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I luoghi dello straniero: le riflessioni sull’alterità
di Julia Kristeva e Françoise Dastur

SERENA MEATTINI
Articolo pubblicato nella sezione Tra le righe

Quello dello straniero è sicuramente un tema di grande attualità che, a più riprese, ha interrogato il pensiero contemporaneo a partire da differenti punti di vista. Nonostante la ricchezza semantica della nozione in oggetto, la riflessione diviene troppo spesso appannaggio del solo ambito politico, con il rischio che tale riconduzione si trasformi in una riduzione del concetto di straniero alle problematiche, seppure concrete e urgenti, che lo riguardano. Ne costituisce un esempio l’identificazione, legittima ma parziale, dello straniero con l’immigrato che caratterizza la riflessione attuale. In realtà, questo è solo un aspetto del più vasto tema, la cui considerazione può trarre giovamento da una lettura maggiormente stratificata, capace di ampliare il quadro di riferimento e gettare nuova luce sull’argomento. Un tentativo di questo tipo è rintracciabile all’interno della decennale riflessione svolta in merito da Julia Kristeva. Le tesi che l’autrice ha esposto nelle pagine di Stranieri a noi stessi offrono una prospettiva inedita sulla questione e, dopo più di trent’anni, continuano a rivelarsi di grande attualità e interesse, tanto che numerosi autori hanno fatto riferimento a quel volume, in termini più o meno critici. Tra le considerazioni più recenti vi sono quelle presentate da Françoise Dastur, sebbene nello spazio di un semplice contributo. I rilievi critici della filosofa francese alle tesi presentate da Kristeva nel 1988 offrono, così, l’occasione per gettare uno sguardo sulle differenti risposte che le due autrici propongono all’identico quesito: chi è lo straniero?
Due riflessioni che, nonostante le divergenze, mettono in luce la densità di implicazioni soggiacenti a tale interrogativo, che la sola considerazione politica non consente di portare alla luce. Infatti, qualsiasi tentativo di rispondere a una simile domanda poggia necessariamente su una determinata, quanto implicita e spesso non dichiarata, concezione dell’identità, dell’alterità e della relazione. Se i primi due termini sono pensati in maniera autonoma e indipendente, il loro rapporto sarà segnato da un’estraneità assoluta. In questa direzione sembrano orientarsi tanto la lunga riflessione di Kristeva quanto le rapide considerazioni di Dastur.
Provenienti da una prospettiva psicoanalitica, l’una, e fenomenologica, l’altra, le due autrici hanno il merito di considerare il tema dello straniero aprendo alla più vasta questione dell’alterità e dei rapporti che questa intrattiene con l’identità. Proponendo un approccio che consente di risalire a monte dell’innegabile portato politico e sociale del tema, verso quello sfondo che lo precede e, per alcuni versi, lo influenza.
Un retroterra che tanto Kristeva quanto Dastur configurano a partire da quella tradizione di pensiero contemporaneo che ha riconosciuto l’alterità come un elemento che appartiene e determina la stessa identità, uscendo da una logica dicotomica. In quest’ottica, la connotazione dello straniero si rivela di grande interesse e consente di ripensare l’identità a partire dall’estraneità, mediante i differenti luoghi nei quali questa si rivela.


1. L’inquietante estraneità: l’altro come inconscio

È a partire dalla condizione di straniera, come l’aveva definita Roland Barthes negli anni Settanta riferendosi alle origini bulgare dell’autrice, che Julia Kristeva si interroga sulla nozione di estraneità affidando una prima significativa risposta alle pagine di Stranieri a noi stessi, edito nel 1988 (cfr. Barthes 1970). Fin dalla sua comparsa il volume ha goduto di grande considerazione ed è stato tradotto in numerose lingue. Il solo contesto italiano ha visto di recente pubblicata una nuova edizione, corredata da un’inedita Introduzione dell’autrice, che affianca la prima traduzione del 1990 (cfr. Kristeva 2014).
La tesi è nota e accennata fin dal titolo: ricorrendo alla nozione freudiana di inconscio, l’estraneità viene indicata come una condizione interiore che ciascun individuo sperimenta e che, in tal modo, lo rende straniero a se stesso prima ancora che a colui che gli sta di fronte. Come viene chiarito fin dalle prime battute: «lo straniero ci abita: è la faccia nascosta della nostra identità, lo spazio che rovina la nostra dimora, il tempo in cui sprofondano l’intesa e la simpatia. Riconoscendolo in noi, ci risparmiamo di detestarlo in lui. Sintomo che rende appunto il “noi” problematico, forse impossibile, lo straniero comincia quando sorge la coscienza della mia differenza e finisce quando ci riconosciamo tutti stranieri, ribelli ai legami e alle comunità» (ivi, p. 5).
La nozione di straniero è, in tal modo, interpretata a partire da una prospettiva psicoanalitica per poi essere ricondotta sul piano politico e culturale. In tal modo, l’autrice non nega le implicazioni concrete e sociali che il tema inevitabilmente richiama, ma tenta piuttosto di allargare quell’orizzonte fornendo una lettura che sia capace di cogliere in profondità la sfida che lo straniero rappresenta. Una sfida che si colloca primariamente sul piano relazionale e psicologico, gettando così luce sulla «difficoltà di vivere come altri e con gli altri» (ivi, p. 109).
Allieva di Jacques Lacan, amplia il quadro del maestro con l’intento di porre la psicoanalisi sul banco di prova caratterizzato dalle urgenze sociali e politiche del contesto attuale.
Per l’autrice, si tratta di un’operazione necessaria per guardare in termini rinnovati l’immagine, derivante dal contesto politico e giuridico, dello straniero come cicatrice tra l’uomo e il cittadino, segno di quel paradosso per il quale, «Se la regolamentazione politica o la legislazione in generale definiscono il nostro modo di affermare, di modificare ed eventualmente di migliorare lo statuto degli stranieri, esse formano anche un circolo vizioso, perché è appunto rispetto ad esse che esistono stranieri» (ivi, pp. 102-103).
È al termine della ricostruzione dell’evoluzione storica cui la concezione dello straniero è stata sottoposta che la trattazione presenta la nozione freudiana di inquietante estraneità, declinandola in termini paradigmatici. Infatti, l’inconscio rappresenta per Kristeva non solamente il punto di rottura con un’immagine monadica e monolitica dell’identità, ma anche, e soprattutto, il modello che consente di ripensare la nozione di straniero mediante una profonda riconfigurazione di quelle di identità e di alterità. Infatti, «Con la nozione freudiana di inconscio, l’involuzione dello strano nel sistema psichico perde il suo aspetto patologico e integra in seno all’unità presunta degli uomini un’alterità a un tempo biologica e simbolica, che diviene parte integrante del medesimo. Lo straniero ormai non è una razza né una nazione. […] Inquietante, l’estraneità è in noi: siamo i nostri stranieri, gli stranieri di noi stessi – siamo divisi. […] La psicoanalisi si vive allora come un viaggio nell’estraneità dell’altro e di se stessi, verso un’etica del rispetto per l’inconciliabile. Come si potrebbe sopportare uno straniero se non ci si sapesse stranieri a noi stessi?» (ivi, pp. 192-193).
Partendo dalle riflessioni freudiane sul nesso che lega l’aggettivo heimlich al suo antonimo unheimlich fino alle considerazioni più mature del medico austriaco, Kristeva costruisce un chiaro parallelo tra la dimensione inconscia, nei suoi complessi meccanismi di rimozione, e la percezione dello straniero che si presenta all’esterno. In tal senso, l’estraneità costituisce l’identità stessa. L’altro che abita l’io lo rende necessariamente scisso, diviso tra familiarità ed estraneità. Una dinamica psichica che, secondo l’autrice, consente di fare nuova luce non solamente sulla nozione di soggetto, ma anche e soprattutto sulla modalità con la quale questo si rapporta all’alterità, in particolare declinata in termini di estraneità: «Nel rifiuto affascinato che suscita in noi lo straniero, c’è una parte di inquietante estraneità nel senso della depersonalizzazione che Freud ha scoperto e che si ricollega ai nostri desideri e alle nostre paure infantili dell’altro - l’altro della morte, l’altro della donna, l’altro della pulsione incontrollabile. Lo straniero è dentro di noi. E quando fuggiamo o combattiamo lo straniero, lottiamo contro il nostro inconscio – questo “improprio” del nostro possibile “proprio”. Delicatamente, analiticamente, Freud non parla degli stranieri: egli ci insegna a scoprire l’estraneità dentro di noi. E questo è forse il solo modo di non perseguitarla fuori» (ivi, p. 203).
Il padre della psicoanalisi non opera la cucitura tra l’alterità inconscia e quella che si presenta in termini culturali. Aver trasposto la questione dello straniero, comunemente inteso, sul piano psicoanalitico è il punto di originalità della tesi di Kristeva, la quale persuasa dell’«impatto politico ed etico dell’apertura freudiana» (ivi, p. 179), ne fa il punto di ancoraggio essenziale per la trattazione dell’estraneità nelle sue possibili accezioni: culturale e politica, nel 1988, mistica negli scritti successivi. L’alterità è polisemica, tuttavia la chiave psicoanalitica consente all’autrice di collocarla nel cuore dell’identità, sottolineandone tanto il carattere necessario e ineliminabile quanto l’elemento comune a ciascun essere umano.
In una simile lettura lo straniero non è più tanto qualcuno che si distingue per una differente appartenenza culturale, ma colui verso il quale o dal quale si dipanano meccanismi inconsci che riguardano la stessa identità. L’impatto è ben più profondo, poiché richiama la paura, l’inquietudine dello straniero che ci abita, quell’alterità che è tanto estranea quanto familiare, eppure incontrollabile. In tal senso il timore che suscita lo straniero acquista una profondità nettamente superiore alle contingenze culturali e sociali, le eccede rendendole la semplice occasione di una consapevolezza altra, una sorta di specchio che, lacanianamente, funge da luogo di autopercezione dell’identità. Pertanto, la modalità di rapportarsi allo straniero deriverebbe dalla capacità di relazionarsi a quel grado più profondo e originario dell’estraneità, interpretando, in tal modo, i meccanismi politici e sociali a partire da condizioni psicologiche e individuali.
La tesi è senza dubbio affascinante. Kristeva ne approfondirà le implicazioni in scritti successivi. Tuttavia, soprattutto nella sua formulazione del 1988, presenta dei risvolti evidentemente problematici, di cui costituiscono un esempio alcune affermazioni poste in chiusura al volume. In particolare, attira l’attenzione l’astrazione cui giunge l’affermazione per la quale, «Riconoscendo la nostra inquietante estraneità non ne soffriremo e non godremo di un’altra esterna a noi. Lo strano è dentro di me, quindi siamo tutti degli stranieri. Se io sono straniero, non ci sono stranieri. […] L’etica della psicoanalisi implica una politica: essa approderebbe a un cosmopolitismo di tipo nuovo che, trasversale ai governi, alle economie e ai mercati, opererebbe per una umanità la cui solidarietà sarebbe fondata sulla coscienza del suo inconscio» (ivi, p. 204).
Si tratta di un giudizio tanto radicale quanto astratto, al quale sono stati rivolti numerosi rilievi critici e che, tuttavia, gli scritti successivi consentiranno di mettere maggiormente a fuoco.


2. L’esperienza cruciale dello straniero: l’altro come corporeità

Tra le critiche mosse alle tesi di Stranieri a noi stessi rientrano quelle che Françoise Dastur ha esposto nelle pagine di L’autre, l’étranger, l’ennemi (cfr. Dastur 2018). Riferendosi al passo appena richiamato, la filosofa francese sostiene come Kristeva compia «un’operazione piuttosto strana che consiste nel sopprimere l’estraneità mediante una generalizzazione che conduce all’abolizione di ogni differenza tra gli uomini» (ivi, p. 142, tr. mia). La critica sembra essere all’origine della lettura alternativa del concetto di estraneità, che Dastur espone nel contributo del 2018, seconda versione di un articolo apparso nel 2015 sotto il titolo di L’autre: étranger ou ennemi? e che molto deve alla prospettiva di Bernhard Waldenfels. Il fatto che numerosi elementi salienti della fenomenologia responsiva proposta da quest’ultimo trovino, più o meno dichiaratamente, largo spazio nelle pagine di L’autre, l’étranger, l’ennemi, non elimina l’originalità della riflessione condotta da Dastur e, al contrario, consente di leggere quel contributo quale sviluppo di una più ampia proposta filosofica, prossima a quella delineata dal filosofo tedesco (Cfr. Waldenfels 2008; 2011). L’originario punto di convergenza tra i due autori si identifica con l’attenzione che entrambi rivolgono al pensiero di Merleau-Ponty. Un dato rilevante poiché è proprio la corporeità come l’ha concepita quest’ultimo a costituire il luogo nel quale si colloca l’estraneità secondo la lettura di ambedue i filosofi.
Se le riflessioni sul tema proposte da Waldenfels sono piuttosto note e attraversano tutta la sua opera, diversamente Dastur sembra accostarsi alla questione partendo dall’interesse verso il più vasto tema dell’alterità, unitamente a quello della relazione. L’argomento costituisce lo sfondo dell’intero contributo e precede il tema in oggetto: «Prima di considerare la questione dei nostri rapporti con lo straniero, sono i nostri rapporti con gli altri che si tratta di porre» (Dastur 2018, p. 133, tr. mia). In questo contesto l’autrice accenna alle concezioni dell’alterità proposte da Sartre, Lévinas e Merleau-Ponty. Su questi stessi autori si era soffermata anni prima, nel quadro di una riflessione sul tema dell’incontro, nella quale la questione dello straniero iniziava ad affiorare unitamente ad alcune preziose indicazioni (cfr. Dastur 2013).
Quelle pagine sono attraversate da l’enigma dell’altro, tanto l’inferno sartriano quanto la responsabilità cui allude Lévinas non sembrano in grado di cogliere la complessità che emerge all’interno della dinamica relazionale. A entrambi viene riconosciuto il merito di avere intuito l’importanza di quest’ultima, ma mediante letture parziali che mantengono l’alterità in una condizione di distacco, all’interno di un incontro concepito come uno choc frontale dal quale viene preliminarmente esclusa la reciprocità.
«È quando mi volto verso l’altro per comunicare con lui che faccio esperienza della sua alterità. Ma questa esperienza non è necessariamente vissuta come un traumatismo: l’apparizione dell’altro non significa sempre che questi mi ruba il mondo, come pretende Sartre, o che mi strappa dal mio egoismo, come afferma Lévinas, ma è piuttosto per Merleau-Ponty un’esperienza felice, quella del riconoscimento di un altro che è simile a me» (ivi, p. 449, tr. mia).
Il punto di vista di Merleau-Ponty viene presentato da Dastur come il superamento delle limitazioni richiamate, cioè come una prospettiva che, con maggiore concretezza, concepisce l’uomo da subito inserito in un contesto segnato da molteplici relazioni, nel quale l’alterità risulta immediatamente implicata. È, in particolare, il tema della corporeità a costituire l’elemento che consente all’autrice di chiarire la complessità relazionale che l’individuo sperimenta tanto in rapporto a sé, nell’esperienza del corpo proprio, quanto nel confronto con gli altri. In tal modo, il dialogo intessuto con la corporeità abitata anticipa e determina quello caratterizzante la più ampia dimensione relazionale: «Per incontrare l’altro, bisogna che in qualche modo io faccia corpo con me stesso, che io possa riconoscermi interamente nell’aspetto esteriore che gli presento. Perché anche l’altro si presenta a me attraverso la sua apparenza corporea, e anche lui deve poter coincidere con quella per entrare in relazione con me» (ivi, p. 448, tr. mia). È il corpo, e non lo sguardo o il volto, il luogo del primo incontro con l’altro, che successivamente si amplia mediante il dialogo e la comunicazione. Così come, a monte, è la corporeità la prima dimensione di estraneità che l’individuo sperimenta in se stesso.
In queste pagine del 2013, il tema dello straniero viene solamente accennato. Tuttavia, il ricorso alla concezione merleau-pontiana del corpo, per affrontare la questione dell’alterità e della relazione, getta le basi per la riflessione che Dastur proporrà sull’estraneità qualche anno dopo. Inoltre, nel mettere a fuoco i temi richiamati, L’expérience de le rencontre, presenta inevitabilmente una determinata concezione di identità che costituisce lo sfondo sul quale si muovono le considerazioni di L’autre, l’étranger, l’ennemi e che, trova dei significativi punti di contatto con la lettura di Kristeva. Infatti, riconoscendo la dimensione relazionale e di confronto con l’alterità come una condizione originaria dell’identità, l’individuo solo e autosufficiente perde la propria consistenza: «la situazione normale dell’essere umano non è quella di risultare centrato su di sé, dell’egocentrismo, ma piuttosto quella che proviene dal fatto che il suo stesso rapporto a sé non è totalmente trasparente. Noi siamo per noi stessi un enigma, poiché non decidiamo tutto ciò che accade in noi e non siamo padroni dei nostri sentimenti. C’è, dunque, una parte di noi stessi che ci sfugge e, a questo riguardo, siamo nei confronti di noi stessi nella medesima situazione in cui ci troviamo rispetto agli altri, di cui non possiamo conoscere con certezza gli stati d’animo. Per poter entrare in dialogo con gli altri, bisogna iniziare ad accettarsi per quelli che siamo, che significa accettare la parte di noi stessi che non può essere né totalmente dominata né totalmente spiegata ed essere pronti a riconoscerla anche nell’altro» (ivi, p. 449, tr. mia).
Esattamente come per Kristeva l’estraneità si colloca nel cuore della stessa individualità. Questo avviene mediante l’esperienza della corporeità, quale dimensione al contempo propria ed estranea. Tale elemento, come l’inconscio per Kristeva, diviene il dato comune che consente di stabilire una prossimità e un riconoscimento reciproco. La cucitura che Stranieri a noi stessi operava tra il piano psicoanalitico e quello etico-politico viene tentata da Dastur sostituendo al primo un approccio di tipo fenomenologico.
Diversamente dall’autrice bulgara, che legge la dinamica di riconoscimento sullo sfondo di un «noi impossibile», nella lettura di Dastur il tema dell’alterità conduce a quello dell’incontro, fulcro delle pagine del 2013 e lì presentato come un evento il cui innegabile portato etico affonda, tuttavia, le proprie radici nella esperienza di quella estraneità originaria e costitutiva di ciascuna realtà individuale. Un’estraneità che, a ogni modo, sembra aprire maggiormente a un’ottica relazionale.
In L’expérience de le rencontre Dastur concludeva proponendo di leggere ogni incontro come l’«inizio di un’avventura» che non può dirsi preventivamente positiva o negativa ma che tuttavia si pone come «un bel rischio da correre» (ivi, p. 451, tr. mia). Come l’autrice sosterrà altrove, l’incontro è un evento [événement], categoria particolarmente importante nel pensiero di Dastur, che assume i tratti di un avvento [avènement] il quale si presenta con il volto dell’alterità (cfr. Dastur 2016).
L’interrogazione sullo straniero è evidentemente pertinente rispetto alla riflessione condotta dalla filosofa francese. Così, nelle pagine di L’autre, l’étranger, l’ennemi, l’altro come straniero è posto al centro di una «esperienza cruciale per l’essere umano» nella quale viene ribadita la frattura che rompe la compattezza identitaria: «è da noi, da ciò che abbiamo di proprio, che si distingue lo straniero, che è essenzialmente colui che introduce il disordine in noi, ci destabilizza nelle nostre abitudini e credenze […] è riconoscere così la nostra propria vulnerabilità e la nostra finitezza […] è la prova che non siamo il centro del mondo […] questo varco che l’incontro dello straniero ha aperto in noi e che è lontano dal chiudersi, è ciò che separa in noi stessi il proprio dallo straniero» (Dastur 2018, p. 141, tr. mia).
Ciò che accomuna i possibili slittamenti semantici della nozione inglese di stranger - che Dastur sembra mutuare dalla riflessione che Waldenfels conduce sui derivati dal tedesco fremd (ivi, p. 140; cfr. Waldenfels 2008, pp. 132-133) - è proprio la capacità di infrangere l’immagine monadica e monolitica dell’identità, riportando alla luce il carattere originario di quella frattura. Sia che lo straniero venga inteso come forestiero, come insolito o come alieno, la sua presenza determinerà sempre nell’interlocutore un atteggiamento ambivalente che oscilla «tra attrazione e repulsione» (Dastur 2018, p. 140, tr.mia).
La prossimità alle affermazioni di Kristeva è evidente e si consolida nel riferimento alla rivoluzione apportata dall’inconscio freudiano, dove si colloca la critica alla conclusione di Stranieri a noi stessi, richiamata in precedenza. Per Dastur, le affermazioni di Kristeva del 1988 divengono, sul piano politico e sociale, rappresentative di quell’atteggiamento inclusivo che, radicalizzandosi, tende a un’assimilazione dimentica del particolare, cui fa da controcanto la radicale esclusione dell’estraneo in vista del mantenimento della peculiarità nazionale. L’uscita da questa dicotomia è l’ambizioso obiettivo che Dastur si pone senza, tuttavia, raggiungerlo nel quadro del contributo considerato.
Come nel 2013, anche in queste pagine il paradigma di riferimento è offerto dallo sguardo fenomenologico che Merleau-Ponty getta sulla corporeità e che l’autrice contrappone alla prospettiva presentata da Kristeva, pur condividendone evidentemente il presupposto di partenza: «Non bisogna, al contrario, riconoscere che l’estraneità sorge contemporaneamente al proprio e che questa distinzione è dapprima vissuta in maniera interiore da ciascuno di noi?» (ivi, p. 145, tr. mia).
Collocare l’estraneità all’interno dell’esperienza fenomenologica del corpo proprio implica che «io incontro l’estraneo dapprima in me stesso, ma non sotto la forma di un inconscio che mi sarebbe proprio, ma sotto quella di una corporeità che io condivido con tutti gli altri esseri umani», si tratterebbe, così, di un soggetto pre-personale e anonimo al quale gli altri partecipano e per mezzo di cui vengono stabiliti rapporti con il mondo (ivi, p. 146, tr. mia).
Nonostante le evidenti differenze, le interpretazioni di Dastur e Kristeva convergono nella concezione di un’estraneità da entrambe definita radicale piuttosto che assoluta in virtù dell’elemento comune che consente di avviare un percorso di riconoscimento dell’altro come simile, familiare eppure enigmatico: «lo straniero che io incontro nel mondo, anche se appare incomprensibile nel suo comportamento e nei suoi discorsi, è nondimeno immediatamente percepito da me come mio simile» (ivi, p. 147, tr. mia).
Il riconoscimento della comune estraneità spinge Kristeva a rivedere la configurazione dello straniero sul piano marcatamente politico e se un rischio c’è, diversamente da quanto segnalato da Dastur, questo si colloca nel solipsismo piuttosto che nell’eliminazione delle differenze. Diversamente, la filosofa francese sembra passibile di una maggiore apertura in termini relazionali ed etici, senza tuttavia allargare la riflessione sul versante strettamente politico. Per Dastur il reciproco riconoscimento della costitutiva estraneità è il punto di avvio per quello che Waldenfels ha indicato come spostamento originario, nel quale l’alterità dell’altro non viene sussunta empaticamente ma indica la co-originarietà tra identità e alterità nella quale si innesta la risposta all’inquietudine provocata dallo straniero (Waldenfels 2011, pp. 59-90). A queste conclusioni, Dastur, non affianca una «politica dello straniero» ma resta a monte di essa, invitando all’accoglienza dello straniero, intesa in senso ampio e relazionale, e all’apertura reciproca tra ospitante e ospitato (cfr. Dastur 2018, pp. 153-154).


3. Possibili risposte e aperture: quando C’è dell’altro

Nella Introduzione del 2014 alla nuova edizione italiana di Stranieri a noi stessi, Kristeva sembra chiarire proprio quei nodi problematici che segnavano le ultime pagine del volume. Inserendosi implicitamente all’interno del dibattito sorto attorno all’identità dell’Europa, l’autrice sottolinea come l’originalità di quest’ultima stia nella «nuova e ancora fragile realtà identitaria che accoglie con sé e raccoglie in sé lo STRANIERO», sottolineando come una simile accoglienza implichi il mantenimento delle peculiarità di colui che viene accolto (Kristeva 2014, p. VII). Si tratta di un tema particolarmente ricorrente nella produzione matura della filosofa, tesa a distinguere l’integrazione, che tende a unificare le differenze, dalla interazione, capace di rispettare il «diritto alla singolarità, ultima conseguenza dei diritti e dei doveri dell’uomo» (ivi, p. VIII; cfr. Kristeva 2019, p. 49).
Si tratta di un delicato equilibrio tra universale e particolare che attraversa la nozione di nuovo umanesimo laico, che Kristeva ha proposto negli ultimi anni (cfr. Kristeva 2011), entro il quale devono trovare simultanea articolazione tanto il bisogno di credere e il desiderio di sapere, caratterizzanti ciascun individuo, quanto l’assetto concretamente politico dello Stato-Nazione. Un compito che non può essere assolto nel piano strettamente politico. Anche in questo caso l’auspicio di «un’altra pratica politica» poggia sul terreno più vasto che ne costituisce lo sfondo, il solo che può permettere una «profonda mutazione della politica» e la coesistenza tra quanto vi è di originario, universale, e il dato acquisito, particolare (Kristeva 2014, p. IX).
Un impegno che investe la vasta dimensione culturale, nella sua natura e nella sua storia, al cui fondo resta la prospettiva psicoanalitica dell’autrice, sebbene con un significativo ampliamento dell’ambito semantico cui inizialmente veniva ricondotta la nozione di inquietante estraneità. Infatti, è nella dimensione inconscia che si radica il binomio tra bisogno di credere e desiderio di sapere, centrale nella produzione matura di Kristeva, il quale consente di mettere in luce il fatto che C’è dell’altro, come ricorda il titolo del suo recente volume (cfr. Kristeva 2006).
Pur restando in un orizzonte strettamente immanente e psicoanalitico, simili precisazioni consentono di aprire non solo in direzione politica, ma anche mistica e culturale. Un’apertura che, lungi dall’entrare nel merito del periglioso dibattito che investe la possibilità o meno di una coesistenza religiosa, cerca piuttosto di comprendere in termini laici la tensione innata che spinge l’uomo a costituire rapporti che eccedono la semplice dimensione razionale. Quando Kristeva parla di bisogno di credere intende quella tensione connaturata all’uomo che lo orienta verso un’alterità con cui si pone in dialogo, indipendentemente dall’oggetto a cui la credenza è rivolta; questa viene considerata come una dimensione imprescindibile a partire dalla quale, solamente, può svilupparsi il desiderio di sapere. Questo significa che «nell’esperienza del credere [vi è] una specifica dimensione psichica: l’affetto» che, lacanianamente declinato nel rapporto con il padre, viene indicato come una «costante antropologica universale e pre-religiosa» (Kristeva 2019, p. 20). È in questo senso che deve essere interpretata l’apertura nei confronti della mistica che l’autrice ha messo a fuoco nel corso della sua produzione e non in direzione teologica o religiosa.
Sul punto, Kristeva è chiara: «Dio non è necessario, ma il bisogno di credere - filo conduttore nonché nodo che strangola - si rivela, al mio ascolto, una necessità antropologica, prereligiosa e prepolitica» (ivi, p. 82), tanto che l’equilibrio tra il bisogno di credere e il desiderio di sapere che ne deriva, unitamente alla funzione paterna, comporta «cambiamenti del regime di pensare, così come dell’etica sociale» (ivi, p. 35).
Quanto detto consente di comprendere la configurazione che Kristeva dà alla nozione di nuovo umanesimo e, in particolare il punto di stretta connessione di questo tema con le riflessioni sullo straniero avviate nel 1988. Infatti, la tesi allora esposta trova un significativo prolungamento nel tentativo di arginare e ripensare quell’impossibilità del noi. Se è vero che il contesto sociale e politico globalizzato risulta marcato da un’estraneità essenziale - giudizio che trova una significativa anticipazione nelle ultime pagine di Stranieri a noi stessi (cfr. Kristeva 2014, p. 207) - è altresì importante per Kristeva trovare un punto di equilibrio che garantisca la coesistenza di universale e particolare, originario e acquisito, nella quale la necessaria tutela delle peculiarità nazionali non degeneri nei nazionalismi. Questi, infatti, sono «sintomi del fallimento dell’umanesimo davanti a […] lo straniero e la trascendenza» (Kristeva 2019, p. 142), quindi di fronte a quella dimensione inconscia di cui la psicoanalisi si fa carico, restando nella stretta correlazione con il piano politico ed etico che l’autrice aveva messo a punto anni fa.
Concretamente la proposta di Kristeva sembra, così, articolarsi su due livelli.
Da un lato, vi è il nuovo umanesimo laico che spiega sul piano teorico il difficile equilibrio, che investe la sfera pratica, nel quale rientra tanto la forma politica nazionale quanto la conduzione del desiderio di credere in direzione del bisogno di sapere, affinché «l’aspirazione all’ideale non collassi in quella malattia d’idealità che è il nichilismo terrorista» (ivi, p. 154). E che significa che la nazione viene concepita come «antidepressivo, a condizione che si colleghi […] agli insiemi superiori (l’Europa per esempio). Un antidepressivo che non può fare a meno del “genere umano”. Che deve, per questo riprendere, interrogare e rifondare non solo le culture nazionali ma anche la memoria delle religioni costituite, le quali sostengono di possedere un “legame unificante”, un legame che trascende le comunità etniche e politiche storicamente costituite. E rifondare l’umanesimo universale stesso, che se ne è separato, che le interroga e che s’interroga» (ivi, pp. 144-145).
Dall’altro lato, la psicoterapia analitica multiculturale, che contraddistingue la pratica clinica condotta da Kristeva ed è il modo con cui l’autrice pone concretamente in atto le dinamiche formulate sul piano teorico, fornendo in tal modo un contributo reale. Intervenendo analiticamente in casi di radicalizzazione religiosa e culturale, con particolare attenzione alla diffusione del fenomeno nel contesto giovanile, intende riorientare le naturali pulsioni e il connaturato bisogno di credere in una direzione costruttiva. Questo significa porsi «all’incrocio insostenibile dove la di-soggettivazione /dis-oggettivazione si esercita e si fa minacciosa, quando l’essere umano, divenuto incapace d’investire e di stabilire legami, spossessato di sé e privo del senso dell’altro, erra in un’assenza di mondo, in un nonmondo, senza bene né male, né un qualsiasi valore. E qui alle frontiere dell’umano, può innescarsi una ristrutturazione della persona» (ivi, pp. 122-123).
Come sottolineato altrove, nel fenomeno della radicalizzazione «siamo al di sotto dello scontro di religioni», in una dimensione di «fragilità psico-sociale», nella quale «l’interpretazione psicoanalitica è un per-dono: una ri-nascita dell’apparato psichico, con e al di là dell’odio portatore del desiderio […quella pratica che]. Riconosce il bisogno di credere e lo conduce al desiderio di sapere, per creare così solamente dei nuovi legami: di rinascita» (Kristeva 2018, pp. 53-54).
In tal modo Kristeva tocca uno dei punti maggiormente infiammati del dibattito sul dialogo interreligioso unitamente a quello legato all’integrazione dello straniero che, soprattutto in terra francese assume una precisa connotazione. La modalità con cui vi arriva non è né teologica né politica, così come Dastur, Kristeva non intende entrare direttamente nel merito di tali questioni né proporre soluzioni a riguardo. Tuttavia, riesce a toccare in profondità questi ambiti, attraversando il terreno nel quale affondano le radici, semplicemente ricordando quanto sia importante pensare a quell’«etica che oggi ci manca» senza mai dimenticare «una certa esperienza interiore per accompagnare il giudizio» (ivi, p. 60).


Bibliografia

Kristeva J. (2018) La notte della giustizia all'alba del perdono, EDB, Bologna.
- (2014), Stranieri a noi stessi, tr. di A. Galeotti, Donzelli, Roma.
- (2011), Osare l’umanesimo, in AA. VV., Il cortile dei gentili. Credenti e non credenti di fronte al mondo d’oggi, Donzelli, Roma, pp. 15-34.
- (2006), Bisogno di credere. Un punto di vista laico, Donzelli, Roma.
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- (1988), Etranger à nous-mêmes, Libraire Arthème Fayard, Paris.
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