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Note a proposito di un dibattito implicito su responsabilità, fragilità e vulnerabilità (colpa a monte e responsività a valle)

MARIO VERGANI
Articolo pubblicato nella sezione "Chi è senza peccato..."

Introduzione e tesi

Dato che i termini in questione ‒ colpa e responsività ‒ sono estremamente ampi e di fatto impraticabili se presi di petto, è preferibile illustrare come soggiacciano, quasi come una preistoria o un’apertura di prospettiva, rispetto a un dibattito implicito e tuttavia rilevante. E così, volendo semplificare, ci troviamo costretti, in prima battuta, anziché a ridurre il numero dei concetti a introdurne di nuovi: va da sé, quello di responsabilità che tutti li tiene insieme e raccoglie in un unico fascio e quindi, però, anche le nozioni di fragilità e vulnerabilità. Ce lo suggerisce un’implicita discussione corrente.
Al centro sta la categoria di responsabilità, che immediatamente richiama all’orecchio di ciascuno il riferimento alla colpa e al peccato quali antecedenti in ambito giuridico e religioso. Ma se la categoria di fragilità si pone quale ponte tra la responsabilità e la colpa, al contrario, la vulnerabilità funge da cerniera tra quelle di responsabilità e di responsività (il che evidentemente implica che le due non coincidano).
Il dibattito implicito di cui vogliamo far emergere la rilevanza vede contrapporsi da una parte chi pensa la responsabilità a partire dalla fragilità e, dall’altra, quanti intendono la responsabilità a partire dalla vulnerabilità. Nel primo caso abbiamo il rischio di essere risucchiati dall’antenato della responsabilità, ovvero dalla colpa, via imputazione; nel secondo caso invece ci si espone all’alternativa opposta, ovvero al rischio di diluire la responsabilità dentro la più ampia, ma anche intensivamente più debole, categoria di responsività. Come a dire: da una parte di colpevolizzare, dall’altra di de-moralizzare la nozione di responsabilità.


Lo schema del dibattito implicito

Fragilità e vulnerabilità rappresentano due categorie trasversali in filosofia e nelle scienze umane e sociali. Di esse vengono rilevate differenti dimensioni che riguardano di volta in volta la questione dell’identità personale, gli aspetti relazionali o le componenti sociali, politiche o sistemiche; queste dimensioni spesso vengono confrontate per aree di sovrapposizione parziali, a seconda dell’ambito disciplinare, ad esempio economico o giuridico e così via. In linea generale, entrambe si riferiscono ad una caratteristica dell’essere umano legata alla sua finitudine esistenziale, alla sua condizione mortale. Eppure, è chiaro che le due nozioni non possono essere coincidenti.
Fragilità, come suggerisce la Nussbaum, per fare un esempio non casuale, viene da frangere, rompere, e rinvia a una proprietà fisica caratteristica dell’oggetto, fatto in modo tale da essere sempre soggetto alla possibilità di spezzarsi; la fragilità si riferisce dunque ad un dato costitutivo. Trasposto fuori dal campo fisico, rinvia al carattere dell’incertezza, intrinseco nella natura umana, tale per cui l’uomo è un essere bisogno e dunque non-indipendente. La fioritura di una vita umana dipende da fattori che l’essere umano stesso non può controllare, per il dato dell’esposizione dell’uomo, in quanto finito e mortale, alla fortuna (come appare ad esempio, sempre secondo la Nussbaum, nel pensiero etico dei tragici, platonico, aristotelico e stoico); ma anche a causa dei conflitti tra valori, dei beni di relazione e delle parti più ingovernabili dell’interiorità umana. La fragilità umana è dovuta alla combinatoria di contingenza esterna e contingenza interna (cfr. Nussbaum 1996, p. 35).
Secondo il significato della parola, la vulnerabilità si riferisce a una condizione concreta e corporea e, allo stesso tempo, ad una ferita e lacerazione sanguinosa. Dal latino vulnus e dalla radice indo-europea -uel che rinvia allo strappo. Precisiamo che vulnerabilitas non rimanda a ciò che è accaduto (vulneratus), ma ad una possibilità e ad una disposizione. Nel complesso, abbiamo quindi il doppio significato di un corpo singolare aperto alla ferita e di una predisposizione ad essere ferito. Anche in questo caso a titolo esemplare, che è però più di un esempio, per Levinas la vulnerabilità indica ‒ secondo un approccio fenomenologicamente più dettagliato ‒ l’esposizione di un corpo nudo, il denudamento del corpo, l’essere allo scoperto nella passività più radicale; l’incapacità di chiudersi dentro e dunque un’apertura preliminare, la suscettibilità all’investitura e al trauma (cfr. Levinas 1985, p. 126).
Ma come interpretare teoreticamente l’idea di relazionalità umana, basata sulle nozioni di fragilità e di vulnerabilità? In una prospettiva relazionale, la costituzione del sé dipende da una condizione di esposizione. Ma da questo punto di vista, vulnerabilità e fragilità non sono completamente sovrapponibili. La fragilità rivela mancanza o limiti delle capacità o delle facoltà del soggetto, delle sue potenzialità, come per esempio si può vedere nella teoria dell’homme capable di Ricoeur. Sono i limiti del corpo, della lingua e del tempo nella costituzione del sé, un sé che si confronta costantemente con differenti aspetti dell’alterità, in modo che l'autonomia non sia mai data, ma sempre da raggiungere. Al contrario la vulnerabilità è la condizione pre-liminare di apertura dell’identità (nel senso dell’aprirsi, del venire a sé del sé); in questo caso, quindi, l’identità non è presupposta, ma da farsi, a partire dall’esposizione aperta. Si potrebbe anche dire che, mentre la fragilità è impotenza che la potenza è chiamata a riconoscere e regolare, la vulnerabilità è passività inassumibile (nella sua versione più radicale, quella levinasiana, mentre in altre declinazioni provenienti dalla stessa matrice, quale quella della Butler, la variante è significativa). Avremmo così, in questo schema, da un lato la coppia dialettica autonomia/fragilità e, dall’altro, la diade concettuale vulnerabilità/identità, con un’inversione dei termini teoreticamente decisiva. Nel secondo caso infatti la vulnerabilità rappresenta l'antecedenza fenomenologica e costitutiva del sé, di un sé che dunque è tale solo a-posteriori.


Alcuni esempi dalle voci maggiori

Dunque, a partire dalla comune idea di esposizione all’alterità, correlato della fragilità è l’autonomia, mentre per quanto riguarda la vulnerabilità è l’identità. Figure differenti per riferirsi all’idea della soggettività, o del sé o della medesimezza. Abbiamo trovato la categoria di fragilità più frequentemente, ad esempio, nell'approccio delle capacità di Martha Nussbaum o in Paul Ricoeur e nella sua teoria de l'homme capable. Doppia spia del fatto che la fragilità emerge quale negativo della possibilità dell’essere umano di agire. Nella logica del discorso ricoeuriano, la transizione dalla problematica delle capacità a quelle della responsabilità richiede intanto una individuazione delle capacità del sé, una griglia a quattro termini: je peux parler, je peux agir, je peux raconter, je peux me tenir conptable de mes actes. Le quattro capacità tornano riflessivamente sul sé; combinandosi tra di loro concorrono a definire una permanenza modulata temporalmente, eppure alla quale è possibile ascrivere, o meglio imputare parole, atti e storia narrata (se tenir comptable). Per Ricoeur, il passaggio alla problematica morale implica il riferimento a una regola, legge, norma o codice, che indichi una preferenza di valore sia oggettiva che soggettiva, il che significa che mi vincoli non solo come obbligazione de facto, ma anche nel senso che ne sono toccato; in forza di tale vincolo sono motivato alla scelta, libero di decidere. Qui abbiamo la responsabilità, che dunque presuppone l’imputabilità (il mettere sul conto di) e il riferimento alla legge (termine generale che riassume tutti gli altri). Date queste premesse, si può capire perché la fragilità umana, ovvero il limite della capacità, muta in fallibilità nel momento in cui si confronta con la distinzione bene e male: la fragilità diviene «“capacità” del male» (Ricoeur 1970, p. 242); come scrive Ricoeur, da questa debolezza procede il male, ma vi procede perché intanto si pone. Dunque, per pensare il vincolo insieme soggettivo (la capacità del male) e oggettivo (il porsi del male), abbiamo bisogno di non staccare dal concetto di responsabilità quello di colpa ‒ «i tre momenti della colpa: impurità, peccato, colpevolezza» (ivi, p. 355) ‒ cosicché sia moralmente densa la possibilità del fallimento. Per questo, il finale del saggio Il concetto di responsabilità scritto nel 1991 (cfr. Ricoeur 1998) insiste sul fatto che senza il riferimento alla colpa, quando l’imputazione diviene mera ascrizione di un atto ad un agente, ebbene, in questo caso, si produce una de-moralizzazione del tema della responsabilità, un depotenziamento del suo significato morale (la critica aperta è a modelli quali quelli di Hart o Strawson, cfr. per una rassegna su questo orientamento: Bagnoli 2019). In Autonomia e vulnerabilità, una conferenza tenuta d Ricoeur nel 1995, viene ribadita la necessità della mediazione pratica del paradosso composto dall’autonomia di essere vulnerabile e dalla vulnerabilità che tende all’autonomia; ma con una precisazione significativa: «Mi accingo a comporre, grado per grado, il paradosso dell’autonomia e della vulnerabilità. Per le necessità di questo procedimento analitico, esaminerò successivamente diversi gradi dell’idea di autonomia e farò corrispondere a ogni stadio una figura determinata di vulnerabilità, o, come preferisco dire, di fragilità» (Ricoeur 2007, p. 95). Ricoeur preferisce collegare responsabilità e fragilità piuttosto che responsabilità e vulnerabilità.
Dove prevale il modello centrato sulla facoltà, capacità o potenzialità, abbiamo la modulazione della decisione responsabile che si confronta il suo limite strutturale, dovuto alla fragilità, all’impotenza del soggetto autonomo. Ritroviamo questo schema di ragionamento ad esempio nel linguaggio del capability approach della Nussbaum. Anche in questo caso, per non perdersi nell’ampiezza della riflessione della filosofa al riguardo, vi entriamo da una prospettiva particolare. La Nussbaum avvia una discussione con Iris Young sul problema del rapporto tra responsabilità collettiva e giustizia sociale (cfr. Young 2011; Nussbaum 2009 e 2011). Rispetto alle nuove forme di ingiustizia che si producono quali effetti combinati di elementi differenti e tuttavia strutturali (ingiustizia strutturale cui concorrono, senza saperlo, soggetti distanti), è necessario per la Young passare da un modello tradizionale di responsabilità, il liability model (che si regge sulla triade guilt-fault-harm) ad un modello definito della shared-responsibility. Si tratta di una responsabilità collettiva ma non anonima, cioè ripartita secondo alcuni criteri (potere, privilegio, interesse, abilità collettiva); dal punto di vista dell’azione viene configurandosi come una forma di responsabilità critica e politica. Nella prefazione al libro della Young la Nussbaum ribadisce fortemente che non si può dissociare colpa e responsabilità in modo così netto e che anche per pensare la responsabilità verso il futuro, dunque non solo verso il passato (responsabilità orientata al passato come imputazione), bisogna comunque mantenere la categoria di colpa. Altrimenti la responsabilità rischia di non avere un soggetto al quale appoggiarsi: «Young ci dice che la colpa porta le persone a rivolgersi verso l’interno e a focalizzarsi su di sé, piuttosto che ad orientarsi all’esterno e a focalizzarsi sugli altri. Bene, di nuovo, forse. Ma perché un sincero auto-esame non può essere un momento importante nel processo che porta ad orientarsi sinceramente verso l’altro?» (Nussbaum 2011, p. XXIV). Per la Nussbaum, un modo alternativo di ascrivere una colpa generale consiste nel riconoscere che tutti noi partecipiamo ed esercitiamo uno stile di vita troppo dispendioso che crea ingiustizia nella distribuzione dei beni, impedendo ad alcuni di sviluppare le capacità e di trasformarle in funzionamenti reali. Come si può vedere, sono chiamate in causa di nuovo le categorie di capacità e di limiti delle capacità, di fragilità, che devono essere ridotte. In un certo senso, sostiene la Nussbaum, non c’è responsabilità neppure per il futuro se non pensiamo anche la colpa, né movimento verso l’altro se non c’è prima liberazione dalla propria chiusura narcisistica, e questo dipende dal riconoscimento di un dovere di fronte alla dignità umana, il dovere di mettere l’altro nella condizione di poter fiorire di un bene fragile; dunque insieme doveri di giustizia e di aiuto materiale, perché l’agire etico responsabile, per essere tale, attraversa le regioni impervie della sfera concreta della vita (cfr. Nussbaum 2008).
Il tema è come pensare una responsabilità innocente evitando il duplice rischio dell’evaporazione del soggetto che se ne faccia carico una volta venuto meno l’ancoraggio alla dimensione dell’imputabilità-colpa, e, congiuntamente, il rischio dell’evaporazione della responsabilità stessa nella nostra condizione attuale: tutti responsabili, nessuno responsabile (cfr. anche Esposito 1993 o Cruz 2005). Questi dubbi spiegano, ad esempio, l’atteggiamento reattivo della Nussbaum nei confronti della Butler, la “professoressa di parodia” (cfr. Nussbaum 1999) che, dissolvendo la soggettività nel sistema, rinuncerebbe in partenza alla gravità dell’azione politica e storica responsabile rispetto alle ingiustizie sociali. Dove si fonda la capacità di agire o di “resistere” se la persona non è altro che un effetto del potere che la crea e la agisce? Di nuovo come pensare la responsabilità se non basandosi sul binomio capacità-fragilità? Ma in questo caso è evidente che la Butler stessa si pone sul versante di una diversa concettualizzazione del rapporto tra responsabilità ed esposizione all’alterità. Infatti preferisce non articolare la propria riflessione sulla relazionalità umana a partire dalla categoria di fragilità (dietro di essa, come abbiamo visto si affacciano quelle di capacità e di colpa); piuttosto a partire da quella di vulnerabilità, la chiave per elaborare un’idea di responsabilità che comporti fin da subito e che intensifichi la dimensione di opacità a sé che la abita: «credo che l’altro in me sia chiamato in causa nel processo stesso della mia costituzione, e che l’estraneità a me stessa sia, paradossalmente, l’origine del mio legame etico con gli altri. Non conosco completamente me stessa, perché parte di quello che sono è la traccia enigmatica dell’altro» (Butler 2004, p. 67).
Le categorie più generali che la Butler mette in campo sono quelle di precariousness, precarity e di vulnerability. La precarietà in quanto precariousness è il dato della nostra dipendenza naturale, finitudine e mortalità; la precarietà (precarity) è la versione sociale della prima, prodotta dai sistemi sociali e politici; la vulnerabilità invece viene intesa come la condizione dell’essere predisposti ad essere feriti, ma anche aperti all'arrivo dell'altro, all'imprevisto. In questo senso la vulnerabilità non è solo il fenomeno concreto dell’esposizione del corpo all’altro, né solo il canale della relazione etica duale, ma può essere pensata anche come una risorsa politica. Così, attraverso la vulnerabilità possiamo tornare alla nostra precarietà naturale e sociale e cambiarla. In altri termini si può dire che la teoria della vulnerabilità elaborata dalla Butler si fa carico sia della passività della costituzione del soggetto sia della sua attività. Facendo leva sulla vulnerabilità, possiamo così collocare la posizione del soggetto a cavallo tra etica e politica: eticamente nell’incontro con l’altro, rispetto al quale i corpi vulnerabili vengono dischiusi dalla centratura narcisistica; politicamente nell’incontro con gli altri, quando diviene un’alleanza di corpi vulnerabili: «Nella resistenza, la vulnerabilità non è puntualmente convertita in una forma di agency: essa rimane la condizione della resistenza, una condizione della vita da cui emerge ‒ che, quando viene trasformata in precarietà, deve essere contrastata, come di fatto accade. Tutto ciò non ha niente a che fare né con la debolezza, né con la vittimizzazione, dal momento che, per le vite precarie, la resistenza prende le mosse dall’esposizione a una vita segnata dall’abbandono e dall’assenza di supporto, ma a sua volta mobilita questa vulnerabilità come forma di resistenza politica deliberata e attiva, un’esposizione del corpo al potere nell’azione plurale di resistenza» (Butler 2017, p. 289 e cfr. Id. 2005). Se la massima vulnerabilità individuale o di un gruppo sociale consiste nel suo misconoscimento, nel disprezzo di alcuni gruppi o categorie di esseri umani, chiamati categorie vulnerabili, la forma più forte di discriminazione è l'impossibilità di accedere alla sfera politica come soggetto visibile che rivendica i propri diritti, sia come individuo che come gruppo. Il corpo ha un significato relazionale, ma non solo nel senso di una relazionalità passiva: quando una pluralità di corpi si espone collettivamente, ciò che accade è un'alleanza politica dei corpi. È una forma di agentività che produce quella che Butler chiama un’“insurrezione ontologica”, facendo apparire l'esistenza di ciò che un dato ordine del discorso aveva de-realizzato. La vulnerabilità per essere tale non può che essere concreta. Ma, per Butler, il corpo non è solo un corpo fisico o un corpo vivente (Körper o Leib, secondo la tradizione fenomenologica); non abbiamo mai un corpo naturale, ma sempre corpi prodotti come corpi sociali, informati da diversi tipi di pratiche sociali, come pratiche educative o pratiche giuridiche, e così via. Così, il corpo non può essere staccato da reti relazionali di supporto, da una dimensione strutturale o meglio “infrastrutturale”. Per questo motivo dobbiamo pensare che un organismo, allo stesso tempo, sia sostenuto e agente, perché la libertà può essere praticata solo in condizioni favorevoli. La vulnerabilità si pone quindi come una relazionalità corporea preliminare e costitutiva del soggetto, esposto fin da subito all’altro e quindi all’altro aperto, ma non in quanto mera passività all’altro (su questo punto si pongono le critiche della Butler a Levinas, cui per altro è molto vicina, cfr. Butler 2006, pp. 118-119), quanto piuttosto sulla soglia attivo-passiva tra l’uno e l’altro, e gli altri. Allora per pensare la responsabilità è necessario collegarla alla vulnerabilità, piuttosto che alla fragilità.
In questa direzione, la posizione di base, a cui fanno riferimento i protagonisti del dibattito implicito che stiamo cercando di far emergere, è espressa da Levinas. La vulnerabilità è l'esperienza corporea che ci tiene all'alterità, in senso ampio; come alterità degli elementi fisici e degli oggetti che incontriamo nel mondo, ma anche in quanto alterità dell’altro essere umano: «L’immediatezza del sensibile che non si riduce al ruolo gnoseologico assunto dalla sensazione, è esposizione alla ferita e al godimento, esposizione alla ferita nel godimento; è ciò che permette alla ferita di raggiungere la soggettività del soggetto che si compiace in sé e si pone per sé [ce qui permet à la blessure d’atteindre la subjectivité du sujet se complaisant en soi e se posant pour soi]» (Levinas 1983, p. 881 e Bernasconi 2018, pp. 96-98). La ferita ‒ come si può leggere in quell’atteindre ‒ colpisce, raggiunge e consegue la soggettività del soggetto. Lo produce, lo invita fuori, o, fenomenologicamente parlando, lo costituisce: passivamente, nel compiacimento del godimento (se complaisant en soi), e poi in quanto posizione riflessiva del sé (se posant pour soi) a causa della presa di distanza da cui emerge il sé per sottrazione del compiacimento in sé ad opera dell’altro. Così si comprende perché il saggio dedicato al tema della vulnerabilità contenuto in Umanesimo dell’altro uomo si intitoli “Senza identità” (siamo nel 1970). La vulnerabilità non è di un soggetto (come ad esempio la fragilità ne marca il difetto o il limite intrinseco ed estrinseco), ma il soggetto, senza identità, si produce in ragione della vulnerabilità. Nei testi levinasiani dedicati alla vulnerabilità l’argomentazione si sviluppa ponendo in sequenza tre concetti: sensibilité, vulnerabilité e proximité. Partendo dalla sensazione e dalla sensibilità corporea, Levinas vuole acquisire il significato morale della sensibilità (sensibilità al dolore degli altri esseri umani), che si chiama prossimità, il movimento etico verso l'altro, grazie al quale e del quale siamo responsabili. La vulnerabilità rappresenta dunque il concetto-ponte tra sensibilità e prossimità, perché contiene l'idea di suscettibilità passiva e ferita traumatica, ma anche il significato di apertura del soggetto all'altro: il soggetto è passivamente aperto, dall'altro, all'altro, e così istituito nella sua posizione di soggetto responsabile (si comprendono, date le differenti premesse, le critiche di Ricoeur che si appuntano proprio sull’idea di pre-liminarietà o diacronia dell’alterità su cui si fonda la responsabilità levinasiana in Altrimenti che essere, cfr. Ricoeur 2007). Ad una rapida analisi è rivelativo notare la ridotta presenza dei temi della colpevolezza e del peccato nei testi levinasiani (cfr. Ciocan e Hansel 2005, pp. 170, 557-558). Appaiono poco nelle opere filosofiche maggiori, hanno relativamente più spazio nelle letture talmudiche. Nei primi scritti compare anche il tema della felix culpa, poi viene meno, per rispuntare isolato, un’ultima volta, in Totalità e infinito, ma legata al tema del perdono; dopodiché, quando poche volte appare la questione del peccato originale e della colpevolezza, ad esempio in Altrimenti che essere, è nella logica secondo la quale più mi scopro responsabile più mi so colpevole. La responsabilità in questo caso è dissociata dalla colpa e, casomai, dove appare quest’ultima, è successiva, dovuta all’inadeguatezza di fronte al compito, a causa dei miei limiti rispetto all’infinitezza dell’altro che risveglia la mia libertà. Di nuovo responsabilità innocente, e tuttavia, in questo caso, essa non dissolve il soggetto, ma lo provoca fuori. Il soggetto viene così ritrovato alla fine, come soggetto-per-altri, nel senso che è soggetto grazie all'altro e che è dedicato all'altro; non in un regime di comunione, ma di separazione, perché la pelle del corpo allo stesso tempo mi separa e mi mette in relazione con l'altro. La vulnerabilità è dei corpi.


Non solo imputabilità, non solo responsività

Mentre la fragilità è il limite di un sé che si scopre non in padronanza di sé (cioè di una fragile identità a sé), la vulnerabilità è la relazione pre-liminare all’altro, ovvero la genesi stessa del sé, o di un soggetto la cui provenienza è un’assenza di identità; in altri termini, non è impotenza, ma passività preliminare. Dunque, non si tratta di assumere il limite, ma di un riferimento a ciò che è prima del limite, la pre-liminarietà dell’altro.
La ricaduta rispetto alla questione della responsabilità è allora consequenziale. Risulta forse abbastanza chiaro in che senso - come abbiamo visto con i casi esemplari di Ricoeur e della Nussbaum - pensare la responsabilità a partire dalla categoria di capacità, o di facoltà, di potenzialità, significa sviluppare maggiormente la teoria dell’azione; in questo caso la teoria della responsabilità risulta sbilanciata maggiormente sulla questione di come rispondere di quanto fatto, dell’atto, e in che misura, secondo quali gradazioni (di nuovo il limite). Per questa prospettiva, in queste versioni più raffinate rispetto alle più lineari teorie dell’ascrizione di matrice analitica, il rispondere di sé si fa carico della componente di alterità che concorre alla definizione del sé; in definitiva la responsabilità deve assumere una dimensione di opacità a sé che è intrinseca all’agire stesso. In tal senso, allora abbiamo il richiamo alle idee forti di imputazione, del mettere-sul-conto-di, oppure direttamente alla dimensione personale della colpevolezza. Questo consente da una parte di evitare il rischio di de-moralizzare la nozione di responsabilità, cioè di sottrargli il peso e la gravità del rischio, della decisione e della scelta di fronte al male. In questo modo il nesso che stringe la colpevolezza alla fragilità umana impedisce di svuotare del suo significato morale l’agire responsabile; ma per altro verso, nonostante i correttivi, riferisce ancora massicciamente la responsabilità alla natura lapsa dell’uomo, piuttosto che al registro dell’investitura etica ad opera dell’altro.
A rovescio, se la responsabilità viene pensata a partire dalla categoria di vulnerabilità, ecco prendere la scena non la figura del limite o delle condizioni dell’agire responsabile, ma l’idea della pre-liminarietà dell’altro rispetto alla libertà che decide. L’esposizione a una incondizionatezza che fa dell’incontro con l’altro uomo un rapporto immediatamente etico. La prospettiva muta di colpo, e tuttavia, anche in questo caso, non si suggerisce di assumere una postura esclusiva, ovvero di sostituire il modello dell’imputazione con quello dell’espropriazione del sé ad opera dell’altro. Piuttosto, di mostrare come il sé risponde a partire dall’investitura dell’altro, ma che la responsabilità non si limita a tale investitura che mi fa responsabile, perché si rivela tale solo nella risposta. Abbiamo così una antero-posteriorità dell’antecedente (una paradossale diastasi o diacronia), tale per cui il rapporto tra i due risulta essere irriducibilmente un rapporto spezzato.
Come si può avvertire, questi schemi concettuali richiamano alcuni elementi tipici delle fenomenologie responsive (cfr. Waldenfels, 1994 e 2008; Chrétien 1992 e 2007; Menga, 2003; Vergani 2015, pp. 153-158). Il catalogo concettuale proprio degli approcci responsivi è sofisticato: lo schema “pàthos-riposta”, la differenziazione tra appel e demande, exigence e revendication, answer e response, in alcune versioni la distinzione tra verso passivo (ricettività-Affizierbarkeit) e verso attivo (responsività) del fenomeno, oppure la componente di creatività che la riposta sempre implica. Tale batteria teorica consente di distinguere con nettezza la logica responsiva dalla mera reazione (ricordiamo che il termine “responsività” viene dagli studi neurologici di Kurt Goldstein che lo intende come capacità di rispondere neurologicamente agli stimoli dell’ambiente nonostante i traumi subiti). Eppure è molto chiaro come in Waldenfels la responsività (Antwortlichkeit) risuoni, ma non coincida con la responsabilità (Verantwortlichkeit). Se evochiamo qui solo per cenni la categoria di responsività, è per sottolineare come l’ipotesi di porre l’accento sul nesso vulnerabilità-responsività produca un rischio gemello e simmetrico rispetto a quello generato dallo stringersi eccessivo della coppia fragilità-colpevolezza; la responsività risulta infatti essere categoria troppo ampia per intendere il senso della responsabilità, diluita in una condizione di relazionalità originaria. Il presupposto teorico delle fenomenologie responsive è la correlazione responsiva, non solo secondo il registro linguistico, ma secondo tutti i possibili registri del nostro stare al mondo in un’esperienza incorporata. Essere responsivi significa che la risposta si dà sempre, secondo l’adagio troppo noto secondo il quale anche il non rispondere è una risposta. Ma responsività e responsabilità non coincidono (il debito di Waldenfels nei confronti di Levinas è costante e riconosciuto, ma con una decisiva variazione proprio riguardo all’“unilateralità etica” della prospettiva levinasiana, cfr. ad esempio Waldenfels 2008, p. 104). La vulnerabilità quale apertura etica è, infatti, sì esposizione, ma questa non nel senso di una relazione continua e da tutt’intorno, piuttosto una relazione, di volta in volta finita e determinata, che attraversa la separazione; meglio: tale esattamente in quanto è la separazione e l’interruzione che fa di una risposta una parola responsabile. Non il rispondere sempre, ma la risposta come esperienza che custodisce e protegge in sé il senza-risposta.


Bibliografia

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