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Alberto Manzi e l’America latina

ANDREA MULAS
Articolo pubblicato nella sezione "Tra le righe"

L’esperienza sudamericana di Alberto Manzi iniziò nell’estate del 1955, nella Bolivia riformista del presidente Paz Estenssoro. Giunto come “esploratore” ignaro e curioso del mondo latinoamericano, ne diventerà un profondo e attento conoscitore, con rara capacità e sensibilità a-centrica rispetto alla formazione culturale di stampo euro-etnocentrica che caratterizzerà la maggior parte delle analisi storico-politiche e socio-economiche del ventennio 1960-’70, che verranno elaborate nel Vecchio Continente ad uso e abuso dei popoli latinoamericani. Si tratta di un aspetto meno noto - ma non secondario - della vita di Alberto Manzi (di cui poco rimane traccia nel suo archivio), ed è lui stesso che ne riconosce il valore: «Ero andato in Sudamerica per studiare le formiche, ma vi ho trovato cose più importanti». Come ha puntualmente sottolineato Giulia Manzi, «eppure l’Alberto Manzi che andava a insegnare agli indios a leggere e a scrivere, che denunciava la violenza di un potere politico sulla povera gente, che rischiava la sua vita in nome dell’educazione e della dignità umana... quell’Alberto Manzi lo conoscono in pochi. Sebbene non parlasse spesso delle sue peripezie sudamericane, esse vivono in forma romanzata nei suoi libri» (Manzi 2017, p. 29).


Destinazione Sudamerica

Il primo incarico da insegnante di Alberto Manzi risale al carcere minorile “Aristide Gabelli”, un’esperienza formativa in cui insegnò, a soli 22 anni, ad una classe di novantaquattro ragazzi condannati per reati gravi, omicidi, rapina a mano armata. Eppure riuscì a coinvolgere i giovani detenuti e a stampare il periodico “La Tradotta”, il primo giornalino scritto in un carcere italiano. Inoltre da questa esperienza nacque il romanzo Grogh, storia di un castoro premiato nel 1948 con il “Collodi” per le opere inedite, due anni dopo pubblicato dalla Bompiani e successivamente tradotto in 28 lingue.
Consegue prima la laurea in biologia e poi in pedagogia all’Università La Sapienza di Roma con il professore Luigi Valpolicelli, che gli propone l’incarico di assistente affidandogli nel 1953 la direzione della Scuola Sperimentale della Facoltà di Magistero, ma il giovane ricercatore rimane solo per un anno perché in quella scuola «non si sperimentava niente» (Farnè 2009, p. 9).
Queste le premesse al contatto con il subcontinente. Si tratta dell’altra metà (rilevante) della sua vita, come dimostra chiaramente la straordinaria ed emozionante produzione letteraria attraverso la quale il maestro/scrittore fa emergere con chiarezza e semplicità le principali specificità del mondo e dei popoli latinoamericani, quali lo sfruttamento delle materie prime, il sistema repressivo, la liberazione dall’oppressione, l’impegno delle donne nella società, la promozione dell’essere umano, la denuncia e lo studio delle cause del sottosviluppo, la dimensione religiosa, l’alfabetizzazione educatrice, il ruolo della chiesa, il rispetto dei diritti dei popoli, e così via. Mi riferisco a La luna nelle baracche (Salani, 1974), El loco (Salani, 1979), E venne il sabato e Gugù (terminati nel 1997 e pubblicati postumi nel 2005 da Gorée).
La notorietà arrivò con la pioneristica trasmissione “Non è mai troppo tardi. Corso di istruzione popolare per il recupero dell’adulto analfabeta”, con la quale tenne un’intera popolazione inchiodata alla Tv per 484 puntate da novembre 1960 a maggio 1968. Voluta dalla Rai e dal Servizio Centrale per l’Educazione Popolare del Ministero della Pubblica Istruzione, imitata in settantadue paesi, nel 1960 la trasmissione ricevette il premio internazionale Onu e nel 1965 venne premiata dall’Unesco come uno dei programmi più significativi nella lotta contro l’analfabetismo.
Curata insieme a Oreste Gasperini e Carlo Piantoni, riproduceva in televisione delle vere e proprie lezioni di scuola primaria, con metodologie didattiche innovative, dinanzi a classi composte di adulti analfabeti o semi-analfabeti. La trasmissione andò in onda per ben otto anni, vennero organizzati 12.000 corsi, frequentati da 150.000 allievi, senza contare gli altri 500.000 partecipanti che seguirono i corsi senza far parte dei gruppi di ascolto: si stima che quasi un milione e mezzo di persone abbiano conseguito la licenza elementare grazie a queste lezioni a distanza, svolte di fatto secondo un vero e proprio corso di scuola serale. Le trasmissioni avvenivano nel tardo pomeriggio, prima di cena; Manzi utilizzava un grosso blocco di carta montato su cavalletto sul quale scriveva, con l’ausilio di un carboncino, semplici parole o lettere, accompagnate da un accattivante disegnino di riferimento. Delle volte utilizzava anche una lavagna luminosa, per quei tempi assai suggestiva. 
Qualche anno prima, come ha approfondito recentemente la storica Vanessa Roghi, altri per vie diverse avevano affrontato la lotta contro l’analfabetismo per una scuola inclusiva, come don Lorenzo Milani, Anna Lorenzetto, Carlo Bascetta, Gianni Rodari, Tullio De Mauro (cfr. Roghi 2017), e aggiungo fino ad arrivare al maestro Franco Lorenzoni.
Assai meno noto è invece il fatto che ogni anno Manzi attendesse le vacanze estive per trascorrere un mese abbondante nell’area andina della foresta amazzonica, dove svolgeva il lavoro di educatore e alfabetizzatore, dando anche impulso a cooperative agricole. In sostanza insegnava a leggere e a scrivere ad un gruppo di “naturales” (come li definisce il maestro), di campesinos, di indios analfabeti. Per questa attività, che si protrae fino al 1977, aveva come punto di riferimento un gruppo salesiano, in particolare il “prete rosso” don Giulio Pianello, suo amico fraterno.
Le opere di Manzi, frutto di questa esperienza sono sì romanzi pedagogici, ma anche storici e con un altissimo valore umano e culturale.
«Quando devo fare una cosa, mi metto nei panni degli altri. Ogni altro sono io, capite? Ogni altro sono io». L’altro diventa un io ed è questa immedesimazione dai tratti evangelici, questo ricercato confronto umano con il prossimo che abbatte le frontiere, fa crollare muri, sgretola divisioni che separano culture, che non sono altro che il frutto di percorsi e di storie di vite umane tanto simili quanto distanti solo per lingua, geografia, cultura, tradizione. Come ha spiegato il professore Andrea Canevaro, si tratta del «compendio di un percorso di crescita della propria coscienza, della propria promozione umana che porta a cercare di capire pensando agli altri, non avendo come unico referente se stesso» (Canevaro 2014, p. 18).


Dalla parte degli ultimi

Manzi affronta criticamente la scarsa incisione sociale e il distacco delle gerarchie ecclesiastiche dai popoli del subcontinente che vivono nei “sotterranei della storia” (per dirla con Frei Betto), tanto che nella sua ultima intervista ricorda che in quegli anni affrontando la controversa questione della teologia della liberazione si discuteva «se la chiesa doveva servire l’uomo o doveva servire il potere» (Zaniolo 2013). Nella sua trilogia sudamericana è chiara la posizione di quella chiesa sorda e fiancheggiatrice dei potentati locali, che utilizzano il potere temporale in campo religioso: «Voi sapete che ogni atto di ribellione è contro la volontà del Signore. Gesù ha posto l’altra guancia; Gesù ha detto a Pietro: chi di spada ferisce, di spada perisce… Beati i colpiti dall’ingiustizia, perché avranno giustizia nei cieli, ha detto il Signore» (Manzi 2014, p. 150). A tale chiesa lo scrittore contrappone preti che si sacrificano per la loro gente e che denunciano apertamente i soprusi. Così avviene per don Julio, che pur se malmenato dalle guardie della Compagnia, celebra messa tuonando contro l’autorità: «Ebbene io ora, davanti a voi, davanti a questi nuovi morti, dico che dobbiamo chiedere e volere giustizia. Non voglio più dirvi che avrete giustizia nel regno dei cieli, la giustizia dobbiamo volerla, dobbiamo conquistarla vivendo da giusti. E per vivere da giusti non possiamo più accettare ingiustizie senza denunciarle, senza combatterle. E da oggi, da questo momento, grideremo insieme contro tutte le ingiustizie» (ivi, p. 112).
Anche don Rodas, ne La luna nelle baracche, dopo aver denunciato nel corso di un’omelia le violenze e le morti inflitte dal señor della hacienda e dalla Amazon Company, muore affogato insieme ad altri due preti. Ennesima affermazione di un potere impunito e spavaldo.
Ma è la testimonianza del suo amico salesiano don Giulio Pianello, figura fondamentale nel percorso umano di Manzi, che segna la distanza di una certa chiesa dal pueblo: «Chiamalo come ti pare. In fondo spesso la chiesa stessa per anni e anni ha assecondato questo paternalismo. Ora noi preti non accettiamo più, non possiamo accettare più. E la guerra è scoppiata: le vittime sono tante e ogni giorno aumentano. C’è gente che viene deportata, torturata e spesso uccisa. E nessuno può dir niente. Chi denuncia questi fatti viene chiamato comunista, rosso, bolscevico: così a te prete che denunci queste infamie, ti chiudono la bocca e ti mettono in galera come “comunista”. […] Volevo andare nei villaggi a far scuola, e mi hanno picchiato a sangue; sono stato ricoverato per alcuni mesi in ospedale. Sono ritornato a far scuola, e nuovamente mi hanno bastonato. Ma la mia tristezza non è questo; una bastonata in più o in meno non ti fa perdere la fede in te stesso; è la gente che non spera più» (Manzi 1974, p. 19).
Di fronte a questa condizione Manzi si schiera dalla parte dei poveri e degli emarginati, divulga la pratica della fraternità e dell’accoglienza quali basi fondanti della comunità. Giulia Manzi ricorda che il padre diceva spesso «che ognuno si sarebbe dovuto mettere nei panni degli altri, per comprendere il vicino come se fosse un fratello» (Manzi 2017, p. 33).
L’Alberto Manzi sudamericano è un missionario laico che ha dedicato la sua esistenza al prossimo, non senza pagare in prima persona per le sue scelte. Il maestro, infatti, viene arrestato per difendere una ragazza che veniva malmenata dagli uomini della compagnia che controllava l’estrazione dell’argento. Solo recentemente Giulia Manzi ha scritto dell’esperienza di suo padre nelle carceri boliviane: «volevano fargli confessare di essere lì per motivi politici, quindi finirono per torturarlo: la polizia gli spegneva le sigarette sulle gambe e gli strappavano le unghie. Restò in carcere un mese» (Manzi 2014, p. 40). Riacquista la libertà grazie ai suoi amici di tante avventure don Giulio e Hernan, uno dei capi della guerriglia del movimento di liberazione nazionale boliviano. Quest’ultimo, a sua volta, viene fatto evadere dal carcere nel 1984 a seguito di un piano di fuga messo in atto da Manzi e don Giulio. Rientrato in Italia malconcio da questa rischiosa avventura, il maestro non farà ritorno in Amazzonia.


I popoli, i diritti, la denuncia

In una lettera del 9 gennaio 1985 ad un suo interlocutore, Manzi risponde con chiarezza: «Se ho preso posizione… sì, innanzi tutto come uomo, che rispetta altri uomini, che li vuole rispettati e che fa quel che gli è possibile per dar loro una mano. Come scrittore, facendo conoscere alcuni aspetti del problema “sud america”» (Centro Alberto Manzi 2014, p. 4).
I campesinos descritti da Manzi sono segnati da quelle che lo storico Alain Rouquié ha definito le «stigmate dell’evento coloniale», vittime sottomesse dagli effetti del colonialismo prima e dell’imperialismo poi, a cui fino ad allora non era stata riconosciuta la piena titolarità di diritti politici, economici, civili e sociali.
Su questo concetto-chiave si sofferma più volte Manzi, focalizzando l’attenzione sull’atteggiamento delle popolazioni indigene che può essere riassunto con l’espressione «yo atendo», con la quale lo scrittore indica proprio la subalternità di quegli uomini e donne alle molteplici espressioni del potere. Si tratta di un retaggio storico che sociologicamente il sociologo brasiliano Paulo Freire ha definito il “mutismo brasiliano” o “cultura del silenzio” e che analizza in questi termini: «la società cui è negato il dialogo (comunicazione) e che al posto del dialogo riceve dei comunicati, mescolanza di coercizione e elargizione, diventa necessariamente muta». E ancora: «Tra di noi […] predominò il mutismo dell’uomo, la sua non partecipazione alla soluzione dei problemi comuni. A causa del tipo di colonizzazione che abbiamo subito, ci è mancata del tutto l’esperienza della vita comunitaria. Oscillavamo tra il potere del signore delle terre e quello del governatore, detto capitaô-mor (capitano maggiore)» (Freire 1973, pp. 83-84).
In questo senso i popoli muti di Manzi sono “oggetto di cronaca” e contemporaneamente soggetti delle cronache sui cui corpi vengono perpetrate violenze infernali, abusi gratuiti e ripetuti per tenerli con la schiena piegata e la testa china, sia per lavorare come schiavi (ad esempio estrarre rame o raccogliere caucciù), che per obbedire come servi. Un passaggio di E venne il sabato è un “pugno allo stomaco”, perché Manzi vuole colpire il lettore direttamente e senza filtri. L’obiettivo pedagogico e civile, come già detto, è quello di denunciare sicuramente, ma non solo, anche di far riflettere, indignare e sollevare le coscienze. Ed ecco che il sovrintendente del villaggio per punire una donna che, sfiancata dai colpi di punizione ricevuti ogni sabato nella piazza assolata ai piedi del Palazzo del Governo non riusciva più a raccogliere la quantità di caucciù imposta dalla Compagnia, ordina di castigare il figlio più grande:
«- Sette anni, signore. Il più grande ha sette anni, poi ce n’è uno di cinque e uno di tre.
- Manda a prendere il bambino.
Lo portarono poco dopo. Rideva felice, il piccolo. Per la prima volta era salito su una macchina e il fatto gli era piaciuto. Lo avvicinarono all’inferriata e lo legarono. Il bambino si guardò attorno, incerto se ridere o avere paura. Pensava di partecipare a un gioco, un gioco strano, ma sempre un gioco. Fu il silenzio della folla a impaurirlo. Scoppiò a piangere invocando la mamma. Questa, sfinita, accasciata in terra, provò ad alzarsi, ma riuscì solo a tentennare la testa.
- Fatelo tacere! – ordinò il sovrintendente.
Gli misero un bavaglio.
La madre pareva morta, assente del tutto, indifferente a tutto.
- Sei colpi!» (Manzi 2014, pp. 30-31).


La funzione della parola

Sono gli anni in cui si diffonde, grazie ad una ricca produzione editoriale, il processo di “alfabetizzazione coscientizzatrice” di Freire, secondo cui «la liberazione autentica, che è umanizzazione in processo […] Non è una parola in più, vuota, creatrice di miti. È una prassi, che comporta azione e riflessione degli uomini sul mondo, per trasformarlo» (Freire 2011, p. 17). Questa capacità di analisi critica della propria condizione è il primo e indispensabile passo che crea il terreno per consentire ai popoli sottomessi di sollevare la testa e «guardare il sole, sempre, sempre», come auspica la Maddalena di Manzi per suo figlio ne La luna nelle baracche (Manzi 1974, p. 143).
Manzi condivide le sfide lanciate dalle rivoluzionarie elaborazioni formulate dal sociologo brasiliano durante l’esilio cileno dalla fine del 1964, poiché coglie nel processo di “coscientizzazione” elementi innovativi e dirompenti dal punto di vista educativo, sociale e conseguentemente storico-politico. Al riguardo, saltano subito alla mente alcuni episodi dei romanzi dello scrittore romano che rendono bene l’innescare la scintilla della presa di coscienza dei propri diritti e quindi il principio delle rivendicazioni: «Signore ascolta. Tu parli di avere; noi parliamo di essere. Ora tutti vogliono avere, è vero. Tutti vogliono avere tante cose, anche se poi la maggior parte non riesce ad avere niente, o ad avere poco poco. Noi vogliamo solo essere. Noi vogliamo essere padroni di noi stessi; vogliamo essere capaci di amare, perciò di dare, dare aiuto a chi ne ha bisogno; vogliamo essere capaci di pensare, perché così possiamo rispondere a chi uccide con le parole» (Manzi 1979, p. 138).
Freire, Manzi e aggiungo anche don Milani, tra le fila di educatori esemplari, attribuiscono un ruolo vitale, una funzione sociale alla parola. Sottolinea Roghi che un imperativo categorico per don Milani consiste nel difendere i “suoi” ragazzi da chi «ha più parola di loro». Sembra fargli eco la formulazione della segretaria generale della Fondazione Internazionale Lelio Basso che tanto si impegnò per dar voce ai popoli latinoamericani a partire dagli anni Settanta, Linda Bimbi: «Liberare l’uomo vuol dire dargli la parola, ascoltarlo, farlo soggetto» (Mulas 2018, p. 225).
Allo stesso modo, per Manzi possedere la parola in tutti i suoi aspetti permette di pensare con la propria testa, permette loro di rafforzare la propria presa di coscienza, consente di fare scelte in libertà. In questa chiave di lettura l’epilogo de La luna nelle baracche è sia un grido di denuncia che di speranza nel futuro grazie a Pedro, che indica al suo popolo la via della libertà da difendere “col capo eretto” e che proprio per questo motivo viene giustiziato: «Guardò la sua gente. Era muta, immobile, ma finalmente viva. Lo sentiva. Gente che era stata sempre capace di dare, nelle condizioni più disumane, un senso umano alla vita. Ed ora sarebbe stata capace di dare tutto, ora che riprendeva il coraggio di pensare a voce alta» (Manzi 1974, p. 146). Ecco dunque la gente che agisce, che si fa soggetto, che adesso diventa popolo, diventa un noi: «Vedi signore, tu t’arrabbi subito, mentre noi vogliamo parlare. Anche questo è essere. Noi vogliamo criticare quello che facciamo, perché solo così possiamo crescere, perciò possiamo vivere. Tu hai paura di non avere più. Per questo vuoi farci tacere. Per questo hai le leggi che non si cambiano mai, perché sono fatte per aiutare chi vuole avere, non per chi vuole essere» (Manzi 1989, p. 138).
Si incrina quindi quel rapporto di sudditanza denunciato da Freire: «La stessa solidarietà politica dell’uomo verso il suo signore, proprietario delle terre, quando divenne necessaria con l’importazione della democrazia politica, era semplicemente apparente, proprio perché in tutto il nostro background culturale non esistevano condizioni per un’esperienza di partecipazione popolare alla vita pubblica. Non esisteva il popolo» (Freire 1973, p. 84).


Educazione è liberazione

«Padroni, ma se tutti gli altri si contassero, che cosa fareste voi? Risponde el loco: - Nessuno di loro sa contare. Occorre un uomo libero che insegni loro l’addizione» (Manzi 2014, p. 21).
Una tappa del percorso che approda nella rivendicazione dei diritti è costituita dalla presa di coscienza dell’essere umano che per entrambi passa attraverso l’istruzione e la cultura. Freire individua nell’educazione la pratica della libertà, e Manzi scrive più volte che solo attraverso l’appropriazione individuale prima e collettiva poi, è possibile rivendicare i propri diritti e quindi iniziare la lotta per la liberazione dalle dittature, dal dominio delle multinazionali, dalla prepotenza dell’alcalde, dei “faraoni” per dirla con padre David Maria Turoldo e da ogni forma di colonialismo.
Liberazione è il concetto economico, sociale e politico che si afferma a partire dalla fine degli anni Sessanta e soppianta i fallimentari modelli riformatori di sviluppo (il cosiddetto desarrollismo) del decennio precedente criticamente etichettato come la “década perdida”. Fino a quel momento lo sviluppo significava imitare i processi seguiti dalle società più sviluppate. L’ideale imitato era la “società industrializzata” ed in quest’ottica i paesi sottosviluppati erano quindi concepiti come paesi che vivevano in uno “stadio precedente” rispetto a quello dei paesi industrializzati. L’indice di disuguaglianza culturale tra paesi industrializzati e sottosviluppati risultava peggiore rispetto a quello economico. Per Freire ottenere la liberazione del continente significa qualcosa di più che superare la dipendenza economica, sociale e politica, «significa anche accorgersi che l’umanità è in cammino verso una società in cui l’uomo sarà libero da ogni servitù e sarà responsabile del suo destino» (Bimbi 1972, p. 58).
In diversi passaggi emerge con chiarezza questo punto centrale delle riflessioni del maestro Manzi.
Alle domande dei suoi giovanissimi alunni romani, il maestro mai avrebbe risposto: “questo è così e basta”. Ma al contrario suggerisce che occorre farli «parlare, ragionare sulle cose». Il Manzi sudamericano si sofferma più volte su questo aspetto che rappresenta uno degli elementi caratterizzanti le sue opere. È così ne La luna nelle baracche quando sottolinea che la legge (ad esclusiva tutela dei signori) prevede che i campesinos, per iscriversi al sindacato, avrebbero dovuto sapere leggere e scrivere. Quindi l’istruzione rappresenta un pericolo, il puntello rivoluzionario, l’arma di affermazione dei propri diritti e di emancipazione dal ricatto del padrone o delle multinazionali che depredano le materie prime. Ne E venne il sabato è don Julio che sfida il potere con l’istruzione: «Così lei è il nuovo parroco. Sappiamo che è già molto attaccato ai suoi parrocchiani, tanto da aiutarli anche a imparare a leggere e a scrivere. Noi le daremo tutto l’aiuto possibile affinché i suoi parrocchiani possano star bene, ma non riteniamo che sia necessario che questi poverini imparino a leggere e a scrivere. Potrebbe essere pericoloso dare troppa istruzione» (Manzi 2014, p. 76).
Pedro, che invece incarna il coraggio della ribellione contro il potere e i suoi abusi, viene picchiato a sangue dagli sgherri di don José. Ma il suo sacrificio non è invano perché da quel momento «qualcuno afferrò il suo mozzicone di matita, prese un foglio e, al chiaro della luna, prese a scrivere» (Manzi 1974, p. 148).
Dalla penna alla pratica. La missione educativa di Manzi in quegli anni prosegue incessantemente. Nel 1969-1970 realizza per la Rai la trasmissione radiofonica giornaliera per i giovani “Il mondo è la mia patria” (di cui è autore e presentatore), e poi a seguire “Programmi per l’estero” (incontri giornalieri per l’insegnamento della lingua italiana), “Finalmente anche noi” (per la sperimentazione dell’uso del mezzo radiofonico da parte dei giovanissimi), “Educare a pensare” (per il rinnovamento totale della scuola dell’obbligo), “Fare e disfare” (per il rinnovamento della scuola dell’infanzia), “Il gioco come sviluppo dell’intelligenza”, “Impariamo insieme. L’italiano per gli extracomunitari”. Unico e non più ripetuto tentativo della televisione pubblica. Ancora una volta il suo sguardo al futuro aveva indicato una strada da percorrere. Nel 1970 per l’editore Ave di Roma pubblica Appunti per rapidi disegni alla lavagnaIl pianeta chiamato terraLa societàL’uomo contro la fame e l’anno seguente realizza sempre per la Rai “Impariamo ad imparare”, come sollecitare il bambino a costruire il proprio sapere.
Nel 1987 Manzi torna in Sudamerica per tenere un corso di formazione per i docenti universitari che avrebbero dovuto elaborare il primo “Piano Nazionale di Alfabetizzazione” dell’incipiente democrazia argentina post-dittatura, supportato dall’Unesco, che il governo del presidente Raúl Alfonsín voleva realizzare sul modello di Non è mai troppo tardi. Nel dossier Reflexiones Críticas en torno del Quinquenio de la Alfabetización de las Américas redatto dalla Commissione nazionale di alfabetizzazione funzionale ed educazione permanente si legge che per diffondere capillarmente nel vasto territorio argentino il piano di educazione anche attraverso i mezzi di comunicazione, quali radio e televisione, «è giunto nel nostro paese il Professore Alberto Manzi, l’autore del grande programma italiano “Nunca es demasiado tarde”, che ci ha insegnato tecniche idonee per adeguare questa metodologia». Nel 1989 l’Argentina, grazie anche al maestro italiano, riceve il riconoscimento Onu e un premio internazionale per il miglior programma di alfabetizzazione adottato in tutto il Sudamerica.
Quelle di Manzi sono state battaglie di civiltà per la piena affermazione dei diritti umani dei popoli oppressi: «Ogni altro sono io», scrive Manzi, e credo che questo sia il concetto che attribuisce maggiormente valore ai suoi scritti sudamericani.


Riferimenti bibliografici

Bimbi L. (1972) Religione, oppio o strumento di liberazione?, Arnoldo Mondadori Editore, Verona.
Canevaro A. (2014), Ogni altro sono io, prefazione a Manzi A., E venne il sabato, Baldini&Castoldi, Milano.
Centro Alberto Manzi (2014), Alberto Manzi. Viaggi sudamericani, Regione Emilia-Romagna, https://www.centroalbertomanzi.it/wp-content/uploads/2019/02/CentroAlbertoManzi-viaggi-sudamericani.pdf.
Farné R. (2009), un giorno, a Pitigliano... Alberto Manzi: la complessa identità di un maestro, in Genitoni F., Tuliozi E., Alberto Manzi. Storia di un maestro, Centro Alberto Manzi, Regione Emilia-Romagna.
Freire P. (2011), La pedagogia degli oppressi, Edizioni Gruppo Abele, Torino.
- (1973), L’educazione come pratica della libertà, Arnaldo Mondadori Editore, Milano.
Manzi A. (2014), E venne il sabato, Baldini&Castoldi, Milano.
- (1989), El loco, Le Monnier, Firenze.
- (1974), La luna nelle baracche, Salani, Firenze.
Manzi G. (2017), Il profumo della foresta, in Canevaro A., Manzi G. et al., Un maestro nella foresta. Alberto Manzi in America Latina, Edizioni Dehoniane Bologna, Bologna.
- (2014), Il tempo non basta mai. Alberto Manzi: una vita tante vite, add editore, Torino.
Mulas A. (2018), Linda Bimbi. Tanti piccoli fuochi inestinguibili. Scritti sull’America latina e i diritti dei popoli, Nova Delphi, Roma.
Roghi V. (2017), La lettera sovversiva. Da don Milani a De Mauro, il potere delle parole, Laterza, Bari-Roma.
Tv buona maestra. La lezione di Alberto Manzi, regia di Luigi Zaniolo, Dipartimento di Scienze dell’Educazione, Università degli Studi di Bologna, intervista pubblicata il 28 gennaio 2013, https://www.youtube.com/watch?v=gKQ7GbworSw&t=284s.



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