono obbedire. Per comando, nella presente riflessione, non si intende solamente l’aspetto coercitivo e l’uso della forza (che per altro sono implicati), ma quell’insieme di obbligazioni che condizionano la condotta di vita dei cittadini, anche quando sono introiettate e intese, anche inconsapevolmente, come regole del proprio comportamento. L’opposizione diventa evidente se si ha la consapevolezza che l’immaginazione diffusa che in democrazia siano i cittadini ad essere - o a dover essere - sovrani è insostenibile, in quanto, se sovrano è chi agisce sulla base della propria incondizionata volontà, ben si comprende che solo un soggetto collettivo può esserlo. Ma, dal momento che sono i cittadini a costituire il popolo, i due lati opposti dell’unità e della moltitudine devono essere unificati. A questo compito è destinata la rappresentanza, che mostra di comportare due movimenti, il primo, attraverso il quale tutti i cittadini fondano, mediante le elezioni, l’autorità politica, cioè scelgono i rappresentanti, autorizzandoli ad esprimere, per tutti, la volontà del popolo. Il secondo, che logicamente ne consegue, consiste nel fatto che la legge, che prende forma nella deliberazione del corpo rappresentativo, è intesa come la volontà del soggetto collettivo, cioè di tutti. Perciò la legge diventa irresistibile, per il fatto che tutti se ne sono fatti autori mediante le elezioni; da ciò deriva l’obbligo dell’obbedienza anche quando alcune leggi possono apparire ingiuste al sentimento di molti cittadini. Che la resistenza non sia ammissibile risulta in modo esemplare dal dibattito dei Padri costituenti a proposito dell’art. 50 (poi divenuto 54) della Costituzione italiana: questo, che era iniziato con la convinzione che in uno stato finalmente libero dal fascismo fosse naturale affermare il diritto di resistenza alla legge ingiusta, in seguito alla riflessione sulla natura della legge come espressione della volontà del popolo, finisce per affermare semplicemente il dovere di obbedienza ad essa. Questa negazione del diritto di resistenza, teoricamente conseguente nella costituzione democratica, non ha impedito il darsi di fatto nella vita politica di fenomeni di opposizione, che sono stati produttivi anche in relazione alla successiva legislazione.


2. Rappresentanza e sovranità

Se ci si chiede da dove venga, da un punto di vista teorico, questo dispositivo concettuale che si afferma storicamente nelle costituzioni moderne, è necessario risalire alla concezione della sovranità nata nelle dottrine del contratto sociale (cfr. Duso 1987; Jaume 1986), nella quale il potere appare fondato dalla libera volontà degli individui. Il legame tra diritti degli individui e assolutezza del potere può sembrare sorprendente, ma solo se non si intende la logica che si afferma del giusnaturalismo moderno, che partendo dai diritti degli individui conclude al potere di coazione che è insieme prodotto e condizione per l’effettività di quei diritti (cfr. Duso 1987). Corrispettivamente si può dire che un comando che comporta obbedienza sempre, senza che sia possibile condizionare l’obbedienza al proprio giudizio sul contenuto del comando (cfr. Weber 1976, pp. 122-123, tr. it. 209; Duso 2008, pp. 172-176) appare razionalmente giustificabile solo se l’autore del comando è ritenuto colui che obbedisce. Proprio per la necessaria presenza nel concetto di sovranità di questo elemento formale, si può ritenere che la sua genesi sia ravvisabile in Hobbes piuttosto che in Bodin (cfr. Duso 2018). Se si considera la logica del ragionamento che si sviluppa tra i capitoli XIV e XVIII del Leviatano, ci si può accorgere che la sovranità non è un presupposto, ma il punto di arrivo dello svolgimento di questa nuova scienza politica che parte dal concetto di libertà. Che tutti gli individui possano agire liberamente senza trovare opposizione è pensabile solo se essi esprimono le proprie potenzialità senza ostacolarsi reciprocamente, se corrono, secondo la metafora adoperata da Hobbes, all’interno di corsie che impediscono il loro incrociarsi: cioè se ci sono delle regole vincolanti per tutti. Ma prima di arrivare alla formazione del Commonwealth con il sovrano che detta le regole, è necessario risolvere il problema di come sia possibile pensare un’unità politica - non un semplice accordo momentaneo, ma un ordine stabile che garantisca la pace, cioè una persona civile - a partire dai molti individui che sono posti alla base della politica; come sia possibile cioè il passaggio dalla volontà dei singoli a quel soggetto collettivo al quale unicamente può spettare il diritto di esprimere le regole per la vita della società e il potere coercitivo per farle rispettare.
La soluzione di tale questione, che arriva fino a noi e alla nostra costituzione democratica, consiste nel concetto moderno di rappresentanza, quale viene alla luce nel XVI capitolo, consistente nel processo di autorizzazione, nel quale tutti si dichiarano autori delle azioni che l’attore, cioè il rappresentante, farà. La natura rappresentativa del sovrano viene ribadita nello scenario del contratto sociale del capitolo successivo, e nel capitolo XVIII viene a costituire la motivazione dell’assolutezza del suo comando. La sovranità appare dunque pensabile solo grazie al nuovo concetto di rappresentanza, che opera una rottura con quella repraesentatio identitatis che caratterizzava l’universitas medievale ed è stata rilevante per la concezione della politica fino ai trattati politici del primo Seicento (dove si presenta ancora la figura del mandato imperativo), quali la Politica di Althusius (cfr. Hofmann 2007, pp. 225-343). La rappresentanza costituisce il movimento con il quale si genera la persona civile che sarà connotata dalla sovranità: perciò si può dire che, finché essa rimane centrale e decisiva per la democrazia, ciò significa che quest’ultima è concepita ancora nell’orizzonte della sovranità.
La complessità delle costituzioni contemporanee non è certamente leggibile mediante la sola prospettiva hobbesiana: in particolare la considerazione della dignità della persona, delle forme di aggregazione dei cittadini, del mondo del lavoro, della pluralità sociale e anche giuridica mostra i mutamenti avvenuti in relazione alle costituzioni dell’Ottocento (cfr. Fioravanti 2018; Grossi 2017; Duso 2019), tuttavia non sembrano radicalmente superati alcuni elementi di quella logica. Il popolo, per quanto riguarda non tanto l’aspetto della società civile, ma la legittimazione e l’esercizio del potere politico, rimane una grandezza unitaria e ideale. Non è identificabile con i singoli cittadini che votano, e nemmeno con il corpo rappresentativo che fa la legge; è piuttosto una idea, che si esprime nella totalità di questo movimento e insieme lo eccede, in quanto si può tacciare di parzialità qualsiasi rappresentazione che di esso venga istituzionalmente effettuata. In tale continua eccedenza del popolo, e nella sua identificazione con la grandezza costituente, consiste la molla per la dialettica democratica, secondo la quale si può denunciare sempre come tradimento della vera volontà del popolo l’esercizio vigente del potere rappresentativo.
La logica di questo dispositivo concettuale appare rigorosa e tuttavia aporetica. Nonostante la rappresentanza abbia come scopo quello di identificare i due lati del popolo, il processo di autorizzazione presenta un dualismo strutturale: il rappresentante e i cittadini non sono sullo stesso piano per quanto riguarda l’agire politico, in quanto colui che si dichiara autore delle azioni politiche in realtà lo è proprio perché non compete a lui l’azione politica. In questo modo si ha una concezione meramente autoritativa della democrazia, nella quale i cittadini, proprio grazie al loro diritto politico, che consiste nel voto, si trovano a non essere più attivi e presenti per controllarli, correggerli, cooperare e resistere (cfr. Rosanvallon 2015). Ciò deriva dal fatto che la rappresentanza moderna si struttura grazie ad una razionalità formale, secondo la quale coloro che votano scelgano gli attori del comando politico, ma non ne determinano il contenuto: proprio il fatto che il potere sia fondato dal basso comporta che il comando, nel suo concreto contenuto, venga dall’alto e sia irresistibile. Perciò il dispositivo, che tende a mostrare che il potere è del popolo, e perciò di tutti i cittadini, determina, paradossalmente, la loro spoliticizzazione. Conseguentemente si presenta anche la difficoltà, oggi spesso riscontrabile, che in questo modo risulta difficile rintracciare la responsabilità dell’agire politico, in quanto con il dispositivo moderno la soggettività politica appare scissa tra un autore che non compie azioni politiche e un attore di azioni che non sono attribuibili a lui, ma a chi lo ha eletto.
Non si può affermare che non sia diffusa la consapevolezza dello iato determinato dalla rappresentanza e che non sia percepita dai cittadini la lontananza della classe politica, ma una delle carenze che si può ravvisare nell’attuale dibattito sulla democrazia consiste nel fatto che spesso chi denuncia la perdita di protagonismo da parte dei cittadini, ha come punto di riferimento la democrazia diretta, la quale non costituisce che l’altra faccia della democrazia concepita mediante la logica della sovranità. Anche nella democrazia diretta il problema della giustizia è ridotto al piano della razionalità formale, dal momento che giusto, in quanto tale, è ritenuto il comando che proviene dalla volontà del popolo, la quale è sempre altra nei confronti di quella particolare del cittadino, in modo tale che il dualismo creato dalla rappresentanza non appare superato; e questo accade per il legame insopprimibile che, come si è detto, lega sovranità e rappresentanza. Infatti il problema resta sempre quello del passaggio dalla moltitudine delle volontà dei singoli all’espressione dell’unica volontà del popolo, e del dualismo di particolare e universale, individuale e collettivo, privato e pubblico. Un tale passaggio non appare possibile se non attraverso una funzione formativa, di messa in forma della molteplicità indifferenziata (che è tale perché le infinite differenze diventano indefinite), in cui consiste la funzione caratteristica della rappresentanza moderna. Anche in Rousseau, infatti, il processo costituente dello Stato ha bisogno della funzione personale del legislatore, che, se da una parte comporta una problematizzazione della razionalità formale della sovranità, dall’altra è resa necessaria dalla difficoltà di intendere l’azione costituente di un popolo che non è costituito (cfr. Biral 1999, pp. 143-188).
Nelle costituzioni moderne l’esigenza di fare esprimere direttamente il popolo necessita di strumenti quali il referendum, nel quale l’unica volontà del popolo è ottenibile mediante la posizione di una domanda (che non è il popolo a porre) che permetta il conteggio dei e dei no, in modo tale da considerare la maggioranza risultante (spesso una minoranza esigua della popolazione) come la vera volontà del popolo: abbisogna perciò, sia pure al di là del corpo rappresentativo, della funzione tipica della rappresentazione (cfr. Hofmann - Dreier 1989; Dreier 1997). A causa dei procedimenti che richiede, la democrazia diretta si trasforma in democrazia plebiscitaria, in quanto, al di là dell’immaginazione che considera i cittadini come consapevoli e responsabili, anche nel caso del referendum (ad eccezione di quelli che riguardano i temi etici che comporta la loro condotta di vita), come delle elezioni politiche, essi votano sulla base dell’opinione su ciò che non controllano con la loro consapevolezza - e questo riguarda anche i cittadini “colti” -, essendo in tal modo esposti al dominio di chi ha la capacità e i mezzi di influire e formare le opinioni (cfr. Karsenti 2006).
La questione è certamente più complessa, e accanto all’indipendenza del rappresentante, che è sancita nelle costituzioni dalla formula del mandato libero, nelle elezioni si manifesta anche un’altra esigenza, messa in luce dagli studiosi - di vicinanza, corrispondenza e prossimità tra eletto ed elettore - che porterebbe a ritenere che in qualche modo avvenga quella trasmissione di volontà che il processo autoritativo sembra radicalmente escludere (cfr. Pitkin 1967; Rosanvallon 2008). Questo aspetto emerge già nella Rivoluzione francese, nel momento in cui si tratta di dare determinazione a quella volontà del soggetto collettivo che è da rappresentare, in quanto, se l’idea non è determinata, ogni immagine che di essa si rappresenta richiede invece una determinazione particolare. È questo lo spazio ricoperto dai partiti, che nel quadro delle costituzioni moderne costituiscono una necessità e insieme una complicazione. Al di là del ruolo che hanno svolto i grandi partiti di massa, contribuendo a rendere presenti nella politica forze ed esigenze presenti nella società, la mediazione costituita dai partiti non sembra cambiare radicalmente la funzione della rappresentanza, anche perché si iscrive in quella immaginazione della distinzione di società civile e Stato propria delle costituzioni, che relega la pluralità nell’ambito sociale ed intende la scena politica come caratterizzata dai molti cittadini e dall’unità del potere statale, cosa che impedisce di riconoscere una pluralità di soggetti politici (cfr. Böckenförde 1985). Infatti, i partiti non sono manifestazione di pluralità politica, ma si inseriscono nella logica unitaria del potere rappresentativo. Conferma ne è la difficoltà che hanno le costituzioni a considerare la natura dei partiti, che non è quella di organi dello Stato, ma piuttosto, come recita anche la nostra costituzione, di semplici associazioni, nelle quali i cittadini si riuniscono per determinare in modo democratico la vita politica [cfr. Hofmann in Bertolissi, Duso, Scalone (eds) 2008, pp. 26-27]. In realtà si tratta di soggetti autonomi, con una loro organizzazione, che concorrono per quella conquista dell’unico potere legittimo che si esprime nella legge e nel governo, e che, una volta conquistata la maggioranza, potranno far passare la propria volontà particolare come volontà generale (cfr. Duso 2015).
Dal momento che quella forma di trasmissione di volontà che si ravvisa tra eletto ed elettore si basa sul fatto che i candidati sono presentati dai partiti sulla base di programmi elettorali nei quali l’elettore può riconoscersi, ciò richiederebbe che essi fossero vincolati dalle decisioni prese dal partito fuori del Parlamento. È quello che in realtà solitamente avviene, ma che non sembra recepibile dalla costituzione, perché il mandato libero appare connaturato alla funzione legittimante della rappresentanza moderna. Lo “Stato dei partiti”, come nel secolo scorso è stato nominato, comporta, per la costituzione, delle questioni che non appaiono risolte. Si pensi ad esempio a come la presenza dei partiti rischi di rendere lettera morta la divisione di poteri (cfr. Grimm 1991, p. 431), dal momento che le deliberazioni del Parlamento dipendono dall’accordo che avviene, fuori del Parlamento, tra i partiti (sempre più dai capi-partito) che formano la maggioranza, gli stessi che giorno per giorno verificano il loro compromesso nell’azione di governo. Appare perciò arduo ritenere che un tale Parlamento, possa effettivamente costituire un organo di controllo dell’esecutivo, particolarmente nel parlamentarismo puro che sta alla base della concezione democratica della costituzione italiana (cfr. Bobbio 1967; Duso 2019, 2). Non è possibile soffermarsi in questa sede sul tema dei partiti, ma credo si possa dire che essi non costituiscono una soluzione, ma piuttosto una complicazione, nei confronti delle aporie sopra ricordate.
Alla luce di queste considerazioni, quelle che oggi sono spesso indicate come semplici degenerazioni della democrazia, appaiono invece avere le loro radici in elementi che sono ad essa strutturali. Questo si può dire per il populismo - in quanto relazione tra decisioni politiche e consenso basata sull’immediatezza delle impressioni e sull’arbitrio delle opinioni piuttosto che sul problema del bene comune - per il fatto che la modalità della partecipazione è costituita dalle elezioni. Ma, per la stessa ragione, ciò vale anche per il leaderismo, in quanto, a partire da quelle stesse elezioni primarie che sono state considerate una forma di democratizzazione dei partiti, decisiva è l’immagine che un leader offre all’immedesimazione degli elettori, al di là delle strutture, del dibattito interno e delle competenze acquisite dai partiti, i quali si sono progressivamente trasformati in meri apparati elettorali. Si può dunque dire che la crisi della rappresentanza, così spesso dichiarata, non dipende solo da situazioni contingenti, ma manifesta alcune aporie strutturali. Se fosse così, allora il problema non consisterebbe tanto nel ritornare alla vera funzione della rappresentanza, ma di affrontare in modo diverso quell’esigenza di partecipazione che in essa viene solitamente ravvisata.


3. Struttura della rappresentazione e teologia politica

La riflessione sulla struttura della rappresentazione permette non solo di indicare la logica e le aporie che ne connotano il concetto, ma anche di mettere a fuoco un problema teoretico che ci può indicare, platonicamente, l’euporia, non tanto una soluzione, quanto una strada da percorrere per una ricerca sulla politica. Mi riferisco alla tematica della teologia politica (cfr. Scattola 2007), quale risulta da una lettura di Carl Schmitt che ravvisa il cuore di essa non tanto nella definizione della sovranità, quanto piuttosto nella struttura della rappresentazione, che nello stesso Schmitt emerge negli scritti del secondo decennio del Novecento e culmina nella famosa definizione della rappresentazione come il movimento che tende a rendere presente ciò che per sua natura è assente, gesto che riguarda per eccellenza il divino o il principio (cfr. Dotti 2014; Duso 2003, pp. 174-195). È una tale accezione di teologia politica a permettere di comprendere e problematizzare insieme quella, a cui solitamente si fa riferimento, che emerge, in rapporto alla definizione della sovranità, nel famoso lavoro del 1922.
Si è visto che nel nesso sovranità-rappresentanza che caratterizza il dispositivo moderno il popolo in effetti non è che una idea, la quale, pur prendendo una forma determinata attraverso il movimento rappresentativo, resta tuttavia assente ed eccedente nei confronti di ogni rappresentazione che ne venga fatta. In tal modo emerge una struttura - quella della necessaria relazione all’idea - che non appare riducibile alla concettualità moderna: infatti, con un gesto che può apparire sorprendente per una ricerca storico-concettuale che considera centrale la Trennung dei concetti moderni nei confronti del pensiero precedente, è apparso illuminante in relazione a una tale struttura teoretica riferirsi a Platone, il quale, nel modo speculativamente più acuto, pone la questione dell’idea come innegabile per l’esperienza e nello stesso tempo come inobiettivabile da parte del nostro sapere (cfr. Duso 2003, pp. 40-54). Anche in Schmitt tale eccedenza dell’idea appare necessaria per la politica, che non è comprensibile in base alla mera forza, e che tende sempre ad una prassi che vada oltre lo status quo esistente. Affermare la necessaria relazione all’idea, che è per sua natura eccedente, non si identifica con la pretesa di fondare la politica sulla base di una verità trascendente, ma, al contrario, con l’esigenza di comprendere la prassi e la politica. Non si tratta di un indebito, e per altro impossibile, tentativo di oltrepassare l’esperienza, ma, al contrario, dalla comprensione della sua natura. A partire da Platone l’idea senza di cui non è pensabile la prassi dell’uomo e della comunità è quella della giustizia, che ha rappresentato la questione centrale per la politica fino alla nascita dei concetti moderni, assieme all’esigenza di pensare quella relazione di governo che appariva connaturata alla vita in comune degli uomini.
Proprio il riferimento all’idea di giustizia è utile per comprendere in cosa consista la svolta nel pensiero che i concetti moderni hanno inteso compiere. La diversità delle concezioni che si sono presentate nella filosofia pratica precedente sul modo di intendere la giustizia è stata considerata causa di conflitto e di guerra; perciò è apparsa necessaria una nuova scienza politica tesa a dare di essa una determinazione razionale univoca, geometrica, tale da evitare il conflitto e generare la pace. A questo scopo nasce quel dispositivo formale che, partendo dal concetto di libertà, si conclude con il diritto di coazione del soggetto collettivo che costituisce la base teorica della forma Stato. Non è che la questione della giustizia sia annullata, ma ad essa viene data una soluzione che esorcizzi il conflitto: questa consiste nell’obbedienza alle leggi, in quanto queste sono legittimate dal processo di autorizzazione. Per questo si può dire che il concetto di libertà - questo concetto formale di libertà - prende quel posto centrale che era stato per una lunga tradizione occupato dalla questione della giustizia (cfr. Hofmann 1997 e 2003).
Appare in questo modo una situazione aporetica: da una parte la stessa soluzione moderna si pone proprio in relazione alla questione innegabile della giustizia, ma dall’altra tende a fornire una risposta che impedisca il suo perturbante ripresentarsi. La pretesa autosufficienza di questa risposta assume evidenza nel concetto di sovranità del popolo. Il popolo, infatti, essendo costituito dalla totalità di coloro che al comando devono obbedire, costituisce il soggetto perfetto e unico della politica, in quanto realizza l’identificazione di chi comanda e chi obbedisce, promettendo in tal modo di rimuovere ogni dominio dell’uomo sull’uomo e di rendere effettiva la libertà dei cittadini: perciò la sua volontà è, in quanto tale, da ritenersi giusta. Si presenta in tal modo un dispositivo logico e procedurale che è caratterizzato dall’immanenza e che tende ad evitare il pericoloso presentarsi dell’eccedenza dell’idea di giustizia (cfr. Duso 2012). Non è che non si pongano nella democrazia moderna questioni di giustizia, ma ciò che appare decisivo è il procedimento - che ha carattere formale e dunque prescinde dal giudizio sui contenuti - attraverso il quale emerge la volontà del soggetto legittimo del potere. Se la sovranità si traduce in dominio, ciò non deriva dalla teologia politica come spesso si afferma (cfr. Esposito 2013), almeno se essa viene intesa nel modo qui indicato, ma piuttosto dalla pretesa di immanenza (cfr. Duso 2020). In tal modo la rappresentanza moderna mostra un’interna aporia, in quanto, da una parte appare possibile proprio in quanto il popolo non è presente empiricamente, ma è un’idea (struttura della rappresentazione), e dall’altra, però, una volta reso presente, il popolo tende a costituire una soluzione immanente della questione della giustizia. La causa di ciò sta nel fatto che l’idea che è da rappresentare non è più l’idea di giustizia, ma piuttosto quella del soggetto collettivo, il quale, sia nella democrazia rappresentativa, sia nella democrazia diretta, tende a mostrarsi come il soggetto assoluto, in sé sufficiente, della politica.


4. Pensare la politica oggi

Mi pare che l’impegno che la filosofia politica comporta, sia caratterizzato da due momenti, quello della interrogazione critica delle doxai diffuse (nel senso socratico), che per noi sono i concetti moderni, e quello della proposta riguardante il presente: questi momenti hanno un diverso statuto epistemico, in quanto il secondo, pur basandosi sulla consapevolezza delle aporie emerse, non è da questa deducibile: non ha il rigore del sapere, né la razionalità geometrica della forma politica moderna, ma è legato alla comprensione del presente ed esposto al rischio della prassi (cfr. Duso 2008, pp. 297-319; Duso, Chignola 2008). Coerentemente con tale natura della filosofia politica, dalla linea di ragionamento fino a qui seguita deriva il compito di tracciare, oltre il nesso rappresentanza-sovranità, una via per pensare diversamente quella stessa esigenza che si pone nel dibattito sulla rappresentatività delle istituzioni. Mi pare che ciò a cui si tende sia in realtà di rendere effettiva la partecipazione dei cittadini alla politica, il loro protagonismo. Ma per andare incontro a tale esigenza ciò che è da superare è proprio quella funzione della rappresentanza che è stata qui ricordata e, conseguentemente, quel concetto di potere rappresentativo che, paradossalmente, nega la dimensione dei cittadini di fronte al comando politico. Per dirla attraverso il linguaggio della teologia politica, il compito è quello di pensare la relazione all’idea di giustizia - la struttura della rappresentazione - come connaturata alla prassi di tutti, contro l’immanenza della moderna rappresentanza e la riduzione che questa comporta dell’agire rappresentativo solo a coloro che esercitano il potere, riduzione che Voegelin rimproverava a Schmitt (cfr. Voegelin 1931). Il problema che si pone è allora quello di pensare la struttura della rappresentazione all’interno di un modo di concepire l’ordine differente da quello della sovranità e tale da implicare la necessità della relazione all’idea di giustizia e la politicità e la partecipazione dei cittadini.
Ciò comporta il superamento della forma politica, quale è venuta alla luce con le dottrine del contratto sociale, in una direzione che riesca a considerare la strutturalità della pluralità e una concezione pattizia della politica che le dottrine del contratto sociale hanno inteso azzerare, e insieme quell’esigenza di partecipazione di tutti alla vita politica che, contrariamente a quanto si è soliti ritenere, diviene possibile proprio se i cittadini non sono intesi come coloro che, a partire dalla loro singolarità, debbano contare tutto e costituire la base, con la loro volontà, delle decisioni politiche. Per questo compito è necessario pensare nuove categorie e insieme un altro assetto costituzionale.
Paradossalmente ciò appare possibile se si supera la pretesa indipendenza del Soggetto - individuale e collettivo – che è implicata dai concetti di autodeterminazione e autogoverno, e se si riesce a pensare, certo con una modalità diversa da quella della filosofia pratica pre-moderna, la insopprimibile relazione di governo tra gli uomini. Nella logica della sovranità, sulla base di un concetto solo formale di libertà, e perciò concepito su un presupposto nihilistico, si fa coincidere l’eliminazione del dominio con quella della relazione di governo; al contrario, solo ponendo al pensiero il problema della relazione di governo, non riducibile alle tecniche della governamentalità, si può intendere la dimensione politica dei governati, i quali, come mostrano le forme di resistenza e di opposizione, vogliono contare come tali e non attraverso la scelta dei rappresentanti. Libertà non comporta allora l’assenza di condizionamenti e di governo, ma deve riguardare la modalità dell’agire dei cittadini all’interno di quei condizionamenti di cui anche l’azione di governo fa parte. Certo si tratta di un modo nuovo di pensare la relazione di governo, che passi attraverso il principio moderno della libertà soggettiva, la dignità politica di tutti al di là di ogni gerarchia, il toglimento degli ostacoli che impediscono l’espressione delle potenzialità di tutti: una concezione in cui i governati contino di più della funzione di governo. Nei confronti delle concezioni pre-moderne, nelle quali il principio del governo era centrale, si tratta di un compito nuovo, che è stato indicato con la formula di «una concezione democratica del governo» (cfr. Rosanvallon 2015, Duso 2016).
In questa prospettiva il popolo può essere presente politicamente proprio in quanto non è sovrano e la sua volontà non è espressa dal potere. E così i cittadini, i quali devono contare per i loro bisogni, esperienze e competenze, ma anche desideri, aspirazioni e pratiche più che per le loro opinioni. Ma le differenze tra bisogni, saperi e pratiche vengono alla luce se i cittadini non si esprimono politicamente in quanto individui isolati e autosufficienti, bensì nelle relazioni in cui concretamente vivono, nei gruppi e nelle istituzioni particolari che si danno all’interno di quell’ordine concreto, o istituzione di istituzioni che nel moderno si è organizzato mediante quella forma-Stato che si tratta di ripensare. Certo che sono i singoli ad avere realtà e a dover contare politicamente, ma grazie al riconoscimento politico dei gruppi, delle forme aggregative, e alla forza trasformativa che questi riescono ad esprimere. Si tratta di un modo nuovo di intendere la democrazia, in cui è pensabile quel conflitto che si tenta di concepire con formule quali quella di “democrazia conflittuale”, la quale è contraddittoria se non viene pensata la democrazia in modo diverso. La contrapposizione di ordine e conflitto appare prodotta dal dispositivo della sovranità, all’interno del quale si rimane anche nel momento in cui contro l’ordine si assolutizza il conflitto. In una nuova concezione dell’ordine il conflitto deve essere pensato politicamente, come interno ad una realtà politica concreta, e tale da poter costituire una forza di trasformazione nei confronti di un ordine che sia sempre costretto a confrontarsi con la questione della giustizia e a riconoscere i mutamenti dell’ethos collettivo. Da un punto di vista costituzionale si può dire che si tratta di riuscire a concepire una unità strutturalmente plurale, esigenza che riguarda quella realtà che è stata pensata mediante la forma Stato, ma che è posta con evidenza da realtà sovranazionali quali l’Unione europea (cfr. Duso, Scalone 2010).


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