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Necropolitica del Mediterraneo.
La costruzione sociale dell’indifferenza collettiva alla frontiera europea.

NADINE INNOCENZI
Articolo pubblicato nella sezione "Naufragio con spettatori: noi e i migranti"

Negli ultimi anni il mar Mediterraneo si è convertito nel confine più letale al mondo. Le politiche adottate dagli Stati dell’Unione europea nel tentativo di contenere e limitare il libero movimento di una parte di esseri umani (ovvero dei poveri che provengono dagli spazi ex coloniali) hanno trasformato la comune frontiera marittima in quello che Nicolas De Genova ha definito un paesaggio di morte (cfr. De Genova 2017). La regolarità e l’intensità della violenza che si consuma ai margini dello spazio europeo mette in discussione la retorica dominante, che tende all’auto-assolvimento dell’Europa rispetto al dramma umano ai suoi confini.
La mortalità dei migranti e rifugiati è sistematica perché è insieme esito dell’assenza di misure volte a impedirla o limitarla significativamente a vantaggio di azioni che la condizionano in senso positivo. Le atrocità che sono connesse con il tentativo di mantenere il territorio europeo «purificato» dall’umanità «indesiderata» impongono di riflettere criticamente sui meccanismi di giustificazione e naturalizzazione della violenza che sono in atto nelle democrazie liberali europee e che rendono i massacri contemporanei socialmente accettabili.


Il confinamento dello spazio europeo

Con l’espressione «confinamento» di una specifica entità politico-geografica si fa riferimento ad almeno tre processi tra loro intrecciati. Da una parte, il processo di costruzione del confine stesso, atto politico necessario a stabilire una separazione netta tra lo spazio interno e quello esterno. In secondo luogo, il processo di ordinamento, che riguarda l’organizzazione interna alla nuova entità politica attraverso una stabilizzazione della distribuzione spaziale dei diritti. Infine, verso l’esterno, le dinamiche di alterizzazione, in riferimento a quei processi relazionali che sostengono la definizione e il mantenimento nel tempo delle categorie cognitive di identità, distinzione, differenza e separazione tra gruppi umani e che sono insieme precondizione e conseguenza dell’esistenza di ciascuna entità politica territorialmente definita (cfr. van Houtum 2010).
La riflessione politologica e sociale sulla costruzione di una geografia europea ha tenuto a privilegiare le prime due dimensioni, analizzando i processi che hanno condizionato lo stabilimento materiale di una frontiera esterna all’Europa e le trasformazioni che essa ha subito nel corso del tempo, o studiando l’organizzazione interna di un territorio comune europeo, che ha fatto traballare la relazione simbiotica di auto-appartenenza tra il territorio, la sovranità e la popolazione tipica del modello westfaliano, riconfigurando una spazialità politica multi-nazionale o post-nazionale (cfr. Anderson 1996; Zaiotti 2011).
Nella maggioranza dei casi, l’origine di tali sviluppi è stata collocata nella fase che intercorre tra la fine della Seconda guerra mondiale e la fine della Guerra fredda, momento in cui effettivamente si concretizzano le trasformazioni politiche indirizzate alla fissazione materiale di una frontiera e alla stabilizzazione geografica dell’Europa (destinata nel tempo a modificarsi con il processo di allargamento). Secondo Gurminder K Bhambra, i riferimenti canonici della letteratura che si è interrogata sulle ragioni di detta trasformazione sono stati solitamente due. In primo luogo, il fatto che la rivalità tra gli Stati europei avesse ampiamente dimostrato, con il massacro civile delle due guerre mondiali, di poter condurre all’autodistruzione, da cui derivava la spinta a quegli «sforzi creativi» auspicati da Schuman per assicurare il mantenimento della pace. In secondo luogo, l’accento è stato posto sulla situazione creatasi con la Guerra Fredda e con la divisione in blocchi ideologici, economici e identitari contrapposti, in particolare per l’interesse strategico degli Stati Uniti per un’Europa economicamente forte e legata al mondo occidentale (cfr. Bhambra 2009).
Anche se forniscono elementi utili alla comprensione di alcuni dei fattori che hanno condizionato una specifica definizione della frontiera europea, gli orientamenti dominanti nel mainstream accademico risultano carenti, o quantomeno parziali, su diversi fronti. Il principale limite, che accomuna la gran parte delle riflessioni contemporanee sull’Europa, è quello di avanzare delle ipotesi di spiegazione a partire da uno spazio, temporale e geografico, eccessivamente ridotto. Rispetto al tempo, il tentativo di far coincidere la nascita dell’Europa con il momento storico in cui effettivamente si realizzano le singole scelte politiche volte a definire materialmente un territorio europeo cancella di fatto la possibilità di considerare in che modo l’esistenza di quello stesso spazio possa essere stata condizionata da processi di costruzione storica di più lungo periodo (cfr. Delanty 1995).
La fissazione materiale di un confine all’esterno dell’Europa va considerata all’interno di una più ampia e articolata storia comune europea che sicuramente non può essere ridotta esclusivamente alla fase successiva alla Seconda Guerra Mondiale, né alla breve parentesi novecentesca, e che ha condizionato profondamente la forma e il funzionamento di quella geografia. In linea generale, prima di essere confinata, cioè materialmente stabilizzata attraverso la demarcazione di un confine che ne ha organizzato il funzionamento verso l’interno e verso l’esterno, l’Europa è stata immaginata, cioè costruita sul piano delle idee, in un processo di definizione e ridefinizione continua che è durato secoli (Mercer 2014). Da questo punto di vista, concentrare la riflessione sull’Europa sul solo spazio geografico occupato dall’Europa stessa in un dato momento storico non consente di cogliere quei processi che hanno fatto sì che quello stesso spazio si definisse, nel corso dei secoli, come in qualche modo separato dal resto del mondo.


La costruzione discorsiva dell’Europa

Nel tentativo di sviluppare una spiegazione più convincente, può essere utile fare riferimento ad alcuni stimoli che provengono da un universo teorico differente. Sul piano simbolico, l’esistenza dei confini si nutre di una componente emozionale che è legata ai processi di costruzione sociale dei sentimenti di appartenenza collettiva, che sono tentativi di delineare discorsivamente e materialmente una separazione stabile tra lo spazio del «noi» e quello del «loro» (cfr. Remotti 2017). Di conseguenza, un modo per guardare alle dinamiche di definizione e alle trasformazioni nel tempo che subiscono i confini può essere quello di studiarli considerando il rapporto che questi intrattengono con le tendenze alla suddivisione e alla separazione tra i gruppi umani, che sono insieme processi di distinzione/frammentazione e di identità/appartenenza (cfr. Newman 2006; Stråth 2002).
In questo senso, il confinamento europeo può essere analizzato sul piano discorsivo, intendendo con «discorso» la variante ampia e inclusiva offerta dall’interpretazione post-stutturalista, post-marxista e post-moderna, che esula dalla mera analisi linguistica e che estende il concetto di discorso all’«effetto di verità» dato dalla sovrapposizione e dall’intreccio di differenti fenomeni che si esprimono sul piano politico e sociale: non solo le parole che vengono dette da diversi attori su un determinato argomento, ma anche le immagini utilizzate per rappresentarlo e in generale le idee e i concetti ai quali esso viene ad essere associato (cfr. Howart - Torfing 2005). Nello studio dello spazio europeo, il concetto di discorso aiuta a trascendere la natura oggettivista, riduzionista e razionalista delle prospettive analitiche dominanti e fornisce una chiave interpretativa aggiuntiva con la quale guardare ai processi di costruzione sociale dell’indifferenza collettiva che sono in atto ai margini della sua geografia (cfr. Mouffe 2000).
Guardare all’Europa considerandone il rapporto con le dinamiche di alterizzazione, cioè valutando il modo in cui essa è venuta definendosi nel tempo attraverso l’incontro e la comparazione con coloro che di volta in volta sono stati considerati come «non-europei», permette di comprendere più profondamente il tipo di relazione impostata dagli europei con chi storicamente è stato escluso da tale costruzione.
Anche se è stata completamente rimossa dall’auto-narrazione europea, che associa l’identità europea a una serie di elementi atti a caratterizzare positivamente la discussione (lo Stato di diritto, la democrazia, il liberalismo e il rispetto dei diritti umani, la solidarietà sociale, il secolarismo, la pace…) l’idea di Europa e i sentimenti di appartenenza collettiva europei sono inseparabili dall’esperienza coloniale (cfr. Amin 2004). Come spazio geografico e culturale, l’idea europea prese forma e iniziò a consolidarsi solo con l’esplorazione del mondo extra-europeo all’epoca delle «scoperte», quando vennero costruite quelle categorie cognitive, giuridiche e morali che servivano a legittimare l’esistenza di due ordini distinti, sulla base di un differente grado di umanità assegnato alla soggettività coinvolta (cfr. Delanty 1995).
Da questo momento in poi, l’immagine europea è stata plasmata dalla relazione impostata dall’Europa con i differenti popoli con i quali essa si è relazionata ed è risultata profondamente condizionata dalla posizione di dominio occupata dagli europei in tali relazioni. I vari «orientalismi» che sono stati creati per sistematizzare idealmente tutti gli Altri, frequentemente basati su una loro stereotipizzazione caricaturale, hanno contribuito a costruire la stessa idea di Europa come spazio culturalmente, politicamente e socialmente separato, dando luogo ad un auto-narrazione europea dai tratti marcatamente esclusivisti e autoreferenziali (cfr. Said 2013; Chakrabarty 2000).
La posizione gerarchicamente sovraordinata che gli europei hanno ritagliato per sé stessi rispetto a vaste aree del pianeta per la gran parte della loro storia ha permesso che le loro invenzioni intellettuali, tra le quali rientra anche un determinato modo di pensare e organizzare gli spazi e la mobilità tra questi, siano stati estrapolati dallo specifico contesto storico da cui derivano e trasferiti in un piano di universalità. Come ha suggerito Peo Hansen, di fronte alla violenza e alla morte direttamente collegabili alle azioni intraprese dagli Stati europei «l’Unione europea dovrebbe iniziare a domandarsi quali sono le implicazioni esterne e interne di una politica dell’identità che esalta l’“Europa” e “gli europei” senza prima riflettere sul fatto che anche i crimini coloniali di genocidio, schiavitù e sfruttamento sono stati perpetrati nel nome dell’Europa e giustificati sulla base di una superiorità razziale e culturale dell’Europa» (cfr. Hansen 2004, p. 57).


Discorsi violenti

Nello studio del mondo politico e sociale, il costruttivismo è l’approccio intellettuale che è interessato a problematizzare l’assolutizzazione dei concetti e delle categorie utilizzati per descrivere i fenomeni umani e a mettere in luce le dinamiche di potere che sottostanno allo stabilimento dei sistemi di verità, inclusa la verità scientifica (cfr. Haraway 1988). Per quanto riguarda la geografia umana, la prospettiva costruttivista ha analizzato criticamente i processi sociali attraverso i quali sono state definite le categorie cognitive che strutturano l’epistemologia dominante sulla relazione tra l’organizzazione degli spazi e i movimenti di persone. Interpretato come esito dell’assolutizzazione del modello di Stato-nazione di matrice europea da parte delle scienze sociali moderne (Wimmer - Shiller 2002), tale processo ha contribuito a costruire sistemi migratori relativamente ordinati, semplificando gli spostamenti umani tra Stati di origine e di arrivo, e ha definito un immaginario collettivo in cui il movimento di persone è venuto ad essere caratterizzato negativamente, come rottura al principio di fissità entro limiti territoriali definiti (cfr. De Genova - Mezzadra - Pickles 2015). Il lavoro epistemologico condotto sulla scienza delle migrazioni da Abdelmalek Sayad ha mostrato come il «pensiero di Stato» produca un sapere utile allo sfruttamento economico della mobilità umana, invitando a liberarsi dalle forme più o meno consapevoli di etnocentrismo e a riportare la mobilità a «fatto sociale totale», guardandola piuttosto come processo di emancipazione politica e scelta di mobilità sociale (cfr. Sayad 2002).
Lo scetticismo costruttivista consente di analizzare criticamente la retorica discorsiva che orienta il dibattito europeo sugli spostamenti umani, mettendo in luce in che modo questo si configuri come strumento di legittimazione e naturalizzazione delle diseguaglianze globali e delle pratiche illiberali attualmente perseguite dalle democrazie liberali europee (cfr. Basaran 2015).
Anche se mira a presentarsi come oggettivo e neutrale, il discorso con il quale si affronta la questione dei movimenti di persone in Europa serve la premessa che la mobilità di una parte di esseri umani debba essere contenuta, ostacolata o limitata ed è violento nei risultati, perché sembra riprodurre quelle stesse tendenze alla frammentazione gerarchica tra i gruppi umani che furono inventate in epoca coloniale e che oggi vengono ripresentate, in un linguaggio politicamente accettabile, al fine di legittimare il mantenimento dell’attuale stato di «apartheid globale» (cfr. Dalby 1998). Nelle sue differenti manifestazioni, esso tende a costruire l’immagine di uno spazio di vita civile da proteggere e tutelare a cui si contrappone un’Alterità assoluta, che assume la forma di una massa informe, da assistere o amministrare (cfr. Belliniva e Poguish 2018).
Le persone che si spostano verso l’Europa raramente vengono descritte come legittime titolari di un eguale diritto umano alla mobilità, o di un più generale diritto alla ricerca di una «vita decente» (Agnew 2008, p. 175), o come soggetti che agiscono politicamente in direzione della propria emancipazione individuale, ma attraverso un procedimento retorico che tende a privarle della loro capacità di azione e le oggettivizza, enfatizzando piuttosto il ruolo di fattori indipendenti dalla volontà dei soggetti stessi, come l’instabilità dei luoghi di origine, le reti criminali, o i c.d. «trafficanti di uomini» (cfr. Pécoud 2015).
È importante guardare alle parole, perché la crisi sulla mobilità umana nell’Europa contemporanea è una crisi che si svolge prima di tutto sul piano epistemico. Sia quando fa direttamente appello alla supposta pericolosità dei migranti, sia quando, al contrario, sottolinea la vulnerabilità delle persone che si spostano, il discorso sulla mobilità costruisce una situazione di emergenza permanente, frequentemente descritta attraverso l’utilizzo di espressioni tipiche del discorso «bellico» che definiscono l’immaginario di un territorio assediato, come l’idea di «invasione», o con un insieme di metafore idrauliche, come «flussi», «ondata», «marea», che creano un dibattito sulle persone spiccatamente spersonalizzato (cfr. Del Lago 2002).
La diversa titolarità del diritto al movimento libero, sicuro e dignitoso assegnata agli esseri umani in un sistema che assegna diritti di mobilità e obblighi di immobilismo sulla base della «lotteria della nascita» (Greblo 2008, p. 53) si traduce nella categorizzazione delle persone a cui questo non viene accordato in un ordine morale e cognitivo distinto. La libertà di uscita dal proprio territorio, ampiamente riconosciuta, almeno in teoria, dagli europei, può disapplicarsi nei confronti dei migranti e delle migranti, che si tenta di immobilizzare nei luoghi da cui provengono (cfr. Krzyżanowski et al 2018).
Il potere degli europei su coloro che si spostano dalle ex colonie continua ad esercitarsi come potere di classificare, dividere, frammentare, costruendo una scala di diritti e di libertà differenziate, a vantaggio esclusivo degli Stati europei. La separazione tra migranti «legittimi» e «illegittimi» riproduce i confini della diseguaglianza globale e naturalizza l’asimmetria rispetto ai differenti gradi di libertà accordati agli esseri umani (cfr. Gatta, 2002). L’esigenza di distinguere tra «migranti economici» e «rifugiati», immaginando che sia possibile stabilire una relazione causale univoca tra il motivo che spinge una persona a un certo punto della propria vita a lasciare il proprio paese e il fatto di trovarsi poi nel territorio di un altro, stabilizza l’attribuzione di diritti differenziati sulla base di una valutazione scientifica, giuridica e tecnica del livello di sofferenza individuale.
L’attribuzione dell’etichetta del «migrante irregolare» alimenta i sentimenti di sospetto e sfiducia nei confronti della persona che si sposta, distorce profondamente la sua posizione personale e contribuisce ad allargare i suoi spazi di vulnerabilità, rendendola un soggetto deportabile (cfr. De Genova 2017). Il sistema di protezione dei rifugiati, se da una parte criminalizza chi si sposta per altri motivi e determina un’attribuzione del diritto alla mobilità al negativo, per cui a un livello maggiore di sofferenza corrisponde un maggiore riconoscimento del diritto a cambiare di luogo di residenza, dall’altra presuppone che coloro ai quali venga accordata una protezione rinuncino al diritto a poter scegliere in quale luogo stare. Dal «rifugiato» ci si aspetta che si accontenti della protezione, ovunque e comunque essa sia elargita. In un sistema che sistematicamente disconosce il diritto di una parte di esseri umani a scegliere in quale luogo stare, la libertà individuale può esercitarsi solo attraverso tappe di «non-libertà» (cfr. Tazzioli 2015).


Il contenimento attraverso l’immobilizzazione

I meccanismi di giustificazione e naturalizzazione della violenza contemporanea operano a livello psicologico e cognitivo, sia sul piano intersoggettivo che su quello individuale, con il fine di far apparire come necessaria e indiscutibile la sofferenza inflitta a centinaia di esseri umani innocenti dal regime di confinamento degli Stati europei.
L’immobilismo imposto dal trattenimento prolungato delle persone nei campi che sono stati collocati dentro o fuori i confini dello spazio europeo ricorda troppo da vicino alcuni dei momenti più tragici della storia contemporanea.
Le condizioni spaventose in cui le persone richiedenti asilo sono immobilizzate nelle isole greche, in sovrannumero sistemico rispetto alle reali capacità di accoglienza, senza un adeguato servizio igenico-sanitario e senza specifici servizi di assistenza, anche psicologica, per le persone più vulnerabili hanno provocato quello che il capo missione di Medici senza frontiere ha definito «un’emergenza di salute mentale» (Medici senza frontiere 2018). Il campo di Moria a Lesbo è stato descritto come un «manicomio d’altri tempi» (Barberio 2018) in cui si verificano con frequenza episodi allucinogeni e di dissociazione mentale, fenomeni di autolesionismo e tentativi di suicidio, che recentemente sono stati registrati anche tra i minori (Medici senza frontiere, 2019). Nell’«Europa dei diritti», la violenza quotidiana e organizzata che si abbatte su migranti e rifugiati, immobilizzati dentro i confini europei, può essere tollerata solo da un sistema cognitivo che assegna a quelle persone un livello di umanità distinto (cfr. Fanon 2015).
La descrizione delle condizioni in cui avviene il trattenimento delle persone immobilizzate in Libia, prigioniere senza un regolare processo, sistematicamente violate nei più elementari dei loro diritti, a partire dalla privazione dello spazio fisico sufficiente a garantire il movimento, dell’alimentazione e dell’acqua, inserite all’interno di un sistema di brutalità regolare e ingiustificata, dalla quale hanno scarse possibilità di fuga e senza una vera colpa, è la più cruda manifestazione dei meccanismi di rimozione che sono in funzione nelle democrazie liberali europee contemporanee. Tanto simili ai prigionieri dei campi di concentramento descritti da Primo Levi, questi «non uomini» e queste «non donne» contemporanei vengono mantenuti in qualche modo in vita, ma in condizioni di privazione sistemica, di intensa crudeltà e in uno stato di malessere estremo. Sono vivi ai quali il potere europeo priva della capacità di vivere. Non ancora morti, ma che non la temono quando vengono buttati in mare poiché «troppo stanchi per comprenderla» (Levi 2014, p. 86).
Non si vuole qui fornire un’interpretazione estetizzata della sofferenza umana, né al contrario si intende assumere la posizione dello scienziato sociale che si dichiara oggettiva e distaccata dall’oggetto che intende studiare, ma che alla fine riproduce e rafforza la violenza delle pratiche di potere che studia. L’analisi della crudeltà che sottostà al funzionamento del confine europeo contemporaneo ha lo scopo di sottolineare come i processi di rimozione e naturalizzazione della sofferenza umana, che sono stati ampiamente indagati in riferimento all’esperienza del colonialismo e alle forme totalitarie del passato, continuino a operare anche nelle democrazie liberali europee contemporanee nei confronti di determinate popolazioni.
I campi funzionano sui corpi e sulle vite dei migranti «indisciplinati» (cfr. Mezzadra e Ricciardi 2013) come dispositivi di potere che è insieme cognitivo e materiale, che inserisce la sofferenza e la morte di migliaia di esseri umani all’interno di un sistema di esecuzione razionale della violenza, strutturata su un insieme coerente di norme, regole e prassi che hanno il fine di farle apparire come necessarie, rendendole così moralmente accettabili. Nel controllo dei movimenti di persone la razionalità occidentale ha raggiunto un livello di precisione e accuratezza che era impensabile nel passato. A differenza delle vittime della colonizzazione e dei campi di sterminio, le persone immobilizzate nei campi non vengono uccise direttamente (cfr. Davies et al 2017). Esse vengono sottoposte ad una forma più sottile di violenza, che prevede di mantenerle in qualche modo in vita, ma in uno stato di abbandono e di privazione sistemica, che provoca nel tempo la loro distruzione fisica e mentale e li trasforma in «morti viventi» (cfr. Mbembe 2003).


L’omissione violenta

L’obbligo di soccorso in mare è una norma ben stabilizzata del diritto internazionale, che è ancorata a una serie di norme e codici sovrapposti, che vanno dai principi morali, alle usanze dei popoli che hanno solcato i mari lungo tutto il corso della storia, ai precetti religiosi, alle convenzioni internazionali. Ciascuna di queste norme concorda sull’obbligo di assistere chiunque si trovi in difficoltà in mare. Esse si basano sul principio della reciprocità, per cui si soccorre aspettando di essere soccorsi qualora ci si trovi nella stessa situazione e sul presupposto che non aiutare chi si trova in difficoltà in mare equivale a lasciarlo morire (cfr. Basaran 2014).
È doveroso segnalare in che modo i discorsi sulla mobilità umana abbiano legittimato una serie di norme e di pratiche che di fatto hanno provocato una stabilizzazione della pratica dell’abbandono in mare e dell’omissione violenta rispetto ad alcune particolari popolazioni, un sistema sottile che negli ultimi decenni ha provocato la morte di migliaia di persone attraverso la scelta, razionalmente attuata, di lasciarle morire (cfr. Davies et al 2017).
La criminalizzazione giuridica della solidarietà in mare, che è stata perseguita in modo trasversale da diversi Stati che si affacciano sul mar Mediterraneo, è risultata un efficace disincentivo rispetto al dovere civile e morale di salvataggio. Il prevedere pene per chi soccorre, assiste o aiuta migranti in difficoltà ha riconfigurato lo stesso concetto di sicurezza dei mari, stabilizzando l’esistenza di due ordini morali, giuridici e normativi distinti a seconda della nazionalità e della classe sociale di appartenenza della persona in difficoltà.
Dalla chiusura di Mare Nostrum, nell’ottobre del 2014, nessuna delle numerose missioni militari degli Stati dell’Unione europea nel Mediterraneo è stata specificatamente indirizzata al salvataggio della vita umana in mare. Andando in direzione contraria a quanto tentato dall’Italia in quell’unico ma significativo caso, a partire dall’operazione Triton gli Stati europei hanno subordinato la tutela della vita all’obiettivo principale di contenere e limitare i movimenti di persone, una decisione che ha provocato un aumento della mortalità che è indipendente dal numero delle partenze (cfr. Unhcr 2019).
È d’esempio il caso della missione Eunavformed, lanciata con il fine di «identificare, catturare e distruggere» le navi sospettate di essere utilizzate per trasportare migranti e rifugiati. Diversi rapporti hanno testimoniato come la scelta di distruggere le barche di legno utilizzate dalle persone per la traversata del Mediterraneo abbia provocato il passaggio a imbarcazioni meno costose e più fragili, come i gommoni, che sono risultate più insicure e hanno contribuito ad accrescere il numero dei naufragi (cfr. Heller - Pezzani 2017).
La scelta degli Stati europei di attivarsi, di cooperare e di finanziare direttamente la c.d. Guardia costiera libica, demandandole il compito di pattugliare l’area marittima a ridosso delle coste libiche, ha dato luogo a una contraddizione sistemica del sistema di protezione dei diritti delle persone che attraversano il mar Mediterraneo. Un paese in guerra, che non ha ratificato la Convenzione di Ginevra e che la totalità delle agenzie dell’Onu considera non sicuro secondo gli standard minimi di rispetto della vita e della dignità umana è stato messo dagli europei in condizione di operare in missioni di ricerca e soccorso, che si caratterizzano, in sostanza, come veri e propri respingimenti (cfr. Oxafam 2019).


Conclusioni

La tenacia con cui gli Stati europei hanno sostenuto scelte politiche atte a ostacolare e contenere la mobilità umana a ogni costo, cioè indipendentemente dall’intensità della violenza provocata da tali decisioni, che è trasversale ai partiti dello spettro politico, e la perseveranza con cui le persone che intendevano spostarsi verso l’Europa hanno risposto a tali trasformazioni, continuando a partire e scegliendo nuove rotte, anche più pericolose, se quelle percorse in precedenza si sono trovate ostruite, hanno determinato lo stabilizzarsi di un’ambivalenza sistemica della frontiera europea.
Sulle persone che si spostano la frontiera europea sembra agire come strumento biopolitico, di presa in carico e di gestione dei corpi dei migranti e delle migranti, che vengono ridotti alla mera esistenza biologica, da immobilizzare, assistere o ricollocare a vantaggio esclusivo degli Stati riceventi. Esseri umani ancora vivi, ma privati del loro carattere umano, vite doppie e divise, a cui viene negata la capacità di agire e profondamente depoliticizzate (cfr. Agamben 2005). La condizione dei campi, ben analizzata nello studio dei totalitarismi, si riproduce nel governo della mobilità umana nell’Europa contemporanea, laddove l’eccezione, come categoria che consente di sospendere il diritto, diventa normalizzazione del trattamento profondamente discriminatorio riservato nel sistema globale agli esclusi dalla cittadinanza (cfr. Arendt 1996).
La scelta individuale di spostarsi, che è in sé un atto di rivolta alle condizioni diseguali imposte alle persone dal sistema di separazione degli spazi globali, decisione politica di emancipazione e trampolino di mobilità sociale, viene categorizzata in un’antitesi semplicistica tra protezione e lavoro, tra diritto di fuga e ricerca della felicità individuale.
Se è vero che entrambe possono essere, almeno in teoria, in qualche modo rintracciabili all’interno di ciascun percorso di mobilità individuale, tale classificazione annulla la pluralità di causalità che sempre determinano le scelte umane e naturalizza il sistema di disuguaglianza globale in cui le migrazioni contemporanee hanno luogo. Per quanto riguarda gli esclusi dal diritto al movimento, l’intreccio di desideri, ambizioni e speranze che caratterizzano la singolarità di ciascun essere umano viene implicitamente negato (cfr. Mezzadra 2001).
Accanto all’attenzione per la vita biologica delle persone che si spostano, la frontiera europea contemporanea manifesta una tendenza opposta e contraria. La posizione egemonica degli europei rispetto alle persone che provengono dal Sud globale, privati insieme del loro diritto a scegliere in che luogo stare e di quello di rivolta contro la posizione subordinata nella quale si vorrebbero stabilmente collocati, ha provocato un’evoluzione ulteriore della frontiera europea, che ormai funziona come strumento di violenza e sofferenza sistemica e su larga scala. Il concetto di «necropolitica», che è stato coniato da Achille Mbembe per riferirsi alle forme di dominio coloniali e postcoloniali, in cui il potere si esprime attraverso la scelta di «lasciare morire», sembra applicarsi particolarmente bene al funzionamento della frontiera mediterranea (cfr. Mbembe 2003).
Il sistema necropolitico mediterraneo opera in maniera sottile e con regolarità scientifica. Le persone indesiderate, membri di un’umanità che testardamente rifiuta l’immobilismo che le si vorrebbe imporre, non vengono uccise direttamente, come avveniva di regola nelle forme di sterminio del passato. La morte dei migranti e delle migranti è provocata dall’operare sistematico di una serie a catena di discorsi, politiche e pratiche che insieme giustificano e oscurano la decisione politica dell’abbandono.
Articolandosi insieme, biopotere e necropotere della frontiera europea disegnano uno spazio di violenza strutturata e coerente, in cui i meccanismi di depoliticizzazione operano con il fine di far apparire la sofferenza umana come necessaria e indiscutibile, mentre la deumanizzazione serve a riprodurre un’asimmetria al valore delle esistenze, che serve a rendere i massacri contemporanei socialmente accettabili.


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