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Dacci oggi il nostro male quotidiano

ROBERTO ESCOBAR
Articolo pubblicato nella sezione "Chi è senza peccato..."
[...] quello che siamo capaci di fare [...]
è più grande di quello di cui noi possiamo farci un’immagine [...]
Günther Anders 1995, p. 29

L’ombra del Bene

Unde est malum? Da dove viene il male? Nel 2011 la domanda di Agostino (cfr. Confessiones VII, 5) torna in un piccolo libro di Zygmunt Bauman (Bauman 2018, pp. 40 s.). Il mistero che forse più di ogni altro preoccupa i filosofi morali, vi si legge, è quello «dell’unde malum? [...], del “come mai le persone buone diventano cattive?” (o, più precisamente, il segreto della misteriosa metamorfosi di familiari affettuosi, e di vicini benevoli e amichevoli, in mostri) [...]». Una preoccupazione, questa, che si è tragicamente imposta con lo sconvolgimento dei totalitarismi e dello Sterminio, ma che va oltre quell’orrore e giunge fino a noi. Il nostro mondo è come un campo minato «del quale si sa che una mina prima o poi esploderà benché nessuno sappia in anticipo quando e dove». Rispetto ai milioni di civili uccisi nel secolo scorso, – fra i cento e i centosessanta, scrive Bauman, ricordando gli studi di Robert J. Sternberg –, in termini statistici l’11 settembre 2001 è stato un giorno come un altro.
Il male, questo male che chiamiamo assoluto, e che talvolta scriviamo con la maiuscola, è forse la negazione di un bene altrettanto assoluto, e da scrivere anch’esso con la maiuscola? O al contrario la certezza che un Bene esista, e che in suo nome si debba purificare e migliorare il mondo, può indurre gli uomini e le donne a far male ad altri uomini e ad altre donne, per salvarli, per purificarli, per salvare e purificare il mondo? Di questo è certo l’Ikonnikov raccontato da Vasilij Grossman in Vita e destino (cfr. Grossman 2008, pp. 352 s.).
Nato nel cuore di grandi uomini – scrive nei fogli sporchi dei suoi “scarabocchi” il vecchio, folle ex tolstojano, ex comunista, ex cristiano –, il bene viene da loro restituito alla vita per cambiarla a sua immagine. Tuttavia, «non sono i gironi della vita che mutano a immagine e somiglianza dell’idea del bene; è l’idea del bene che affonda nella palude della vita». Così è accaduto con il cristianesimo e con la sua parola di pace e amore, affondata nelle torture dell’Inquisizione, nella lotta alle eresie e nei «secoli di persecuzione che hanno soffocato la scienza e la libertà»
Ho visto l’idea incrollabile del bene sociale – gli fa subito aggiungere Grossman, memore del proprio stalinismo d’un tempo –, ho visto questa idea nata nel mio Paese uccidere centinaia di migliaia di uomini, di donne, di bambini «nel nome di un ideale bello e umano come quello cristiano». E ora, nella Russia e nell’Europa occupata dai nazisti, il fumo dei forni crematori fa nero il cielo e spegne il sole. «Ma anche questi crimini [...] sono compiuti in nome del bene».
Per quanti libri siano stati scritti su che cosa siano il male e il bene, e su come il bene possa combattere il male – così suona la conclusione tragica di Ikonnikov –, resta un cruccio inconfutabile: «là dove si leva l’alba del bene eterno, che mai sarà vinto dal male – quel male anch’esso eterno che mai trionferà sul bene –, là muoiono vecchi e bambini e scorre il sangue».
La ricerca del bene, di un bene che pretende d’essere al di sopra degli individui – commenta Tzvetan Todorov (cfr. Todorov 2004, p. 87) –, si confonde con la pratica del male. E in queste parole sembra riecheggiare quanto scrive Anatole France nel 1912, prima che i totalitarismi perseguitino e uccidano milioni di esseri umani per “cambiare la vita” sul modello del proprio ideale.
Évariste Gamelin, uno dei due personaggi centrali di Gli dèi hanno sete – l’altro è Maurice Brotteaux, ex nobile ridotto in povertà che nella Parigi del 1793, alle soglie del Terrore, «per riconfortarsi» legge Lucrezio (France 1970, p. 610) –, il giovane Gamelin, dunque, ama gli ideali illuminati e luminosi della rivoluzione. I repubblicani, spiega a Brotteaux, «sono umani e sensibili. Soltanto i despoti sostengono che la pena di morte è un attributo necessario dell’autorità». «Robespierre l’ha combattuta, e con lui tutti i patrioti; non sarà mai troppo presto per abolirla». E però, finché le glaive de la loi, finché la spada della legge non avrà eliminato anche l’ultimo nemico della Repubblica, i patrioti dovranno continuare a uccidere: «que la guillotine sauve la patrie!», che la ghigliottina salvi la patria (cfr. France s.d., p. 47; France 1970, pp. 641 s.).
Nominato membro del Tribunale rivoluzionario, Gamelin non smette di amare l’umanità e di sognare un tempo in cui tutti saranno «felici, puri, innocenti». E poiché immagina che il suo compito sia rigenerare gli uomini, si impegna a far tagliare la testa a chi lo impedisce (France 1970, pp. 746 s.). Di fronte a questo dovere, morale prima che politico, è certo che non siano mai troppi gli “scellerati” che manda alla ghigliottina senza gli impedimenti di inutili procedure giuridiche – «la loro colpevolezza salta agli occhi» (ivi, p. 754) –, e senza che siano stati ascoltati, né che sia stata letta loro alcuna sentenza. Se il vecchio Stato, le monstre royale (cfr. France s.d., p. 175) che era l’incarnazione del male, metteva in galera quattrocentomila uomini ogni anno, ne impiccava diecimila e ne arrotava tremila, perché mai la Repubblica dovrebbe esitare «a sacrificare qualche centinaio di teste alla propria sicurezza e alla propria potenza? Anneghiamoci nel sangue e salviamo la patria» (France 1970, p. 758).
Il Bene non può e non deve essere fermato dalla pietà, e neppure dall’orrore. A lui, all’idealista, al puro Évariste Gamelin, oggi tocca il compito eroico e ingrato di essere crudele e senza pietà, «perché domani tutti i francesi si abbraccino versando lacrime di gioia» (ivi, p. 759). Del resto, subito dopo la nomina al Tribunale, questo gli è stato fatto giurare dal presidente della sua sezione del Pont-Neuf, una delle 48 in cui la rivoluzione ha suddiviso Parigi: «di soffocare entro il proprio cuore, nel nome sacro dell’umanità, ogni debolezza umana» (ivi, pp. 664 s.). In un modo non diverso, chiamando le sue SS a combattere battaglie che le generazioni future non dovranno più combattere, centocinquant’anni più tardi Heinrich Himmler chiederà loro di essere sovrumanamente inumane (Arendt 1998, p. 113).
Forse Ikonnikov, che i suoi compagni nel Lager trattavano con la compassione mista a disprezzo che si deve ai folli – e che parlava «con voce tanto chiara e stentorea» come solo un folle può –, forse il vecchio Ikonnikov direbbe che il male altro non è che l’ombra del bene. E aggiungerebbe che il male è far male, che non “è”, ma consiste nel far male a un altro, o a milioni di altri, nel far male ai loro corpi, nel far male alle loro anime (cfr. Escobar 2008, pp. XVIII-XX).


Loro, non noi...

Unde malum?, si domanda dunque Bauman. Rispetto alla domanda di Agostino, la sua è formulata in tono ben più dimesso, ma non è meno inquietante: non “da dove viene il male?”, quasi che il male esistesse di per sé, quasi che stesse in qualche luogo o in qualche principio, ma “come le persone buone diventano cattive?”. Non si tratta, qui, dei grandi uomini di cui scrive Ikonnikov, mossi da un’idea del bene che poi, nella certezza e nella presunzione di cambiare la vita, affonda in una palude di dolore e orrore. Qui si tratta di uomini e donne comuni. Qui si tratta di noi.
Qual è il segreto della trasformazione in mostri di familiari affettuosi, di vicini benevoli e amichevoli? Formulando così la domanda, Bauman chiama in causa Philip Zimbardo e il suo L’effetto Lucifero, il cui sottotitolo originale suona How Good People Turn Evil. Non si tratta di indagare il male in sé, “essenzializzato”, ma il male tra noi, il male che nasce e vive in una situazione (cfr. Zimbardo 2008, pp. 4-9), in una relazione di esseri umani con esseri umani, e che sembra trasformare alcuni di loro in mostri.
In qualche misura, anche questo male è il calco del bene, la sua ombra. La SS che partecipa senza angoscia allo sterminio di ebrei, rom e omosessuali è certa di poterlo e doverlo fare in vista del bene. Per lei, ebrei, rom e omosessuali valgono quanto gli scellerati di Gamelin, che si oppongono a un’umanità felice, pura, innocente. Così le hanno detto, così le hanno insegnato.
Allo stesso modo, e allo stesso fine, gli uomini comuni del battaglione 101 della Ordnungspolizei nazista – tutti familiari affettuosi, tutti vicini benevoli e amichevoli – sono certi di potere e dovere uccidere vecchi, donne e bambini ebrei con un colpo di fucile alla nuca, in un bosco polacco. Se si rifiutassero, non gliene verrebbe alcun danno. Così è stato loro detto dai capi. Ma solo una esigua minoranza lo fa (cfr. Browning 1999, pp. 56 ss.). Eppure non sono, né il poliziotto del battaglione 101 né la SS, buoni nel senso “eroico” di Gamelin. Non sono idealisti, come invece si considerava Adolf Eichmann (cfr. Arendt 1998, pp. 49 s.), anche in questo allievo di Adolf Hitler (cfr. Hitler 1940, p. 327). Sono uomini quotidiani, uomini che potrebbero starci vicini, tanto vicini da confondersi con noi, da essere noi.
In Mein Kampf Hitler teorizza la necessità di accompagnare all’uso della violenza una Weltanschauung «perfettamente vera». Solo una visione del mondo fanatica impedisce che la pietà freni e blocchi l’azione dei seguaci, in primo luogo dei migliori, costretti ad azioni disumane allo scopo di annientare anche l’ultimo tra gli avversari (Hitler 1943, pp. 186-189; Hitler 1941, pp. 185-188; cfr. Escobar 2001, pp. 76-82). Così, almeno in parte, si spiegano l’obbedienza e l’indifferenza, quando non l’entusiasmo della SS e del poliziotto del battaglione 101: con la propaganda, con il fanatismo ideologico indotto nell’immaginario di un gruppo o di un popolo.
E tuttavia, se un indottrinamento di massa fosse non solo necessario, ma anche sufficiente per indurre un popolo ad accettare l’inaccettabile, l’orrore sarebbe troppo facilmente spiegato. Lo si potrebbe ricondurre a uno o più colpevoli individuabili e individuati, e le coscienze – le nostre coscienze di familiari affettuosi, di vicini benevoli e amichevoli – ne approfitterebbero per acquietarsi. Basta contrastare la manipolazione del discorso pubblico, ci diremmo, basta vigilare sul vero e sul falso – su quelle che oggi usiamo chiamare fake news –, e l’orrore non tornerà. Questa prospettiva semplificherebbe la questione dell’unde malum?, ne scioglierebbe il mistero e ne svelerebbe il segreto, fino a svuotarli di ogni spavento morale.
Lo stesso accadrebbe se si accettasse un’ipotesi famosa avanzata da Adorno e dai suoi collaboratori nel 1950, secondo la quale la tendenza a escludere e perseguitare sarebbe legata a «disposizioni psichiche durevoli» e profonde di uomini e donne dall’intelligenza comparativamente debole (Adorno, Frenkel-Brunswik, Levinson, Sanford 1982, pp. 324 e 403 ss.). La loro “cattiveria” sarebbe spiegata da una personalità orientata alla rigidità morale, all’etnocentrismo, al conformismo.
Entrambe le prospettive – quella di un inganno che ci verrebbe dall’esterno, da un complotto, da una ideologia, da una pratica di propaganda, e quella di una anormalità della psiche e dell’intelligenza preesistente al nostro eventuale cedere al male –, entrambe queste prospettive, dunque, ci sgravano non tanto dal pericolo di “diventare cattivi”, quanto dalla consapevolezza scomoda di essere esposti anche noi, persino noi, a un tale pericolo. Solo gli altri, gli ingenui, i creduli, i poco intelligenti, i deboli psichici, si fanno contagiare dal fanatismo criminale. Noi non siamo ingenui e creduli, e ancora meno psichicamente deboli e poco intelligenti. Gli altri sono altri uomini e altre donne, ma anche altri popoli, che noi giudichiamo esposti a quel veleno per via delle loro “durevoli disposizioni” mentali, culturali e storiche.


Normalità del far male

Nonostante e contro queste prospettive, nonostante e contro la loro rassicurazione paradossale, si può sospettare che per la disponibilità a far male fino all’estremo non occorrano – non sempre, e neppure spesso – patologie dell’anima, né bastino inganni. Si può sospettare che il male che ci capita di chiamare assoluto, anche per allontanarlo da noi, ci sia tristemente vicino.
Per quanto abbia avuto il merito di superare l’interpretazione patologico-mostruosa dei carnefici nazisti, o comunque dei loro seguaci, l’espressione banalità del male – questo «succinto verdetto» che è la più ripetuta «fra le conclusioni della Arendt» (Bauman 2011, p. 52) – rischia di essere a sua volta banalizzata, e ridotta a semplice povertà intellettuale e miseria morale.
Quanto alla normalità o meno di Eichmann, nel secondo capitolo di La banalità del male la Arendt scrive con evidente sarcasmo che, avendolo esaminato in prigione, «una mezza dozzina di psichiatri lo aveva dichiarato “normale”», e che uno di loro aveva raccontato d’averlo trovato più normale di quanto non fosse lui stesso dopo avergli parlato (Arendt 1998, pp. 33 s.). E in effetti, commenta la Arendt, Eichmann «era normale nel senso che “non era un’eccezione tra i tedeschi della Germania nazista”, ma sotto il Terzo Reich soltanto le “eccezioni” potevano comportarsi in maniera “normale”». Naturalmente, la domanda è, o dovrebbe essere, come un popolo, non tra i minori e i peggiori d’Europa, sia potuto diventare una tale “eccezione”, come sia potuto diventare nella sua grande maggioranza intellettualmente povero e moralmente misero.
Di normalità del male e di mostruosità scrive Primo Levi nel 1976, in appendice a Se questo è un uomo (Levi 2014, pp. 197 s.). Quanto è avvenuto nei campi di sterminio «non si può comprendere». Comprendere un comportamento, spiega, «significa (anche etimologicamente) contenerlo, contenerne l’autore, mettersi al suo posto, identificarsi con lui, Ora, nessun uomo normale potrà mai identificarsi con Hitler, Himmler, Goebbels, Eichmann e infiniti altri». E però subito aggiunge che i persecutori nazisti e fascisti, «questi fedeli» di Hitler e di Mussolini, «non erano aguzzini nati, non erano (salvo poche eccezioni) mostri: erano uomini qualunque» (p. 198). Nessun uomo – così ci pare vadano intese le parole di Levi – potrebbe identificarsi con Hitler, Himmler, Goebbels, Eichmann in una situazione normale (per quanto “normale” sia un aggettivo dal significato pericolosamente ambiguo). E però un uomo qualunque può diventare un mostro, e insieme con milioni di altri può considerare normale la propria mostruosità.
Davvero Eichmann era intellettualmente mediocre? Davvero non era in grado di elaborare una prospettiva etica diversa da una caricatura «a uso della povera gente» dell’imperativo categorico kantiano (Arendt 1998, pp. 143 s.)? Davvero non sapeva pensare ed esprimersi che con stereotipi (p. 56)? O al contrario, come immagina Jonathan Littell in Le benevole, era «un burocrate di grande talento», che «come quadro intermedio sarebbe stato l’orgoglio di qualunque impresa europea» (Littell 2014, p. 550)? Si propenda per la prima ipotesi o per la seconda – come sembra fare Bauman (Bauman 2011, pp. 61 s.) –, in ogni caso niente se ne dovrebbe dedurre se non a proposito e solo a proposito del suo “far male” a milioni di vittime. Quello che resta da comprendere è se altri uomini e altre donne di intelligenza e cultura certamente raffinate non possano, e di fatto non abbiano potuto, macchiarsi dei suoi stessi crimini, qualche volta come “mostri” attivi, e molto più spesso come loro complici indifferenti e silenziosi. Il professor Zimbardo sperimenta su se stesso questa possibilità.
Nel 1971 Zimbardo conduce una ricerca che conferma, e radicalizza, le conclusioni cui tra il 1960 e il 1963 è giunto Stanley Milgram. Fatta costruire all’interno del dipartimento di Psicologia una mock prison, una simulazione funzionale di una vera prigione americana, seleziona a sorte un certo numero di volontari – incensurati e “normali” –, assegnando ad alcuni il ruolo di guardia e ad altri quello di carceriere. I secondi dovranno mantenere l’ordine senza violenze, neppure verbali, e seguendo rigide norme di rispetto e civiltà (Haney, Banks e Zimbardo 1973, pp. 71 ss.).
L’esperimento dovrebbe durare due settimane, ma viene interrotto la mattina del sesto giorno, un venerdì, quando ormai le angherie e le violenze delle guardie sui prigionieri ricordano quelle dei nazisti. Zimbardo e i suoi collaboratori ne traggono l’ipotesi che cattivi si diventi in situazioni in cui vengano “messe in scena” nella realtà sociale una superiorità e una inferiorità di ruoli, come loro stessi hanno fatto nella mock prison (Zimbardo 2008, pp. 293 ss.; cfr. Escobar 2018 a, pp. 74 ss.). In fondo, per quanto più netto, per quanto più crudo, si tratta pur sempre di quanto ha già scoperto Milgram a Yale: data una buona causa e una “idea di bene” – una ricerca sul rapporto fra dolore e memoria –, dato un contesto autorevole – un ambiente dedicato alla ricerca scientifica in un dipartimento universitario –, dati i simboli riconosciuti dell’autorità – i camici bianchi dei “ricercatori” (cfr. Milgram , pp. 14-26) –, un numero molto rilevante di familiari affettuosi e vicini benevoli e amichevoli non esita a infierire su un essere umano applicandogli una scossa elettrica di 450 volt, che se fosse vera potrebbe essere mortale.
Ma l’esperimento di Stanford va oltre questo risultato già sconvolgente, e oltre le aspettative di Zimbardo. Come ogni altro del suo gruppo di ricerca, il professore non è mediocre né banale. Eppure, al quinto giorno si trova coinvolto nel “male” trionfante. Per quanto le guardie – tutti familiari affettuosi, tutti vicini benevoli e amichevoli –, per quanto le guardie, dunque, siano diventate cattive, per quanto siano diventate violente, il professor Zimbardo non pensa a interrompere l’esperimento. I risultati lo entusiasmano. Questo è «un crogiuolo di comportamenti umani», dice alla psicologa sociale Christina Maslach, che non partecipa alla ricerca e che la sera lo raggiunge in università (Zimbardo 2008, pp. 257 s.).
Sopraffatta dall’orrore, Christina gli chiede di interrompere quello scempio, ma lui rifiuta, in nome della scienza. Piangendo, lei rinuncia alla cena che avevano in progetto e fa per tornare a casa. Zimbardo la rincorre, e i due litigano. Lui la accusa di non essere una buona scienziata, se si fa coinvolgere così dall’emozione «per una procedura di ricerca». Furibonda, Cristina gli risponde che se anche «tutti a questo mondo» pensassero che quel che lui fa fosse ben fatto, lei resterebbe convinta che è «semplicemente sbagliato», e che lui è responsabile di tutte quelle sofferenze.
Questo lo convince, questa “voce” che rompe il silenzio morale in cui è precipitato in nome della scienza, e che all’improvviso lo fa uscire e lo libera dalla situazione della mock prison. Il potere di questa situazione, scrive 36 anni dopo, è dilagato «rapidamente e profondamente fra tutti coloro che si trovavano su questa nave partita per esplorare la natura umana. Solo pochi erano riusciti a resistere alle tentazioni situazionali di arrendersi al potere e al dominio conservando qualche parvenza di moralità e di decoro. Ovviamente, io non appartenevo a quella nobile categoria» (p. 259).
Sicuro di essere legittimato da una buona, da un’ottima “idea di bene”, Zimbardo si trova a (lasciar) fare il male, a (lasciar) far male ai corpi e alle anime, quasi fosse un piccolo, eroico Gamelin o un piccolo, banale Eichmann. Si convince di non essere diventato cattivo. Non è una guardia della mock prison. Non lo sono né lui né i suoi collaboratori. Non ha deriso nessuno, non ha umiliato nessuno, non ha fatto soffrire nessuno. Solo per il bene della ricerca permette che altri lo facciano. Un piccolo male è un prezzo accettabile per un bene grande. Che il male fatto ai prigionieri sia piccolo risulta evidente a confronto con la bontà dello scopo. Meglio ancora, è implicito nella sua bontà.
Non basta un’idea di bene – una tra le molte che di volta in volta illuminano il nostro futuro, insanguinando il nostro presente –, per proiettare sulla vita l’ombra del male. Occorre anche e soprattutto la messa in scena sociale (situazionale) di quell’idea – anche se all’apparenza né fanatica né perfettamente vera –, per trasformare uomini normali, banali o non banali, mediocri o non mediocri, in fedeli sanguinari, in criminali in ottima coscienza, o nei loro complici silenziosi e indifferenti.
Forse questo intende Levi, quando ci rammenta che, salvo poche eccezioni, i suoi aguzzini non erano mostri, ma uomini qualunque.


Farsi un’immagine

Torniamo nella Parigi del 1793, non all’eroismo lordo di sangue di Évariste Gamelin, ma al disincanto di Maurice Brotteaux. L’ex nobile, l’ex gaudente Brotteaux non ha fede in alcun bene, ed è convinto che in fatto di giustizia affidarsi ai dadi sia «ancora il mezzo più sicuro» (France 1970, p. 662). La virtù, spiega a Gamelin, è solo un espediente che gli uomini hanno inventato per vivere insieme senza troppa fatica. Quanto alla morale, «non è che un’impresa disperata dei nostri simili contro l’ordine universale, che è la lotta, la carneficina, il cieco gioco di forze contrarie. [...] più ci penso, più mi persuado che l’universo è arrabbiato» (ivi p. 646). Eppure, nonostante sia certo di abitare un universe enragé (France s.d., p. 52), senza senso né scopo, di fronte all’apologia della ghigliottina fatta dal suo probo interlocutore non trattiene un moto di ripulsa. Uccidere è nel diritto naturale, ammette, forse intendendo che è parte dell’aveugle jeu de forces contraires anonimo e indifferente. Eppure, «mi ripugna di veder scorrere il sangue; è una depravazione che tutta la mia filosofia non è ancora riuscita a correggere» (France 1970, p. 642).
Questo è il segreto più nascosto, il mistero più fondo dell’umano, troppo umano “far male”: che ci sia chi non prova una tale ripugnanza. Il 2 marzo 1757, per fare un esempio tra i più orridi, tutta Parigi si riversa in place de Grève, per veder torturare con tenaglie roventi e piombo fuso il povero Damiens, reo d’avere attentato al corpo sacro del re. Tra il pubblico, sotto le finestre prese in affitto da molte “dame” per lo spettacolo, c’è anche Voltaire, che chiede al boia di lasciarlo entrare nel recinto del patibolo. Non ha nulla contro Damiens – ricorda lui stesso vent’anni più tardi –, né vuole gustare il piacere di un essere squartato. Vuole avvicinarsi «unicamente per curiosità, come si vanno a vedere esperimenti di fisica» (cfr. Escobar 2018a, pp. 47-50). Certo Voltaire non è banale, né mediocre. È probabile che lo sia persino meno del professor Zimbardo. Ma come il professor Zimbardo, anche l’académicien illuminato è e vuole restare uno scienziato, un ottimo scienziato.
E però uomini molto meno raffinati e molto più banali di Voltaire e Zimbardo talvolta la provano, la ripugnanza di Brotteaux. Così accade alla piccola minoranza dei poliziotti del battaglione 101, non più di una dozzina, che non accettano di massacrare uno a uno vecchi, donne e bambini. Più di vent’anni dopo, interrogati sui motivi del loro rifiuto, quasi tutti dicono di non averlo fatto per qualche principio morale o politico – per il Bene –, ma per una «assoluta repulsione fisica» (Browning 1999, p. 77).
Siamo così di nuovo al segreto e al mistero. Perché alcuni uomini e donne – spesso molti – non soffrono, neppure solo fisicamente, la vista del dolore di altri? Detto altrimenti, perché non provano, o riescono a non provare la forza di quella very illusion, di quella vera e propria illusione che Adam Smith chiama simpatia, e che spinge un essere umano a sentire quello che sente un altro essere umano – noi diremmo a farsene un’immagine –, as it were into is body, come se davvero fosse nel suo corpo (cfr. Escobar 2018a, pp. 85 ss.)? Qui soprattutto opera la metamorfosi di cui scrive Bauman, da familiari affettuosi e vicini benevoli e amichevoli non tanto in mostri, quanto in complici indifferenti del far male: in questo loro non provare repulsione di fronte alla sofferenza. Meglio, in questo fare come se non l’avessero di fronte.
Certo, questo non sentire, questo non immaginare, questo non provare ripugnanza, neppure fisica, è anche il risultato di un processo psicologico, che può essere parallelo a un altro, politico. Per il primo, valgano le cento pagine iniziali di Delitto e castigo. Tante ne servono a Raskol'nikov per convincersi a uccidere Alëna Ivanovna (cfr. Escobar 2018a, pp. 65-70).
Seduto in una misera trattoria, il futuro assassino sente dire da uno studente che l’usuraia è solo «una vecchia stupida, balorda, insignificante, cattiva e malata, che non serve a nessuno, anzi è dannosa a tutti, che non sa neanche lei perché vive e che domani comunque morirà per conto suo». Tuttavia, si affretta ad aggiungere lo studente, personalmente non potrebbe mai ucciderla. E come potrebbe anche lui, Raskol'nikov, accanirsi personalmente contro di lei con un’accetta? Gli ci vogliono quelle drammatiche, profondissime cento pagine, per trovare la risposta: Alëna Ivanovna non è un essere umano, ma uno scarafaggio, e gli scarafaggi si possono schiacciare.
Così “insegnavano” alle SS nei campi di sterminio: quelli che stavano per uccidere non erano esseri umani. Nel 1971, Gitta Sereny intervista in carcere Franz Stangl. Visto che li avreste uccisi tutti, domanda, a che cosa servivano i viaggi nei carri piombati, l’umiliazione delle ispezioni fisiche interne, il taglio dei capelli, e alla fine la corsa, nudi, nelle camere a gas, sotto le frustate? Per condizionare quelli che dovevano eseguire materialmente le operazioni – risponde l’ex comandante di Sobibór e Treblinka –, perché potessero fare ciò che facevano (Sereny 1994, p. 135). Ossia: perché immaginassero che non stavano per macellare esseri umani, ma per schiacciare insetti.
Quello che Raskol'nikov “trova” da solo, alle SS di Stangl e di tanti altri era stato lungamente detto. Questo è il senso più crudo della Weltanschauung fanatica e perfettamente vera cara a Hitler. E questo, alla fine, è il senso dell’immaginario diffuso tra noi nel corso di decenni dalla politica della paura e dell’odio. Ci sono esseri umani che non sono esseri umani, che non sentono quello che noi sentiamo. Dunque, noi non possiamo e non dobbiamo sentire quello che loro sentono as it were possible (cfr. Escobar 2018b, pp. 438-440).
Ma tutto questo ancora non basterebbe a spiegare quell’ottundimento dell’immaginazione che nel nostro tempo s’è diffuso come una pandemia morale e politica, se non si aggiungesse qualcosa che Milgram scopre nel suo esperimento, a Yale. Man mano che il “persecutore” infierisce sulla “vittima” con scosse di intensità crescente, deve «giustificare di fronte a stesso» quanto ha già fatto. E «il modo per giustificarsi» è continuare, andare sino in fondo, verso l’estremo. Se non lo facesse, sarebbe costretto ad ammettere che quanto ha fatto fino a ora è male, che lui stesso è parte di questo male. In tal modo, si trova «invischiato, un po’ alla volta, in una catena di azioni distruttive», ognuna resa necessaria dalla precedente (Milgram 2003, pp. 139 s.). Complicità con le proprie azioni, così Bauman chiama questo invischiarsi da sé che mette a tacere la colpa e la responsabilità (cfr. Bauman 1992, pp. 218 ss.). E noi lo possiamo chiamare corruzione morale, assuefazione crescente alla perdita dell’immaginazione “simpatetica”, giorno dopo giorno, anno dopo anno, orrore dopo orrore.
L’incapacità di immaginare, la «mancanza di fantasia» è il cuore dell’immoralità, ci avverte Günther Anders in un’intervista del 1979, riferendosi alla corsa cieca dell’umanità verso l’autodistruzione nucleare (Anders 2008, pp. 74 s.). Oggi di quella corsa molti hanno perso la consapevolezza, probabilmente a torto. E certo a molti sembra inutile interrogarsi sul mistero e sul segreto che sempre più fanno del nostro mondo un campo minato di odio e orrore. Eppure, sarebbe “bene” che ci impegnassimo nella virtù cognitiva e insieme morale dell’immaginazione. L’alternativa è lasciarci invischiare nel nostro male quotidiano, nel male che nessuno ci dà, se non noi stessi.


Bibliografia

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