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Dalla geopolitica “materialista” a quella “immateriale”:
la geopolitica della pace

CARLO SIMON-BELLI
Articolo pubblicato nella sezione "Tra le righe"

La geopolitica classica (quella che va dai primi teorici, quali Rudolf Kjellen e Friedrich Ratzel, fino almeno a pensatori come Karl Haushofer) studia gli effetti della geografia - vale a dire degli elementi “fisici” e “materiali” - sulla politica, al punto che il geopolitico canadese Frédéric Lassere ha pensato di definirla “materialista”: «L’approccio della geopolitica materialista riposa sul postulato della preponderanza dell'influenza dell'ambiente naturale [...] sulla determinazione delle relazioni tra gli Stati e sulla potenza di ciascuno di loro, ed è per questo che la chiamo materialista. Seguendo il lavoro di Friedrich Ratzel, è lo Stato [...] ad essere concepito come oggetto di studio da parte di questa scuola di pensiero: l’obiettivo della geopolitica sarebbe quello di individuare le leggi generali della “strategia mondiale”, obiettivo raggiungibile in quanto sarebbe possibile individuare delle costanti storiche e delle leggi generali che determinano la distribuzione della potenza degli Stati, determinata dall’influenza degli elementi materiali, fisici della Terra» (Lassere 2001, p. 316).
Come disciplina legata alle relazioni internazionali e agli studi strategici, la geopolitica possiede uno spiccato senso normativo e progettuale, e può essere definita come una rappresentazione delle relazioni internazionali in funzione di specifici interessi nazionali. Per i suoi forti legami con le dittature militari mitteleuropee del xx secolo (ne è stata l’ispiratrice strategica) ha una storia controversa, che nel secondo dopoguerra l’ha confinata in una sorta di limbo, tabuizzata per essere considerata troppo legata a interessi e velleità di espansionismo militare.
In effetti, essa teorizzava l’uso della conoscenza geografica per favorire gli obiettivi e gli interessi degli Stati nazionali, studiando le relazioni tra la geografia fisica, la geografia umana e l’agire politico. Alain de Benoist (2007, p. 235), dal canto suo, osserva che: «la geopolitica studia l’influenza della geografia sulla politica e sulla storia, cioè le relazioni tra lo spazio e la potenza».
Nonostante il bando che essa ha subito, essa continua a presentarsi come una prospettiva interpretativa efficace, anche perché tiene conto di un fattore condizionante, quello geografico, tra i più stabili; in effetti, la geografia incide sul nostro modo di vedere e percepire il territorio e condiziona il nostro modo di fruirlo e di difenderlo. Tuttavia, bisogna anche riconoscere che il dato spaziale, come quello temporale (entrambi elementi costitutivi della nostra percezione del territorio geografico), sono condizionati culturalmente: il nemico o l’alleato possono essere percepiti vicini o lontani in dipendenza della nostra visione delle cose del mondo.
La cartografia è un buon esempio di come una scienza (che in linea di principio dovrebbe essere neutrale) possa essere condizionata e, al contempo, condizionante sul piano culturale. Così, ad una osservazione più attenta, la geopolitica si rivela quale uno dei casi esemplari di come il mondo delle idee, la visione culturale e la conoscenza condizionata (tutti elementi “immateriali”, i cosiddetti intangibles, un tema per il quale si rinvia a Simons 2012, e a Basu e Waymire 2008) possono incidere in maniera sostanziale sulla realtà oggettiva: è dunque vero che la geografia condiziona individui e collettività, ma tale condizionamento è “filtrato” dal modo in cui detti soggetti percepiscono la realtà geografica; e a ciò bisogna quindi aggiungere anche il dato dello sviluppo tecnologico, che consente di percepire/fruire il dato geografico in maniera mutevole e talvolta inaspettata.
Ed è qui che possono intervenire delle considerazioni capaci di farci immaginare una vera e propria “geopolitica della pace”, non senza aver prima precisato che tale termine si discosta in maniera sostanziale dal concetto espresso nel titolo di una delle più importanti opere di Nicholas Spykman (The Geography of the Peace, pubblicata nel 1944), il quale è, invece, un tipico esponente della geopolitica “materialista”. Il senso che attribuiamo a questa nostra espressione è più in linea con quanto sostenuto da O’Loughlin e Heske (cfr. 1991, pp. 52-53), quando definiscono la “geopolitica della pace” come un tentativo della scienza politica di studiare i processi politici ed economici globali e regionali al fine di gettare le basi per la risoluzione dei conflitti e la sicurezza comune, mettendo in evidenza come la “geopolitica della pace”, così definita, possa essere attuata persino secondo i principi del realismo politico (cfr. anche Hoffmann 2012, p. 42; Feiner 2013, p. 167), la quale osserva esplicitamente che stiamo assistendo ad un passaggio da una “geopolitica dei conflitti” ad una “geopolitica della pace”). Tuttavia, come si potrà apprezzare nel prosieguo di questo articolo, intendiamo riferirci a qualcosa di ancor più particolare (in proposito cfr. Aa.Vv. 2011; Dalby 2011; Loyd 2012; Megoran 2010 e 2011; Shiva 1998), un fenomeno che può semmai essere compreso alla luce del paradigma costruttivista sociale.
Stiamo infatti pensando ad una geopolitica che, tenendo conto della rivoluzione tecnologica globalizzante che stiamo attraversando, e valutando di conseguenza l’enorme intreccio di rapporti che proprio grazie a questa rivoluzione si stanno instaurando - tra organizzazioni non governative, istituzioni governative, realtà locali e regionali, Stati nazionali -, decide di studiare e teorizzare lo sviluppo di veri e propri network, che coprono ormai vaste aree del pianeta e che sono dedicati, in maniera più o meno esplicita, ai processi di costruzione della pace e allo sviluppo di strategie in linea con tali obiettivi. Vedremo come i nodi di questo network sono spesso, ma non sempre, fisicamente individuabili, ma le connessioni - che costituiscono il “dato” vero e proprio di questa diversa prospettiva geopolitica - sono di fatto “immateriali”.
L’accostare geopolitica e fattori intangibili non è certo una novità, e persino il generale Carlo Jean - certamente non figlio di una visione costruttivista sociale - attribuiva una rilevanza sostanziale agli elementi che possiamo considerare “immateriali” nella definizione del concetto di geopolitica: «La geopolitica è una particolare analisi della politica (specialmente la politica estera degli Stati nazionali, ma non solo quella), condotta in riferimento ai condizionamenti su di essa esercitati dai fattori geografici: intendendo come tali non solo e non tanto quelli propriamente fisici, come la morfologia dello spazio o il clima, quanto l’insieme delle relazioni di interdipendenza esistenti fra le entità politiche territorialmente definite e le loro componenti» (Jean 2003, p. 3).
Lo spazio geo-politico resta, in ogni caso, il riferimento fondante di questa visione ma, nella sua evoluzione, è passato da spazio orizzontale, fisico, territoriale a spazio multidimensionale verticale, fino a divenire spazio virtuale: spazi culturali, economici, finanziari, cibernetici (cfr. Douzet 2014), massmediatici, creati dai nuovi fattori di potenza (geo-cultura, geo-economia, geo-finanza, geo-informazione, ...). Tuttavia, il dato ricorrente è sempre lo stesso: la visione del mondo, venendo elaborata dal sistema geopolitico, diviene un dato di fatto, una realtà oggettiva che, come in un circolo vizioso (o virtuoso, come nel caso della “geopolitica della pace”…) genera nuove e diverse realtà che, a loro volta, impattano sulla nostra visione del mondo, consentendoci di ipotizzare la capacità del dato culturale di essere la “causa prima” - ovvero, ad un tempo, il fondamento e il fattore determinante e trasformativo - della struttura sociale internazionale.
Mentre la geopolitica classica analizzava dinamiche relazionali assai fortemente imbrigliate dal dato geografico fisico, materiale (e l’elemento percettivo di individui e collettività poteva poco in termini di elasticità dell’incidenza della geografia sulla politica), nella geopolitica della postmodernità - dove lo scetticismo tipico di questa corrente di pensiero, mettendo in discussione le visioni razionaliste, lascia invece spazio proprio al ruolo delle dinamiche contingenti e soggettive, quelle socialmente condizionate dal mondo dei valori e dai sistemi di conoscenza - il dato geografico, pur essendo sempre presente, può essere costantemente reinterpretato, anche nella misura in cui lo consente l’evoluzione tecnologica, e può essere indirizzato in un senso piuttosto che in un altro: è evidente come attori politici “culturalmente” inclini al bellicismo possano esasperare una visione geopolitica improntata a un realismo pessimista, in cui, di conseguenza, prendono il sopravvento paura e aggressività; viceversa, la diffusione, anche a livello delle leadership politiche, di una mentalità e di una cultura di pace - incarnandosi nel tessuto di relazioni sociali ispirate ai principi della nonviolenza, della tolleranza, dell’altruismo, dell’accoglienza - può determinare effetti realmente misurabili in termini di mutamento delle dinamiche di potere nell’ambito della politica internazionale. Un esempio per tutti: l’importanza che ormai ha assunto il tema dei Diritti umani, un concetto che soltanto poche decine di anni fa era considerato alla stregua di un esercizio idealista e utopico, mentre costituisce oggi invece un fattore di soft power tra i più rilevanti.
In definitiva, come vedremo, la geopolitica della pace studia la formazione e la diffusione di queste reti virtuose, ne dimostra la crescente oggettiva rilevanza sul piano delle relazioni internazionali, e sviluppa ipotesi confortanti per quanti credono nella possibilità di costruire forme di politica internazionale basate sui principi fondanti della pace e dell’armonia sociale.
Per far meglio risaltare la natura “pacifista” di un possibile nuovo approccio alla geopolitica, è utile ricordare l’uso strategico-militare di questa disciplina nel passato, con le impressionanti conseguenze che le sue dottrine, frutto del “mondo delle idee”, hanno avuto nella determinazione della storia moderna e contemporanea, un chiaro esempio di quanto delle teorie, se ben congeniate, possano essere capaci di influenzare la realtà in maniera sostanziale. Ma proprio questa evidente dimostrazione che le teorie e il mondo dei valori ad essa agganciate possono condizionare una realtà come quella internazionale, ci può suggerire che una teoria, costruita su basi valoriali diverse, diametralmente opposte, può creare realtà innovative rispetto a quelle conosciute sino ad ora.
In sostanza, si cercherà di mostrare come sia possibile immaginare una geopolitica non fondata sull’interesse nazionalistico, egoistico e miope, e che sia piuttosto possibile proporre una geopolitica della nonviolenza, della pace, delle alleanze all’insegna di rapporti armonici, cooperativi, virtuosi, capaci di contribuire alla formazione di una società internazionale fondata sull’idea di fratellanza, di condivisione, di mutua collaborazione: si tratterà allora di una visione spiritualista della geopolitica, basata su un paradigma secondo il quale vi sono leggi di ordine superiore - che suggeriscono di agire secondo i principi della nonviolenza, della tolleranza, dell’inclusione e dell’altruismo - cui gli esseri umani devono conformarsi al fine di poter introdurre l’ordine e l’armonia nel tessuto sociale.
Ma prima di riflettere su una possibile precisazione del concetto di geopolitica, per adattarla alla nuova realtà internazionale e al fine di conseguire una nuova visione dei rapporti geopolitici, vogliamo ricordare che la geopolitica deve comunque continuare ad essere considerata come eminentemente “politica”, nel senso che studia le dinamiche “politiche”, quindi di potere, diffuse nel contesto spazio-temporale e condizionate dalla variabile geografica; tutte le altre categorie (geo-economia, geo-strategia) sono ancillari.
In secondo luogo, è necessario riconoscere che la geopolitica, nel corso della storia, ha attraversato diverse “fasi” che la qualificano in diversi modi, a seconda di quella che (in un dato momento storico) è la qualità e la caratteristica dominante del suo elemento costitutivo, vale a dire del potere, e di come questo potere è concepito, configurato e distribuito a livello della dimensione geografica spazio-temporale.
Possiamo quindi distinguere almeno 5 diverse tipologie di geopolitica, in base alla logica o prospettiva prevalente, e all’uso tipico del potere:
1. Geopolitica delle civiltà-impero (fino a prima del xv-xvi secolo):
- è la geopolitica delle civiltà-impero pre-westphaliane, fondate su una logica del potere imperialista, volta a consolidare, difendere e diffondere i valori fondanti di una determinata civiltà;
- queste civiltà, a differenza del modello a placche di Huntington, si “sfiorano” appena;
- l’impiego del potere è per la salvaguardia di una propria civiltà, di una propria cultura, concepite come uniche ed esclusive.

2. Geopolitica clausewitziana (si manifesta in prossimità dell’inizio dell’era westphaliana, quindi dal xvii secolo, e dura fino al xix secolo):
- è fondata sul nascente potere Stato-centrico delle emergenti realtà nazionali e sulla relativa logica/prospettiva della politica di potenza, finalizzata alla difesa dell’interesse nazionale;
- la geopolitica basata soprattutto su una logica di potenza, finalizzata alla tutela e alla salvaguardia dell’interesse nazionale dove, solo in subordine e nella fase più avanzata, inizia a farsi strada anche la logica tipica dello Scontro di civiltà huntingtoniano (cfr. Huntington 2000), che si manifesta con l’insorgenza del colonialismo, dove appunto interesse nazionale e imperialismo coloniale si confondono;
- teorizza l’impiego del potere (militare) per la difesa dell’interesse nazionale («la guerra come prosecuzione della politica con altri mezzi»).

3. Geopolitica tradizionale (tra la fine del xix secolo e l’inizio del xx secolo):
- la dimensione politica dei maggiori Stati-nazione subisce una consistente deriva ideologica, che si definisce in maniera chiara con il culmine dell’esperienza colonialista e con le prime guerre nazional-imperialiste (quindi almeno fino alla Prima guerra mondiale, ma in parte anche durante la prima fase della Seconda guerra mondiale), fondate sulla logica dello scontro ideologico, ma con lo Stato nazionale come protagonista;
- l’impiego del potere è ancora volto a tutelare l’interesse nazionale, ma presenta già frequenti derive imperialiste-egemoniche, dove vengono progettate strategie espansionistiche e di potenza che possono giungere a travalicare, finanche a minacciarli, i reali obiettivi di sicurezza di uno Stato, violando i principi basilari del realismo politico.

4. Geopolitica bipolare ideologizzata (dagli inizi del xx secolo):
- è la geopolitica del confronto ideologico (tra capitalismo, nazionalsocialismo e comunismo), e prende il sopravvento durante la Seconda guerra mondiale, durando fino alla fine della Guerra fredda. È caratterizzata dal dominio della logica dello scontro ideologico, ma fondato sul confronto di blocchi/alleanze di Stati;
- vede prima il confronto tra nazionalsocialismo, capitalismo e comunismo e, successivamente, il confronto bipolare tra capitalismo e comunismo;
- si sviluppa compiutamente durante il periodo del bipolarismo, subendo le leggi e le regole di questo sistema di spartizione del potere internazionale;
- ha una sensibilità crescente allo sviluppo tecnologico: la tecnologia dimostra tutta la sua capacità di rivoluzionare lo spazio geopolitico;
- la determinante culturale (lo “scontro di civiltà” huntingtoniano) viene quasi completamente offuscata dalla dimensione ideologica;
- l’impiego del potere è per la tutela dichiarata di interessi egemonici e/o imperialisti (cfr. Agnew e Corbridge 1995).

5. Geopolitica contemporanea (dalla fine xx secolo):
- si sviluppa dalla fine della Guerra fredda (1989) e appare tuttora attiva;
- è fondata su una logica di confronto tra civiltà (geo-cultura, con dominanza della visione huntingtoniana), che impiegano, a scopo “tattico”, anche lo strumento economico-finanziario (sottocategoria della geo-economia) e strategico militare (sottocategoria della geo-strategia);
- gli Stati nazionali sono soggetti a questa logica e, per ciascuna delle diverse civiltà in competizione, esiste uno Stato-guida che coordina il confronto e lo scontro, nell’interesse della propria cultura di riferimento;
- durante questa fase lo sviluppo tecnologico (soprattutto nel campo delle telecomunicazioni) determina una rivoluzione della dimensione spazio-temporale della geografia (gli spazi si dilatano -con possibilità di condizionare luoghi e attori in zone anche lontanissime dal centro di potere dominante - e si restringono - è l’avvento della società internazionale globale, dove tutti sono connessi in tempo reale e possono essere potenziali bersagli di qualsiasi centro di potere, grande o piccolo, strutturato e destrutturato); si rivoluziona la regola del dominio dello spazio in rapporto ai tempi di azione-reazione agli ordini impartiti dal centro;
- gli Stati leader impiegano il loro potere per assicurare, in alcuni casi, il dominio egemonico della propria civiltà sulle altre - come nel caso della civiltà liberale occidentale che, dietro all’impegno di esportare la democrazia e diffondere e tutelare i Diritti umani nasconde una volontà di dominio economico e finanziario globale (cfr. Anghie 2005, pp. 249 e ss.) -; in altri, meno interessati ad esportare il proprio modello di civiltà, il potere viene utilizzato per garantire la non ingerenza di civiltà concorrenti in quelli che vengono considerati come i propri territori di pertinenza - come nel caso della Cina, dove si può discutere se più che di espansionismo si debba parlare di irredentismo (cfr. Roy 2019; Dinucci 2019a e 2019b), o nel caso della Russia di Putin, interessata a sviluppare una nuova visione politica che ne sostenga strategie resilienti, piuttosto che strategie espansioniste volte a garantire un domino egemonico globale (cfr. Dugin 2020).

Di “geopolitica della pace”, da considerare come nuova categoria, che si contrappone diametralmente a quelle precedenti, possiamo parlare a partire già dal xx secolo, ma essa risulta empiricamente accertabile solo dagli inizi del xxi secolo, quando in tutti gli ambiti sociali (sia nei livelli istituzionali, sia in quelli individuali e intersoggettivi) inizia a diffondersi capillarmente la consapevolezza che sia necessario adottare un nuovo paradigma, una nuova prospettiva, prima esistenziale e culturale, poi anche politica:
- le sue determinanti iniziano timidamente a configurarsi nel primo dopoguerra e, maggiormente, nel secondo dopoguerra, come effetto delle attività delle prime Istituzioni internazionali globali (Società delle Nazioni, Onu, Agenzie Onu, Ong transnazionali, …), che promuovono nuove idee e concetti (diritti umani in primis), portatori di una diversa Weltanschauung; si rafforzano all’inizio del xxi secolo, ma subiscono una battuta d’arresto dopo i fatti del 9/11 e la riaffermazione degli interessi e delle strategie degli Stati-nazione nella lotta al terrorismo;
- costituisce una vera e propria “rivoluzione copernicana” in ambito politico internazionale: nell’attuale contesto globalizzato (dove le strette interconnessioni determinano una crescente fragilità del sistema), di fronte al rischio di sopravvivenza delle società umane, non più in grado di sostenere un così elevato e diffuso uso della violenza, diviene inderogabile la necessità di abbandonare gradualmente la prospettiva di una politica piegata alla logica della violenza, in favore di una più consona all’agire politico, fondata sulla logica della nonviolenza, della condivisione, dell’integrazione;
- viene definita e, al contempo, identificata, dalla diffusione di reti di comunicazione, reti di sicurezza, reti di cooperazione e di solidarietà, reti di alleanze, materiali e immateriali, facilitate dallo sviluppo delle tecnologie;
- l’impego del potere viene concepito in via esclusiva per finalità costruttive (anche nel senso concepito da Hannah Arendt), volte ad assicurare la diffusione democratica e condivisa dei Diritti umani, del diritto al benessere, alla salute, allo sviluppo sociale armonico, del principio di fratellanza (cfr. Fuoco 2019), per tutti i cittadini del mondo. Di conseguenza vengono ridimensionate le prospettive nazionaliste esclusiviste, come anche la visione Stato-centrica, mentre cresce il numero dei paesi in cui - soprattutto tra le nuove generazioni, i cosiddetti “millennials” (cfr. Pew Research Center 2011; Vavreck 2014) - si assiste ad una certa disaffezione verso sentimenti come il patriottismo (considerato fonte di separazione e conflitti: cfr. Tolstoj 2019; Nussbaum 1996), e ciò in particolare se per patriottismo si intende la disponibilità al sacrificio personale (cfr. Stilz 2003). Così, la geopolitica della pace rappresenta e descrive il modo in cui si diffonde, si articola e si organizza la nuova volontà - individuale e collettiva - di contribuire alla costruzione di un’unica civiltà umana, fondata su principi universalistici, non più costituita da tante civiltà in conflitto, bensì da civiltà e nazioni che interagiscono e collaborano pacificamente tra di loro, in spirito di cooperazione fraterna.

La “geopolitica della pace” può dunque essere definita come una “geopolitica delle reti”, reti virtuose, di solidarietà, di condivisione, di nonviolenza, di altruismo, di difesa dei diritti umani, di difesa del contesto eco-ambientale, di difesa dei lavoratori, della salute.
Tra i primi ambiti della società internazionale ad essere stati interessati alla formazione di reti immateriali, capaci di produrre risultati sostanziali, troviamo proprio il contesto ambientale: ad esempio, abbiamo l’interessante caso del processo di formulazione della Carta della Terra (www.cartadellaterra.it), concepita già nel 1987, quando la Commissione Mondiale delle Nazioni Unite su Sviluppo e Ambiente raccomandò la stesura di una Carta che guidasse la transizione verso lo sviluppo sostenibile. La Carta della Terra costituisce un buon esempio di quello che può essere il contributo - in senso costruttivista - delle reti al tema della pace, la quale, per essere stabilmente edificata nel tessuto sociale, richiede uno sforzo e un impegno di lunga durata, che deve essere innanzitutto di carattere culturale; si tratta di un documento interessante non solo dal punto di vista dei contenuti, ma anche per il modo in cui è stato prodotto, essendo il frutto di una collaborazione tra centinaia di organizzazioni, governative e non governative, singoli cittadini, istituzioni nazionali e internazionali che, per un lasso di tempo piuttosto ampio (almeno sei anni, se si considera solo il periodo di consultazione a livello mondiale, tra il 1994 e il 2000), si sono dati il compito di redigere un documento che rappresenti alcuni dei temi fondamentali dei processi di costruzione della pace i quali, per definizione, interessano trasversalmente, verticalmente e orizzontalmente, le dinamiche sociali, civili, economiche, eco-ambientali, politiche e giuridiche delle realtà locali, regionali, nazionali e internazionali diffuse sul nostro pianeta.
Reti simili si stanno lentamente diffondendo su tutto il pianeta, nonostante il tentativo delle vecchie logiche di delegittimarle, facendo credere che siano pericolose per la sopravvivenza delle varie forme - ormai desuete - di sicurezza esclusiva e per le logiche fondate sull’interesse nazionale, logiche che giocoforza dovranno essere sostituite da una visione transnazionale o, addirittura, sovranazionale.
Non a caso, è ancora in ambito ambientalistico che si formano esperienze come quella dei Fridays for Future e del vasto movimento di sensibilizzazione eco-ambientale ispirato da Greta Thunberg, che costituiscono un esempio eclatante di quanto le reti della geopolitica della pace possano essere ben individuabili, oltre che piuttosto efficaci sul piano sociale e culturale, e di come tali Reti siano capaci di modificare, in maniera assai più incisiva di qualsiasi altro approccio, comportamenti sociali individuali e di massa, incidendo prima sulle forme e sulle modalità della mobilitazione sociale e poi, gradualmente, anche cambiando le condizioni socioculturali.
In questo senso, von Wehrden ha recentemente coordinato un gruppo di studio volto ad analizzare il fenomeno dei Friday for Future nella prospettiva della “scienza della sostenibilità”, un approccio che «riunisce varie forme di conoscenza, combinando la conoscenza sistemica e normativa con la conoscenza concettuale ed essenzialmente trasformativa della filosofia […] per costruire un ponte tra il mondo così com’è e il mondo come dovrebbe essere, e dare un contributo alla questione della responsabilità e alla richiesta di trasformazione verso un futuro giusto» (von Wehrden et al. 2019, p. 309). Vi si sottolinea come, sotto molti aspetti, questi movimenti, creando reti e generando interconnessioni su temi di interesse trasversalmente condivisi, guidino vere e proprie “rivoluzioni morali” - nel senso inteso dal filosofo ghanese Anthony Appiah (2011) - a livello globale.
Paura, diffidenza, tendenze isolazionistiche e xenofobe rappresentano forse l’ultimo ostacolo alla diffusione della logica della Pace e alla sua propagazione nel contesto geopolitico internazionale, in quanto tendono a far richiudere in se stesse le comunità e i gruppi sociali: la forza delle Reti della Pace si misurerà allora nella loro capacità di reagire alle resistenze poste dal perdurare di queste attitudini emozionali negative.


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