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Noi e i migranti.
Tra compassione e responsabilità

VINCENZO SORRENTINO
Articolo pubblicato nella sezione "Naufragio con spettatori: noi e i migranti"

Quello che abbiamo di fronte ai nostri occhi, già da diversi anni, è l’enorme migrazione che coinvolge milioni di persone che fuggono da situazioni drammatiche (guerra, povertà, feroci dittature, disastri ambientali) e che viaggiano in situazioni altrettanto drammatiche, spesso morendo durante il tragitto. Papa Francesco l’ha definita la più grande tragedia dalla Seconda Guerra Mondiale (cfr. Francesco 2017).
Quanto sta accadendo ci interpella come persone e come cittadini, perché mette alla prova, e per molti versi in discussione, la nostra democrazia, il nostro sistema di diritti e più profondamente il nostro senso di umanità. La risposta dell’Europa, a mio avviso, è una vergogna che resterà come una macchia nella nostra storia. La priorità dell’Europa è arrestare i flussi. Non contano i costi umani: i morti, le sofferenze atroci nei campi di detenzione, le sistematiche violenze sessuali sulle donne. Pensiamo ai tentativi di spostare fuori dell’Europa le frontiere dell’Unione Europea, attraverso accordi con alcuni paesi di emigrazione e di transito, per mezzo dei quali si punta ad impedire gli arrivi in Europa, pur sapendo che questo significa che centinaia di migliaia di persone vengono trattenute coattivamente in condizioni che vedono la sistematica violazione dei diritti umani e spesso l’esposizione a violenze di ogni genere.
In questi ultimi anni si è spesso negato, oltre all’accoglienza, persino il soccorso, ed è stato deliberatamente creato, da parte di alcuni governi (tra cui quello italiano), un processo di criminalizzazione della solidarietà, ad esempio accusando le Ong impegnate nel Mediterraneo di favorire, in alcuni casi operando in complicità con la rete degli scafisti, il business dei trafficanti (cfr. Heller - Pezzani 2017; Bertotto 2017).
Un fatto gravissimo che ci dimostra come si stia realizzando un salto di qualità nell’imbarbarimento della mentalità e direi della sensibilità di parti consistenti delle nostre classi dirigenti e della nostra opinione pubblica.
Non intendo trascurare la complessità della situazione e non credo che la soluzione possa essere cercata in misure che si limitino a consentire un ingresso di massa che duri per anni, lasciando inalterate le condizioni sociali, economiche e politiche che stanno provocando le migrazioni. Innanzitutto, perché non si può trascurare, se non al prezzo di vedersi travolgere da reazioni collettive ingovernabili, il problema dell’impatto di forti e continui flussi migratori sulle popolazioni dei paesi ospitanti. Certo, la soglia di sostenibilità varia a seconda dei contesti e si modifica nel tempo, anche in virtù di interventi mirati, ad esempio, nel campo dell’educazione, della comunicazione pubblica o delle politiche sociali. Non possiamo però dimenticare questo aspetto. Inoltre, una soluzione del genere sarebbe ingiusta, poiché ciascuno ha il diritto di vivere una vita dignitosa nel proprio paese di origine. È dunque fondamentale porsi la questione di come sia possibile il superamento delle condizioni di guerra, di degrado ambientale e di povertà dalle quali stanno fuggendo le masse di migranti che cercano di attraversare i nostri confini. Tuttavia c’è una domanda alla quale non possiamo sfuggire: quale atteggiamento avere adesso nei confronti di queste persone bisognose di aiuto che bussano alle nostre porte?
Molte stragi e violenze di ogni tipo si sono verificate, e si verificano tutt’oggi, lontano da noi. Nei loro confronti possiamo dire di non sapere o comunque di non poter intervenire. La distanza fa da filtro. Come scrive Jonas, «la distanza rende sufficientemente insensibili e ci permette di tollerare passivamente la fame di popolazioni lontane che non ci darebbe pace se si verificasse attorno a noi» (2009, p. 230). Non sono convinto di quest’ultima affermazione, ma sta di fatto che la distanza aiuta a non sentirsi toccati e dunque responsabili.
Le persone sui barconi, invece, vengono da noi, sono terribilmente vicine. C’è un momento in cui i migranti che fuggono cercano di varcare la frontiera, di entrare in quello che consideriamo il nostro territorio: da lontani quali erano entrano in una dimensione di vicinanza chiedendo il nostro aiuto.
I bambini, le donne e gli uomini in mare sono esseri che si trovano, in un certo senso, in uno spazio privo di relazioni, che hanno tagliato ogni legame con i luoghi di origine e che non hanno ancora legami con le terre che (forse) li attendono. I migranti sui barconi sono sospesi in una sorta di vuoto e quindi precipitano. Per questo ci interpellano nella nostra responsabilità: ogni nostro atteggiamento, anche la non azione, è determinante per loro. Ci interpellano perché siamo chiamati a scegliere se raccoglierli o lasciarli cadere, il che vuol dire letteralmente morire, se accoglierli o respingerli. Hanno una presenza incombente. Non possiamo voltarci dall’altra parte, rassicurando la nostra coscienza con la giustificazione che tanto non possiamo fare niente. O meglio, nel momento stesso in cui dovessimo farlo agiremmo comunque sulle loro vite, ad esempio lasciandoli annegare o lasciando che altri consentano loro di accamparsi nei nostri quartieri. Bisogna scegliere.
L’arrivo di queste persone ai confini dell’Europa deve portarci ad interrogarci sulle nostre responsabilità politiche, quelle dei nostri paesi nell’insorgere delle situazioni di povertà, di violenza o delle crisi ambientali, da cui queste masse fuggono. Tuttavia esso mette in gioco anche una responsabilità etica, dal momento che il volto dell’altro, per usare un’espressione di Lévinas, che ci si presenta di fronte ci espone ad un obbligo in cui nessuno può sostituirci (cfr. 2006, p. 174). Questa prossimità ci provoca, e dunque interpella la nostra responsabilità, esige una risposta, sia essa di chiusura o di apertura.
Riflettendo sull’etica della prossimità non possiamo non pensare ai Vangeli, e in particolare alla parabola del buon Samaritano (cfr. Lc 10, 25-37).
I bambini, le donne e gli uomini che arrivano vivi sulle nostre coste sono generalmente simili all’uomo della parabola, sono stati derubati e percossi, sono mezzi morti, sia fisicamente che psicologicamente. E spesso siamo noi i ladri. Di solito non ciascuno di noi direttamente, ma governi che attraverso il nostro voto spesso legittimiamo o imprese il cui potere contribuiamo ad accrescere acquistando i loro prodotti. Siamo responsabili anche se non direttamente colpevoli. Tornerò in seguito su questo aspetto.
Il Samaritano aiuta l’uomo percosso che giace sulla strada in quanto mosso dalla compassione, sentimento che non provano né il levita, né il sacerdote, i quali gli passano accanto senza aiutarlo. La compassione è importante. Dobbiamo liberarci di una certa concezione riduttiva e squalificante della compassione, che la connette al sentimentalismo o al mero atto di fare l’elemosina, e la contrappone dunque alla giustizia (cfr. Prete 2013, pp. 10, 129-130).
Ovviamente non faccio riferimento a «quella sterile e crudele pietà che si appaga di compiangere i mali quando potrebbe guarirli», di cui parla Rousseau nell’Emilio (1997, p. 338).
Per Aristotele la compassione (o pietà) è il «dolore causato da un male distruttivo o doloroso che appare capitare a una persona che non se lo merita e che ci si può attendere di soffrire noi stessi o uno dei nostri» (1983a, p. 88; anche 1983b, pp. 218-219). Come osserva Martha Nussbaum, essa è suscitata dalla visione di una sofferenza immeritata che colpisce il nostro senso dell’ingiustizia (cfr. 2004, p. 376). La compassione può dunque essere un’importante molla emotiva dell’azione contro l’ingiustizia (laddove quest’ultima sia riconducibile a delle cause umane), o comunque dell’azione volta a mitigare o eliminare la sofferenza ingiusta.
La compassione ci porta ad immedesimarci con l’altro che soffre (cfr. Rousseau 1983, p. 123 e 1997, p. 295), a com-patire, a sentire-con. Si tratta di una questione rilevante sotto il profilo sia etico che politico.
Oggi è in corso sui migranti una lotta molto dura, una lotta importantissima che mette in gioco, è importante ribadirlo, aspetti fondamentali della nostra democrazia e della nostra stessa idea di civiltà. Questa lotta si gioca anche sul campo delle passioni, delle emozioni: basti pensare al crescente ruolo politico della paura, dell’odio, del disprezzo.
La politica è sempre anche rapporto di forza. Le forze in campo sono di varia natura, non solo argomentazioni razionali o interessi, ma anche passioni, sentimenti, emozioni. Chi vuole sostenere una posizione di apertura nei confronti dei migranti che provengono da gravi situazioni di povertà, di guerra o ambientali, deve essere capace anche di mettere in campo delle emozioni in grado di mobilitare a favore di politiche di apertura e tolleranza, di sostenerle. E-mozione, nella sua radice etimologica, rimanda appunto al “mettere in movimento” (ex-movere).
La compassione può giocare un ruolo importante, proprio in quanto molla, stimolo ad un’azione volta a combattere il male, la sofferenza, in questo caso la sofferenza di milioni di migranti. In questa ottica, essa è legata all’assunzione di una responsabilità personale.
È significativo il modo in cui la compassione viene tratteggiata all’interno dei Vangeli. Si pensi alla parabola del buon Samaritano o al fatto che in molti passaggi dei Vangeli Gesù prova compassione per le persone che soccorre (cfr. Mt 14, 13-14; Mc 6, 33-34; Mt 20, 33; Mt 1, 4).
In tutti questi casi la compassione, lungi dall’essere un mero sentimento passivo, spinge all’assunzione di una responsabilità. Il significato etimologico della parola “responsabile” rimanda all’atto del “rispondere” (derivato del latino responsum, supino di respondēre «rispondere»). Questo rispondere è ovviamente inteso spesso nel senso che responsabile è colui «che può essere chiamato a rispondere di certi atti». Tornerò tra breve su questa accezione. Qui, però, si prospetta una diversa declinazione della parola. Responsabile è colui che risponde ad un appello (cfr. Vergani 2015, p. 57): la responsabilità, scrive Lévinas, è una «risposta che risponde a una provocazione non tematizzabile» (2006, p. 16). Il rispondere-a prospetta una dimensione originaria della responsabilità. Come osserva Derrida, «sempre si risponde di- (di sé o della propria intenzione, della propria azione, del proprio discorso), davanti a-, rispondendo innanzitutto a-, poiché questa modalità sembra più originaria, più fondamentale e quindi incondizionata» (1995, p. 294). La compassione nei confronti della sofferenza del migrante, nella misura in cui mi spinge a rispondere alla sua richiesta di aiuto, mi rende responsabile: e questo per il semplice fatto che mi induce a fare qualcosa per lui.
La responsabilità, anche intesa come risposta, presuppone però la libertà. Di quale libertà parliamo? Torniamo ai Vangeli e soffermiamoci sul bellissimo episodio della resurrezione di Lazzaro (cfr. Gv 11, 32-44). Gesù si commuove e piange, eppure sa che resusciterà Lazzaro. Infatti, quando arriva ordina di togliere la pietra che chiude il sepolcro e afferma, rivolgendosi al Padre: «Io sapevo che sempre mi dai ascolto» (Gv 11, 42). Poco prima aveva detto: «Il nostro amico Lazzaro s’è addormentato; ma io vado a svegliarlo» (Gv 11, 11); e a Marta: «Tuo fratello risusciterà» (Gv 11, 23). Eppure viene coinvolto dal dolore dei suoi cari e vi partecipa. È come se, nel rapporto di prossimità, egli dimenticasse in qualche modo il resto, il contesto che lo aveva visto prospettare in maniera perentoria, per nulla dubitativa, la resurrezione di Lazzaro. Lo coglie una sorta di oblio di sé, della sua posizione, del fatto di essere il Messia che stava per resuscitare il morto. La compassione sembra essere un sentimento amondano, che astrae cioè dal complesso di relazioni che costituiscono il mondo e che instaura un rapporto di condivisione che è ab-solutus, ossia sciolto da ogni riferimento al contesto mondano. Non a caso Max Weber definisce “acosmica” l’etica evangelica dell’amore (cfr. 2004, pp. 108, 114, 117), quell’amore cristiano che anche per la Arendt ha un carattere amondano (cfr. 1989, pp. 39-40, 233-238) e che, secondo Schopenhauer, è nella sua essenza più profonda compassione (cfr. 2013, pp. 478, 480).
In quanto tale la compassione ha in sé un tratto prepolitico, dato che l’azione politica può essere realizzata solo all’interno del complesso di relazioni che costituiscono il mondo. Tuttavia, a mio avviso, essa non solo non è antipolitica (come sostiene invece la Arendt: cfr. 1983, pp. 74-76, 79, 84ss.), ma può avere un rilevante valore politico, nella misura in cui, a partire da un sentire-con l’altro che soffre ingiustamente, dispone a non dimenticare la sua concreta esistenza, il suo vissuto, nel momento in cui si agisce politicamente nel mondo. La compassione aiuta a non disumanizzare l’ambito dell’agire politico. Pensiamo alle conseguenze che la crescente spietatezza, ossia mancanza di pietà, sta generando nell’atteggiamento di fasce consistenti dell’opinione pubblica e della classe politica nei confronti della tragedia dei migranti, a cui sempre di più si nega, è importante ribadirlo, non solo l’accoglienza ma persino il soccorso.
La compassione, inoltre, in quanto è sempre suscitata dalla sofferenza di una singola persona (e mai di soggetti collettivi; cfr. Arendt 1983, p. 90) è un antidoto all’astrattezza che spesso caratterizza l’atteggiamento verso la politica. La traccia che essa lascia nell’interiorità di chi agisce può aiutarlo a non trasformare l’ambito della sua azione in uno spazio abitato da categorie e dati anonimi, come accade sempre più spesso quando si affronta la questione dei migranti. L’apertura connaturata alla compassione (cfr. Rousseau 1997, p. 295) può poi aiutarlo a non cadere nell’autoreferenzialità, che è la fonte di tanti mali sociali.
L’esperienza della condivisione emotiva con l’altro sofferente deve certo essere integrata da altre dimensioni e facoltà, perché si possa efficacemente agire nella sfera politica. Come osserva la Nussbaum, la compassione «ha tre elementi cognitivi: il giudizio di gravità (un serio evento negativo ha colpito qualcuno); il giudizio di non-colpa (la persona non si è procurata la sofferenza); e il giudizio eudaimonistico (la persona, o creatura, è un elemento significativo nel mio insieme di scopi e progetti, un fine il cui bene deve essere promosso). Il giudizio delle analoghe possibilità di Aristotele è un ausilio epistemologico per formare il giudizio eudaimonistico - non necessario, ma di solito molto importante» (2004, p. 387). Questo significa che la compassione deve essere integrata, ad esempio, dalla capacità di formulare giudizi etici che sostengano un’adeguata concezione della giustizia (cfr. ivi, pp. 482, 494ss., 514). Essa, cioè, «dev’essere associata a un codice morale, ma ci dà qualcosa che sta al cuore di ogni buon codice morale, senza cui norme e principi sono pericolosamente ciechi» (ivi, p. 469). Conclude la Nussbaum: «La compassione, quindi, è ben lungi dal costituire la totalità della razionalità pubblica, anche quando è appropriatamente plasmata da precise teorie per ognuno dei suoi giudizi costitutivi. Ma essa gioca un ruolo apprezzabile in molti aspetti della vita pubblica, plasmando la comprensione dei cittadini del significato umano di catastrofi di vario genere (come fa anche la rabbia appropriata, strettamente connessa alla compassione quando la sventura è cagionata dall’agire umano)» (ivi, p. 539).
La compassione può dunque giocare un ruolo importante sul versante delle motivazioni dell’agire; un agire che però, nel momento in cui entra nella sfera pubblica, non può non fare i conti con il contesto. L’obiezione della Arendt va dunque presa sul serio: la compassione, proprio per il suo carattere di assolutezza, rischia di avere un impatto distruttivo sulla sfera pubblica o rischia di restare irrilevante (cfr. 1983, pp. 89-92). L’uomo mosso da compassione che voglia ridurre la sofferenza attraverso l’azione politica deve mediare tra l’assolutezza della sua motivazione e i limiti contestuali dello spazio pubblico in cui agisce. Forse troviamo qui qualcosa di analogo al rapporto, non privo di tensioni, tra l’etica dei principi e l’etica della responsabilità di cui parla Weber. Mi soffermerò in conclusione su questo rapporto.
Vorrei tornare sul carattere amondano, acontestuale, dell’etica evangelica della prossimità incentrata sulla compassione, un’etica che presuppone, per riprendere il Vangelo secondo Giovanni, che noi siamo nel mondo ma non siamo del mondo (cfr. Gv 15, 19; 17, 14-19). Cosa significa questo per noi, anche indipendentemente da ogni riferimento alla fede? Significa, a mio parere, che ciò che siamo e che facciamo non può essere riconducibile esclusivamente al contesto, che siamo sempre almeno in parte liberi da quest’ultimo, che possiamo dunque incontrare l’altro al di là del contesto che lo categorizza. Solo grazie a questa capacità di prendere le distanze dal contesto è possibile liberarci da tutti quei condizionamenti esterni che spesso rendono difficile metterci nei panni dell’altro sofferente, soprattutto se straniero, e rispondere alla sua richiesta di aiuto. Si tratta di un punto fondamentale, dal momento che concerne anche la nostra capacità di andare controcorrente, di resistere a quella che Tocqueville definisce la tirannia della maggioranza, una capacità più che mai importante oggi, in un momento in cui il contesto sembra spingere sempre di più verso la chiusura e l’ostilità nei confronti dei migranti.
Qui non è tanto in gioco la libertà come libero arbitrio, possibilità di scelta (importante invece quando si parla della responsabilità intesa come capacità di rispondere dei propri atti), ma la libertà dal contesto, che ci consente di instaurare un rapporto diretto, immediato con l’altro, ponendoci di fronte a quella che Lévinas definisce la nudità dell’altro, il suo volto.
Certo, il rapporto con i migranti avviene anche in un contesto, che orienta il nostro atteggiamento nei confronti del loro appello. Orienta, non determina. È importante ribadirlo: nel rapporto con l’altro c’è una dimensione in cui siamo in qualche modo indipendenti dal contesto, non completamente irretiti nelle sue maglie. Se così non fosse, come potremmo parlare di libertà e dunque di responsabilità? Come scrive Lévinas: «Altri non si offre a noi solamente a partire dal contesto, ma anche senza mediazione, significa di per sé. Il suo significato culturale che si rivela e che, in un certo modo, rivela orizzontalmente, che si rivela a partire dal mondo storico a cui appartiene e che, in termini fenomenologici, rivela gli orizzonti di questo mondo, questo significato mondano viene scosso e stravolto da un’altra presenza, astratta, non integrata nel mondo. La sua presenza consiste nel venire verso di noi, nell’entrare. Possiamo esprimerlo in questo modo: quel fenomeno che è l’apparizione d’Altri è anche volto; o ancora, per indicare che l’entrata avviene in ogni istante nell’immanenza e nella storicità del fenomeno: l’epifania del volto è visitazione» (1998, p. 223).
Il mare ci consegna l’altro in una prossimità che ci pone di fronte alla nudità del suo volto: «Il volto – scrive ancora Lévinas - si è rivolto a me – e questa, appunto, è la sua nudità. È per se stesso e non in riferimento ad un sistema» (1990, p. 73).
L’essere in un contesto, ossia in una rete di relazioni, è fondamentale per noi: è la fonte da cui l’esistenza può attingere il proprio significato, è il terreno su cui si forma la nostra personalità ed è lo spazio in cui entriamo in rapporto con gli altri. È importante dunque considerare il contesto nel quale viviamo, tuttavia è altrettanto importante non farsi vincolare da esso: l’etica della prossimità si alimenta innanzitutto, anche se non esclusivamente, della nostra capacità di instaurare con gli altri rapporti diretti, senza mediazioni (e il contesto crea sempre mediazioni). Qui troviamo probabilmente le radici più profonde della nostra libertà, e dunque responsabilità.
È in gioco quella che Lévinas definisce la libertà del singolo «di fronte al mondo» (2012, p. 26). La nozione cristiana dell’anima attribuisce a quest’ultima «un potere reale e positivo di separarsi, di astrarsi» (ivi, p. 28). Tale scarto tra gli esseri umani e la situazione nella quale si trovano a vivere è, per Lévinas, al cuore della nozione europea di uomo, anche nelle sue forme secolarizzate. Una concezione opposta «sarebbe possibile solo se la situazione a cui [l’uomo] è inchiodato (rivé) non si aggiungesse a lui, ma costituisse il fondamento stesso del suo essere» (ivi, p. 31). Una concezione secondo la quale «l’essenza dell’uomo non è più nella libertà, ma in una sorta di incatenamento» (ivi, p. 33) al proprio contesto di vita, ossia al mondo. In questa ottica, «essere veramente se stessi, non significa risollevarsi al di sopra delle contingenze, sempre estranee alla libertà dell’Io: ma, al contrario, prendere coscienza dell’incatenamento originale, ineluttabile, unico al nostro corpo: significa soprattutto accettare questo incatenamento» (ivi, pp. 33-34).
Entriamo nel cuore della «filosofia dell’hitlerismo» che fa della fatalità del biologico il centro della vita spirituale (ivi, p. 33), una filosofia la cui possibilità, per Lévinas, si inscrive nell’ontologia heideggeriana (cfr. ivi, p. 23), che pensa l’essere umano come imprigionato nel contesto mondano in cui si trova gettato. Non è importante qui discutere la lettura levinasiana della filosofia di Heidegger. Conta invece cogliere la fecondità della sua sollecitazione. Se siamo inchiodati al mondo, al nostro contesto di vita, se non abbiamo nessuna risorsa per prendere le distanze, allora non possiamo essere né liberi, né responsabili: si aprono le porte per l’accettazione e la giustificazione di ogni tipo di orrore, anche di quello concentrazionario.
È proprio perché siamo capaci di provare compassione e di essere liberi in questo senso, che è tanto importante, nella lotta contro l’intolleranza e l’ostilità nei confronti dei migranti, creare occasioni che rendano possibile il rapporto personale, diretto, con loro, un rapporto che spesso è determinante nel demolire i luoghi comuni (derivanti dal contesto) che alimentano l’ostilità.
Certo, il rapporto personale spesso non è sufficiente, ma è parte essenziale di un’assunzione di responsabilità nei confronti dei migranti che provengono da gravi situazioni di guerra, povertà o ambientali, un’assunzione di responsabilità capace di farci passare dai dati alle storie e di mettere in collegamento la loro e la nostra vita. Nella consapevolezza che, per ciascuno di noi, esistere è stato possibile solo perché siamo stati accolti dalla vita (cfr. Løgstrup 1977) e, contemporaneamente, nella consapevolezza che siamo tutti esposti alla vita, che non siamo padroni della nostra vita, che non abbiamo scelto dove nascere, che la loro sventura sarebbe potuta essere la nostra o potrebbe in futuro essere la nostra. Come scrive Rousseau nell’Emilio: «Ognuno può trovarsi domani nella condizione di colui che oggi soccorre […]. Non abituate dunque il vostro allievo a guardare dall’alto della sua gloria i dolori degl’infelici, le penose fatiche dei miseri: non sperate di insegnargli a compiangerli, se li considera estranei alla propria esistenza. Fategli ben capire che la sorte di quegli sventurati può essere la sua, che tutti i loro mali insidiano il suo cammino, che mille avvenimenti imprevisti e inevitabili possono farli precipitare su di lui da un momento all’altro» (1997, p. 297).
Naturalmente, la questione dei migranti mette in gioco anche una responsabilità che deve considerare il contesto. Weber, nella sua celebre conferenza su La politica come professione, distingue, com’è noto, tra “etica dei principi” e “etica della responsabilità”. La prima spinge l’individuo ad agire sulla base di principi senza considerare le conseguenze del proprio agire, cosa che invece fa la seconda. Chi si ispira all’etica dei principi tende ad attribuire la colpa delle eventuali conseguenze negative del suo agire al mondo e alla stupidità degli uomini (cfr. 2004, p. 109). Oggi è importante agire responsabilmente anche nel senso inteso da Weber, ad esempio facendo fronte alle reazioni negative di parte dell’opinione pubblica alle pratiche di accoglienza non limitandosi a bollare come regressive tali reazioni, ma cercando di comprenderne le ragioni e lavorando sul campo per provare a far cambiare opinione a queste fasce della popolazione. È difficile, certo, ma necessario.
Inoltre, la tragedia dei migranti mette in gioco la nostra responsabilità anche in un altro senso. Noi cittadini dei paesi industrializzati avanzati siamo responsabili in quanto possiamo essere chiamati a rispondere, in un certo modo, della povertà e di molte guerre e disastri ambientali che spingono milioni di persone ad abbandonare le proprie terre. Siamo responsabili perché le politiche dei nostri governi hanno contribuito (spesso non senza la complicità dei governi locali), non di rado in maniera determinante, alla creazione di quelle situazioni drammatiche da cui fuggono molti migranti. È qui in gioco innanzitutto la responsabilità politica che, in quanto cittadini di uno stato, abbiamo per le conseguenze derivanti dalle azioni di quest’ultimo, anche se ciò non significa che ognuno di noi debba considerarsi criminalmente o moralmente colpevole per tutti i delitti commessi in nome del proprio stato (cfr. Jaspers 2005, pp. 23, 60). Più in generale, in questa ottica, ciò che ci rende responsabili è il fatto di contribuire - attraverso la nostra partecipazione, la nostra accettazione o anche soltanto la nostra passività (cfr. ivi, pp. 24-25, 70, 74) - alla creazione di un contesto generatore di ingiustizia. Iris Marion Young a tale proposito scrive giustamente: «il modello della connessione sociale sostiene che tutti quelli che contribuiscono con le loro azioni ai processi strutturali con esiti ingiusti condividono la responsabilità per l’ingiustizia» (2011, p. 96).
È significativo, ad esempio, quanto emerge nel Rapporto Honest Accounts, pubblicato nel 2017 da Global Justice Now e da un gruppo di Ong europee e africane, in cui si mostra come l’Africa, per quanto ricca di risorse, sia tutt’oggi impoverita dal furto sistematico di ricchezza da parte dei paesi industrializzati. 47 paesi africani nel 2015 risultavano complessivamente in una posizione di credito nei confronti del resto del mondo, con un saldo attivo di più di 41 miliardi di dollari. Basti pensare a tutte le multinazionali occidentali che sfruttano le risorse del continente africano, evadendo poi le tasse e spostando i propri profitti nei paradisi fiscali (Global Justice Now et al. 2017). Per molti versi, l’Africa non ha bisogno del nostro intervento, ma ha bisogno di essere lasciata in pace.
Vi è poi una responsabilità politica dei nostri paesi che riguarda anche il passato, innanzitutto il passato coloniale. Si tratta, per riprendere la Arendt, di «quella responsabilità che ogni governo si assume per i fatti e misfatti dei suoi predecessori, e ogni nazione si assume per i fatti e misfatti del proprio passato» (2010, p. 23).
Sarebbe più che mai importante puntare i riflettori su questo aspetto determinante della questione, visto che si è diffuso il pericoloso luogo comune per il quale siamo stati fin troppo generosi finora con i migranti, che «abbiamo già dato». La consapevolezza delle nostre (co)responsabilità potrebbe forse incrinare la posizione di chi si è schierato a favore delle misure di chiusura e respingimento. Sul piano politico, però, c’è il deserto.
In conclusione, ritorno al punto di partenza. Oggi mi sembra più che mai urgente un’assunzione di responsabilità come risposta all’appello dell’altro bisognoso di aiuto, anche al di là di ogni considerazione del contesto. Anche il realista Weber riconosce che «la politica viene fatta con la testa, ma di certo non con la testa soltanto» (2004, p. 118) e che «non si realizzerebbe ciò che è possibile se nel mondo non si aspirasse sempre all’impossibile» (ivi, p. 121). A conclusione della sua conferenza richiama il rifiuto di Lutero, alla dieta di Worms del 1521, di ritrattare la sua dottrina davanti a Carlo V e osserva che suscita «un’enorme impressione sentir dire da un uomo maturo (…) il quale sente realmente e con tutta la sua anima questa responsabilità per le conseguenze e agisce in base all’etica della responsabilità: “Non posso fare altrimenti, di qui non mi muovo”. Questo è un atteggiamento umanamente sincero e che commuove» (ivi, p. 119).
Credo che oggi abbiamo un enorme bisogno di quel valore esemplare che Weber attribuisce all’etica dei principi (cfr. ivi, p. 110), il valore esemplare di chi, fermo sui propri principi, ma realisticamente consapevole delle conseguenze della propria azione, si rifiuta di adeguarsi ad un contesto che chiude gli occhi di fronte alla sofferenza di milioni di persone. Il valore esemplare di chi è anche disposto a spingersi fino al punto estremo, delicato e terribilmente problematico della disobbedienza, rifiutandosi di rispettare la legge quando questa diventa disumana, assumendosi la responsabilità delle conseguenze sulla propria persona, perché, come leggiamo nei Vangeli, «Il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato!» (Mc 2,27).


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