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Sconfiggere la distopia; ricostruire la politica.
Nuove prospettive nella distopia del Terzo Millennio

ANNAMARIA LOCHE
Articolo pubblicato nella sezione La distopia nel Terzo millennio

«Noi non subiamo il terrore. Noi creiamo il terrore»: questa, nella puntata finale del IV ciclo di The House of Cards, è l’ultima battuta di Frank Underwood, che si rivolge direttamente agli spettatori. Penso sia noto a molti che Frank Underwood è un presidente degli USA democratico, molto spregiudicato e cinico, il quale in piena campagna elettorale ha appena deciso di giocare l’ultima carta che gli appare disponibile per vincere le elezioni: diffondere per il paese la paura del terrorismo islamico.
Da questo rapido richiamo alla nota serie televisiva statunitense si può intravvedere il complesso ventaglio di relazioni che intercorre fra politica, filosofia politica e paura, che ha una storia antica, ma che ha assunto in questi ultimi decenni nuove sfumature.
La paura è stata considerata, per un verso, la molla che spinge gli esseri umani a entrare in società e a sottoporsi all’obbligo di ubbidire alle leggi; per un altro verso, uno strumento di governo; ma è anche un’emozione, sottesa ai rapporti interpersonali, presente in distopie recenti le quali propongono un paradigma differente da quello delle distopie politiche più “classiche”. In quest’ultima modalità si aprono, a mio parere, strade nuove per la lettura del tema, che cercherò di spiegare nella seconda parte di questo contributo.


1. Platone e Hobbes: paura e obbligo politico

Nel secondo libro della Repubblica, Glaucone, per spingere Socrate a spiegare in modo più approfondito le tesi che lo avevano portato a confutare la relazione, posta da Trasimaco, tra ingiustizia e felicità, da una parte, e giustizia e infelicità, dall’altra, radicalizza le posizioni del sofista, sostenendo che per gli esseri umani fare ingiustizia è per natura un bene e subirla è per natura un male. La situazione ideale si realizzerebbe se si potesse fare ingiustizia senza patirne le conseguenze; la peggiore si ha quando si è soggetti a ingiustizia senza potersi vendicare (Platone 2001 358e-359a, p. 83). Per questo gli uomini cercano un accordo con il quale, per timore di subire ingiustizia, promettono di non compierne e garantiscono l’accordo elaborando regole convenzionali (i nomoi). Il mito di Gige spiega che gli esseri umani, se potessero agire senza il timore di essere scoperti e puniti per le loro azioni, darebbero sfogo a tutta la loro plenoxeia, alla loro volontà di sopraffazione. Molti secoli dopo, Thomas Hobbes sviluppa, come è noto, almeno in apparenza temi simili. Nella sua filosofia, la paura è la ragion d’essere della politica, la motivazione per costruire il corpo artificiale dello Stato; domina nei rapporti tra gli esseri umani, i quali sono uguali tra loro, perché, potendosi far del male l’un l’altro ed essendo dotati delle stesse pulsioni psicologiche, hanno tutti, allo stesso modo, timore di una morte prematura e violenta (Hobbes 1963, p. 110). Le prime due leggi di natura, frutto di un calcolo razionale, consigliano la costruzione di uno Stato politico, con l’obbligo di obbedire a un sovrano assoluto; ma questo stesso calcolo rafforza la diffidenza reciproca e con essa il timore dell’altro (ivi, pp. 117-118). Si riesce a superare diffidenza e paura ricorrendo (non discuto qui in che modo) alla legge del pacta sunt servanda che consente di abbandonare lo stato di natura e di entrare in una società organizzata sotto un sovrano assoluto in grado di garantire la sicurezza della vita (ivi, p. 130). Ovviamente in Hobbes, come anche in Platone, non sparisce il timore che nello Stato l’inadempienza agli obblighi provochi la punizione; tuttavia, in questo caso, si tratta di una paura regolamentata. Si ripresenta, però, nello Stato hobbesiano la paura della morte violenta e prematura, quando viene violato l’unico diritto imprescrittibile, quando, in altri termini, il sovrano chiede ai sudditi il sacrificio della vita o inviandoli in guerra (dove molti potranno morire) o condannandoli a morte. In queste circostanze la persona artificiale del sovrano si contrappone a quella fisica dei sudditi, a un livello di parità formale dei diritti naturali, ma in una situazione in cui il potere del primo è incommensurabilmente maggiore rispetto a quello dei secondi.
Pur con la dovuta prudenza, si può dire che, per la relazione fra paura e politica, le tesi di Platone e Hobbes si pongono lungo una linea simile. Le cose cambiano in modo significativo con Montesquieu, che ritengo costituisca il ponte tra queste posizioni e quelle che aprono la strada ai temi della distopia politica contemporanea.


2. Montesquieu: la paura come strumento di governo

Montesquieu, analizzando quale governo funzioni meglio in ogni specifica situazione, considerati alcuni parametri sociali, economici, geografici, demografici, storici, rielabora la tipologia di origine aristotelica che, bene o male, veniva ancora utilizzata e trascura invece i problemi discussi in ambiente giusnaturalistico e contrattualistico. Infatti, a parte un accenno a Grozio e Pufendorf nel Dossier de l’Esprit des Lois (Montesquieu 1951a, n.191, 1863, p. 1038) e la descrizione di un uomo naturale semplice, timido e pauroso nel I libro de LEsprit des Lois (Montesquieu 1951b, pp. 236-237), non si rintracciano nella sua opera temi di stampo giusnaturalistico.
Vi è un uso importante che Montesquieu fa della paura, quando individuando per ciascun tipo di governo una natura e un principio, definisce il dispotismo come il governo di uno solo, senza la mediazione dei corpi intermedi e senza leggi fisse e stabilite: dunque, un governo non moderato e di una sola persona. I principi dei governi sono «le passioni umane che li fanno muovere» (ivi, p. 251) e il principio del dispotismo è la paura (ivi, p. 259). Non si tratta della paura dell’uomo hobbesiano, ma di una paura quale strumento di governo, un potente strumento di governo, creato, come direbbe Underwood, dal potere politico. Inoltre, mentre per Hobbes il timore è frutto di un calcolo razionale, per Montesquieu tutto ciò che ha a che fare con il dispotismo è irrazionalità, come appare chiaro in un icastico e brevissimo capitolo dell’Esprit des Lois intitolato “Idea del governo dispotico”: «Quando i selvaggi della Louisiana vogliono cogliere un frutto, tagliano l’albero alla base e raccolgono il frutto. Ecco il governo dispotico» (ivi, p. 292); il dispotismo, dunque, ha nella paura uno strumento di governo proprio per l’irrazionalità che lo contraddistingue.
Sono pertanto convinta che la teoria del dispotismo di Montesquieu possa essere considerata una sorta di anticipazione della distopia, sebbene con alcune non secondarie differenze. Il paradigma teorico della distopia prevede la descrizione di una società, a seconda dei casi, degradata, violenta, totalitaria, ma immaginaria che costituisce un avvertimento per il presente. Lo scrittore di distopie pone in luce i germi presenti nella società a lui contemporanea che possono trasformare quest’ultima nel regime distopico che ha immaginato. Montesquieu, invece, si occupa di Paesi dispotici reali, Paesi orientali di vaste dimensioni, quali Persia, Turchia, Russia, Cina (secondo una tradizione che, da Aristotele passando per Machiavelli, arriva a tutta l’epoca moderna) nei quali è proprio l’esprit des lois del singolo Paese a creare le condizioni perché questo tipo di governo sia inevitabile; ed è sempre per il ruolo dell’esprit des lois, per altro verso, che non considera il dispotismo un governo possibile per le nazioni europee. Montesquieu si sofferma sui lati negativi del dispotismo anche per porre in luce in che modo le monarchie europee possano correre il rischio di trasformarsi in regimi non certo dispotici, ma assoluti, come peraltro l’esperienza di Luigi XIV, così sarcasticamente descritta nelle Lettres persanes, ha dato ragione di temere. Quindi il dispotismo sembra assumere, come la distopia, il carattere di “avvertimento”. Tuttavia, sebbene già dalla fine del Settecento fossero state scritte opere che si possono definire distopiche, non credo che l’immagine che Montesquieu dà del dispotismo sia di tipo distopico, anche se la paura come strumento di governo accomuna i due tipi di regime, quello storico e quello di fantasia.
Va però posto in luce che solo con Montesquieu la paura diviene un vero e proprio mezzo per il potere, svolgendo il suo compito non più in una condizione prepolitica, ma nella politica organizzata.


3. La paura nella distopia “classica” del Novecento

La distopia “classica” dell’età contemporanea utilizza la paura, probabilmente in modo non consapevole, in termini simili a quelli proposti nel modello di Montesquieu, con l’accentuazione di alcuni motivi, come quello della violenza fisica e psicologica non controllabile né prevedibile, che permette al potere di garantirsi un’obbedienza incondizionata, poiché nei regimi totalitari delineati i sudditi non hanno leggi sicure di riferimento né diritti cui appellarsi.
Gli esempi cui rinviare sono numerosi e noti. Indipendentemente dall’ordine cronologico, si può ricordare Swastika Night (Burdekin 1937), dove le classi inferiori sono sottoposte, senza giustificazioni, a continue angherie; in particolare le donne, ridotte a ricettacoli di nuovi esseri umani, preferibilmente maschi, sono vittime di ogni genere di soprusi. Dominano con potere assoluto i “Cavalieri teutonici” i quali possono piegare chiunque alle loro volontà. Si può ovviamente richiamare 1984 (Orwell 1948), troppo noto perché qui se ne parli; ma è sufficiente pensare alla tortura dei topi cui è sottoposto Winston Smith per cogliere la connessione fra violenza e paura. O ancora si può leggere l’antesignano dei romanzi distopici del XX secolo, quel Noi, pubblicato da Zamjatin, in inglese, nel 1924 dove la diffusione capillare di violenza e timore sono evidenti per il lettore, ma non per i sudditi del Benefattore. Né si può negare che temi dello stesso genere appaiano in alcuni dei romanzi del prolifico Philip K. Dick: si pensi ai mondi paralleli nella doppia storia di The Man in the High Castle (Dick 1962) o alle angosciose allucinazioni che, in The Three Stigmata of Palmer Eldritch (Dick 1965), sono lo strumento per la conquista del dominio intergalattico.


4. Un cambio di paradigma

Fra la fine del secolo XX e l’inizio del successivo la distopia politica comincia a mutare veste, assumendo nuove connotazioni in cui il ruolo della paura diviene ancora più centrale.
Non mi occupo qui in modo esplicito di quelle distopie, oggi molto note e seguite, che nascono prevalentemente come racconti per ragazzi, ma che sono già un segno di tale mutamento e il cui “capostipite” è la saga di The Giver di Lois Lowry (Lowry 1993). Il modello sociale che tali romanzi descrivono gioca sulla contrapposizione tra sicurezza e libertà che è tema classico della filosofia politica a partire dall’età moderna. Vorrei però notare come in The Giver sia presente un motivo da non trascurare. La società in cui vive il protagonista è apparentemente utopica: è pacifica, sembra che ciascuno faccia ciò che deve senza costrizione, il peso della responsabilità delle scelte di vita non ricade sull’individuo, ma sul potere centrale. L’apparente serenità che si gode è, però, ottenuta con l’annullamento dei sentimenti, dei ricordi, delle emozioni: la società crolla quando questo meccanismo si inceppa e la maschera dell’utopia cade.
Ed è importante porre in luce come a questo punto, la paura assuma il ruolo positivo di segnalare i pericoli.
In alcune distopie successive, quest’ultimo tema, a mio parere, si ripresenta; cercherò di dimostrarlo facendo riferimento a tre testi pubblicati in questo secolo. Sono opere che hanno in comune alcune particolarità, come, ad esempio, quella di non essere state scritte solo come distopie; anzi si tratta di romanzi che, da semplice lettrice, mi paiono eleganti ed efficaci nella scrittura, molto strutturati dal punto di vista narrativo, nelle sfaccettature psicologiche dei personaggi e dei loro rapporti e anche nelle relazioni che si creano tra l’insieme di questi elementi e l’universo distopico.
Si colloca in una posizione mediana fra l’uso classico della relazione tra paura e distopia e la modalità innovativa in cui questa viene esposta in altri testi, un romanzo italiano, La ragazza di Vajont di Tullio Avoledo (Avoledo 2008).
Un inquietante e indefinito timore serpeggia per il racconto: il protagonista (non vi sono nomi propri nel romanzo) ha paura per sé e per le persone che gli sono care e pare non esserci altro sentimento nella società se non, a volte, la rassegnazione dei deboli o la strafottenza dei potenti. Il protagonista ha paura quando ripensa a ciò che ha fatto in un passato che, peraltro, non ricorda bene. Né sa spiegarsi le ragioni e le motivazioni che lo hanno spinto a farsi trascinare in una guerra civile che ha diviso l’Italia in due, durante la quale si è schierato dalla parte sbagliata, collaborando, grazie alle sue competenze di studioso di storia, con un capo totalitario e razzista, le cui idee non ha mai condiviso, e che lo ha poi epurato, anche se non lo ha fisicamente eliminato. La paura lo attanaglia al pensiero che “la ragazza di Vajont”, di cui si innamora nonostante la grande differenza di età, essendo di sangue misto, in qualsiasi momento possa essere “eliminata” dal regime. I comprimari del romanzo, considerando il protagonista come un potente del regime (senza sapere che non lo è più e forse rischia più di loro), lo temono e, per questo, accettano ogni sua azione e obbediscono a ogni sua richiesta. Nella società si è soffocati da un costate senso di pericolo; la vita è difficile e stentata; lo Stato è allo sbando; la tecnologia non esiste più e se ne è persino perso il ricordo; la memoria, la storia sono state cancellate o distorte (cfr. ivi, p. 124).
Certamente in questo testo la paura, secondo il paradigma “classico”, è uno strumento del potere, in mano al dittatore, chiamato “Il Nostro Leader”; questi, peraltro, - per quanto si capisce - teme di essere deposto, in quanto si è imposto con l’appoggio di forze internazionali che sembra lo abbiano abbandonato. Tuttavia, proprio per questa sua debolezza, le sue reazioni sono imprevedibili: possono andare da gesti di clemenza, di cui ha beneficiato il protagonista quando non è stato giustiziato, ma “solo” torturato, a subitanei e incomprensibili atti di violenza.
Da questi brevi cenni emerge che ne La ragazza di Vajont la paura non è solo uno strumento del potere per il controllo politico e sociale, ma gestisce anche i rapporti interindividuali, nella sfera del privato. Simile alla diffidenza hobbesiana, non ha come esito la ricerca di una soluzione istituzionale che la elimini o riduca; rimane, invece, l’unico modo per regolamentare i rapporti fra gli esseri umani.


5. Dalla distopia alla fine della politica?

Parte di questi temi, diversamente declinati, è presente nelle ultime due distopie su cui mi vorrei soffermare, accomunate dalla descrizione di una condizione - solo accennata ne La ragazza di Vajont - accostabile allo stato di natura della filosofia politica moderna, soprattutto nella versione di Hobbes, ma con un’importante differenza: la paura si sviluppa in uno stato di natura che segue, non precede lo Stato politico, è causata dalla crisi di quest’ultimo, non è la causa della sua formazione. Se quindi nella prospettiva hobbesiana attraverso quella modalità di concepire la paura si arrivava alla costruzione della politica, viene da chiedersi se nelle distopie citate si preveda invece la fine della politica.
Credo sia nota a molti la trama di The Road di Cormac McCarthy (McCarthy 2007): in una terra distrutta non si sa bene se da una guerra nucleare o dallo spegnersi del sole (gli alberi sono morti, gli animali spariti, le città bruciate, l’aria è talmente inquinata da oscurare quel che rimane di un pallido sole), un uomo e suo figlio vagano per zone non precisate del Nord America per cercare di raggiungere il mare. È un viaggio arduo: è arduo ripararsi dal freddo, trovare da mangiare; tanto che è facile venire uccisi per essere divorati.
L’uomo e il bambino (anche qui mai citati per nome), se vogliono sopravvivere, devono controllare ogni passo, ponderare ogni decisione. Il bambino dice spesso di aver paura, il padre cerca di rassicurarlo senza mai mentirgli troppo sulle difficoltà che incontrano di continuo. Ma il bambino, sebbene voglia essere rassicurato, è in realtà più sicuro del padre; infatti è il custode di valori che non possono essere traditi (cfr. ivi, pp. 3-5). Forse questo compito gli viene dall’essere innocente in un mondo privo di solidarietà, di affetti, di generosità; forse è il padre che gli ha affidato questo patrimonio ideale, per farne il portare di una morale supererogatoria, perché sa che, se vuole salvare se stesso e, soprattutto, suo figlio, deve accontentarsi, per parte sua, di adottare una morale consequenzialista e non può aiutare, ad esempio, chi è palesemente destinato a morte certa, così come deve tentare di uccidere chi li minaccia (ivi, p. 259).
Angoscia e paura sono dominanti: paura della fame, dell’abbandono (il padre è consapevole di essere malato e vicino alla morte), del freddo, in una ricerca vana di una soluzione stabile. Ma è soprattutto paura di quelli che il bambino chiama i “cattivi”, cui oppone se stesso e il padre come i “buoni” perché, ripete più volte, “portano il fuoco” (ivi, p. 83). Il fuoco è il simbolo della loro unione; è il segno della speranza nel futuro; è la metafora dei valori dell’altruismo e della socievolezza. Il comportamento, ben diverso dal loro, delle altre persone che incontrano durante il viaggio spezza ogni fiducia, cancella ogni soluzione positiva, rende il futuro un miraggio irraggiungibile. Ogni giorno che passa, ogni notte che padre e figlio riescono a superare sono frutto di una lotta sfiancante, accompagnata dall’incubo che i “cattivi” abbiano il sopravvento su di loro.
Dal racconto di McCarthy sembrerebbe dunque emergere un perfetto stato di natura hobbesiano; e, in effetti, è così nella misura in cui ciascuno deve uccidere per non essere ucciso. Tuttavia ci sono aspetti che non si accordano con il sistema di Hobbes: in primo luogo, il bambino scoprirà che possono esserci anche altre persone che “portano il fuoco” e questa è già di per sé un’eccezione, impensabile nella filosofia hobbesiana; in secondo luogo, ma in senso opposto, è impossibile che la situazione narrata da McCarthy si risolva con una forma qualsiasi di accordo razionale.
La conclusione del romanzo è aperta: la catastrofe non vince, sebbene non si possa dire con sicurezza che perderà: tale conclusione non può essere, si è detto, frutto né di contrattazione né di razionalità. È semmai ipotizzabile grazie al riaffiorare di sentimenti positivi ed è legata al rovesciamento del rapporto temporale fra la società organizzata, che permette una vita tranquilla, e lo stato di natura, dominato dall’insicurezza o dal timore reciproco. Se nella filosofia contrattualistica dell’età moderna dal caos e dalla violenza dello stato di natura si esce con un patto sociale per creare uno Stato politico dove viga ordine e sicurezza, in The Road lo Stato politico c’è già stato ed è stato distrutto o si è distrutto e i protagonisti vagano in un ambiente anarchico, violento, inospitale. In realtà la malvagità, la violenza, sebbene dominanti, non sono gli unici sentimenti di questo mondo degradato e altri, diversi, ne affiorano nelle ultime pagine. Durante il romanzo, l’unico legame positivo narrato è l’amore incondizionato fra i due protagonisti; quando alla fine il padre muore (ucciso, però, da una malattia e non da altri uomini), il bambino viene accolto da un gruppo familiare: una madre, un padre, un figlio, una figlia. All’amore fra padre e figlio, si sostituisce la pietà (goodness, aveva detto il padre a proposito di altro; ivi, p. 281); e il bambino trova qualcuno di cui decide di fidarsi, di cui si vuole fidare. E trova, nello stesso tempo, un nucleo sociale, seppure minimo; passa da un rapporto duale a un rapporto plurale, strutturato in modo da far intravedere la possibilità della rinascita di una comunità.
Certamente la paura rimane il sentimento prevalente nell’apocalissi di The Road ma alla fine non c’è più solo il contrasto netto tra questa e l’amore disperato fra i due protagonisti. Ciò non significa che la fiducia e la pietà cancellino il timore; semmai lo affiancano. Rousseau identifica nella pietà il primo sentimento sociale, un ponte verso la socialità e la socializzazione (Rousseau 1964, pp. 156 sgg.); e forse qui la pietà svolge un compito simile. La società, se riuscirà a formarsi nuovamente, lo farà su queste emozioni, legate in modo indistricabile, che fanno intravvedere un futuro, seppure non certo, in cui la paura può essere uno strumento di difesa (così come lo è il dolore quando avverte il nostro corpo delle malattie) e l’amore, la fiducia, la pietà il segno di una possibile ricostruzione, a partire da relazioni private e minimali.
Siamo forse di fronte a un caso di “distopia critica” (Baccolini-Moylan 2003; cfr. ad es. p. 7), di “distopia sconfitta” dall’incrinarsi del negativo dominante di fronte al riapparire della speranza e della fiducia.
Su una linea simile si pone L’uomo verticale di Davide Longo (Longo 2010) che tuttavia a torto è stato visto come una sorta di versione italiana del testo d McCarthy. Racconta di un luogo (palesemente l’Italia del nord-ovest, tra Piemonte e Liguria) in cui la crisi si manifesta poco alla volta. In altri termini, diversamente che in The Road, all’inizio della narrazione vi sono solo i sintomi di una catastrofe imminente: la società non è distrutta; soffre, però, di forti incrinature che la portano a una dissoluzione che sarà graduale, ma profonda. Tale dissoluzione non è dovuta a un disastro naturale o nucleare, ma a ragioni socio-politiche. Nel paese in cui il protagonista, Leonardo, si è ritirato a vivere, dopo una catastrofe del tutto “privata”, permangono a lungo rapporti positivi di vicinanza e solidarietà: i segni della crisi ci sono, ma la vita pare possibile, pur in modo stentato. Da un certo punto in poi, però, prima nelle grandi città e poi anche nei piccoli paesi come quello in cui Leonardo si è rifugiato (cfr. ivi, p.79), la società e i rapporti sociali subiscono un crescente processo di degrado. Causa apparente ne sono le ruberie, le violenze, gli stupri perpetrati da non meglio precisati “esterni”, che sembra vengano dall’est.
Leonardo vive solo, riuscendo più o meno a gestire la propria esistenza, fino a quando l’ex moglie gli affida la figlia adolescente, Lucia (che Leonardo non vede da molto tempo), e Alberto, un bambino di una decina d’anni che ha avuto dal secondo marito. Leonardo si trova costretto, dopo aver tentennato per qualche mese, a cercare di raggiungere il confine svizzero o francese, con lo scopo di salvare i due ragazzi da una situazione che sta diventando ingestibile e pericolosa.
Inizia così il pellegrinaggio dei tre personaggi che si vengono a trovare in frangenti sempre più drammatici: i rapporti che si stabiliscono tra loro sono un emblema delle complesse relazioni che si istituiscono nella società in disfacimento. Infatti, mentre si rafforzano i rapporti fra padre e figlia, Alberto assume un atteggiamento fortemente ostile e palesemente disprezza il carattere mite e conciliante di Leonardo: questi si è sempre giudicato codardo, e sa che «nel mondo in cui era vissuto fino a pochi mesi prima», un mondo «avviato alla deriva», veniva considerato «un mite». Tuttavia Leonardo - lo si vedrà - in realtà è la personificazione di un significato alto di mitezza.
In questa dinamica tra Leonardo e i due ragazzi, Alberto, come sarà chiaro dalle successive vicende, impersona la decadenza di valori: è figlio della catastrofe, sceglierà la violenza e la barbarie. Per altro verso, Lucia, come e più del padre, in ogni circostanza sembra in grado di considerare i lati positivi e i pericoli ed è forse il simbolo della saggezza, della sofrosine. Leonardo, un uomo ferito dalla vita, evita le decisioni estreme, aspetta, medita, cerca di vedere sempre il lato positivo o almeno non negativo di ogni situazione, sceglie con ponderazione; ma è consapevole della durezza della realtà (cfr. ivi, p. 212). Si potrebbe dire che, rispetto al testo di McCarthy, è l’adulto a presentarsi come “innocente”, anche se Leonardo davvero innocente, e lo si sa da subito, non è. Ne deriva una complessità di nessi interpersonali (in cui si inseriscono anche un altro bambino, un giovane amico ombroso e un cane), che accompagna i movimenti dei personaggi in un ambiente dove, anche se non c’è il cannibalismo de The Road, la crudeltà, il sadismo dominano in modo crescente, pur affiancati da sporadici gesti di umanità e collaborazione tra coloro che hanno l’avventura di incrociarsi in un mondo che, pur meno distrutto e un po’ più abitato di quello di McCarthy, per violenza e paura ricorda anch’esso una sorta di stato di natura.
Anche in questo caso, si può richiamare il modello hobbesiano: le relazioni interpersonali sono la maggior parte delle volte violente; non vi è più alcuna regola di convivenza. Tuttavia non solo, come in McCarthy, bisogna tener conto che questa condizione è successiva e non anteriore alla formazione della società politica organizzata, ma, sebbene temere gli altri continui a essere il sentimento dominante, si ha l’impressione che, diversamente da quanto sostiene Hobbes, nello svolgersi della storia, il rapporto tra i Davide e i Golia non rimanga in una incerta parità, ma vada spostandosi a favore dei primi. Sembra cioè che, per riuscire a salvarsi, la capacità dell’eubolein, del ben deliberare abbia la meglio sull’uso del terrore e della violenza. In questa stessa prospettiva si colloca la possibilità di trovare alleanze, seppur fragili, per risolvere le situazioni di insicurezza, necessariamente generate dal timore reciproco. Come meteore sempre meno labili, con il progredire del romanzo, appaiono forme di accordi cooperativi, “patti”, certamente di matrice utilitaristica, tra persone che cercano, almeno per qualche tempo, di collaborare per sopravvivere o per difendersi dai violenti; e accordi sembrano sorgere - pur nella forma del dominio e non della cooperazione - anche tra coloro che si uniscono per rubare, per uccidere, per stuprare. Esiste quindi una parvenza di possibilità di accordo minimale, un accordo alla David Gauthier, che eviti gli scontri estremi, salvaguardando nel contempo gli interessi egoistici; o anche di patti provvisori, simili a quelli di cui Hobbes parla nel capitolo XV del Leviathan a proposito del foolish, dell’insipiens del salmo xiii (Hobbes 1963, p.132).
In una situazione in cui la catastrofe dei valori e della possibilità della convivenza costituisce, per gran parte del romanzo, l’orizzonte di riferimento più certo, in Leonardo aumenta la consapevolezza della necessità di difendere Lucia, mentre deciderà di abbandonare Alberto al suo destino, dopo che questi avrà scelto di unirsi a una banda di ladri e assassini da cui sono stati fatti prigionieri: è una banda, capeggiata da una sorta di Charles Manson, che perpetra, per puro sadismo e “divertimento”, atti di estrema brutalità su tutti coloro che riesce a catturare. Per salvare Lucia, stuprata dal capo, Leonardo andrà oltre la paura, senza tradire la sua mitezza, trovando nell’intelligenza e nel coraggio il modo di liberare, oltre la figlia, un bambino anch’esso innocente (Longo 2010, pp. 285-289), un elefante, un’asina, e lasciandosi alle spalle una violenza vuota e perdente.
In tal modo, unendo persone che non hanno perso l’umanità, ritrovando il suo giovane amico e il suo cane, valorizzando animali non umani, anch’essi miti, riuscendo a sopravvivere senza andare oltre confine, Leonardo potrà aprire la strada alla speranza di una società nuova e diversa, dove sono possibili nuove nascite, si costruiscono relazioni con altri che cercano di difendersi anch’essi dal degrado dominante. Questa nuova società si regge su una sorta di baratto: si sopravvive perché ciascuno dà quello che ha e fa ciò che sa fare. Leonardo, che era stato un professore e un romanziere, offrirà qualcosa di cui la comunità ha gran bisogno: racconterà storie.
La paura non è vinta, ma si prova a contenerla, mentre trova spazio la cooperazione. Non è vinta, e, se in Mc Carthy le si affiancavano, oltre all’amore fra un padre e un figlio, la pietà e la fiducia, qui, oltre all’amore fra un padre e una figlia, l’amicizia, il rapporto positivo con gli animali, le si affianca la mitezza, la mitezza di Leonardo, che probabilmente, diversamente da quanto scriveva Bobbio (Bobbio 1994, pp. 21 sgg.), può essere letta come una virtù politica o anche politica, se non altro dell’individuo, quale atomo originario della società.


6. Conclusioni

In entrambe queste ultime distopie, proprio in quanto distopie della catastrofe, dove la politica è diventata apparentemente inutile perché le regole di convivenza sono dimenticate, il problema principale è quello di tenere la paura sotto controllo o di sapere come utilizzarla non come strumento di potere, ma come difesa; non come emozione negativa, ma come un sentire che sia capace di suggerire la prudenza. Sia ne L’uomo verticale sia in The Road il timore non sparisce, ma da entrambi i testi emerge il suggerimento che se ne possa cambiare il verso. Il parziale rovesciamento della distopia indica quindi una strada alla politica, una strada che non raccomanda solo di non precipitare nell’universo distopico, ma che mostra anche un percorso per uscirne. La politica non finisce, dunque, o, se non altro, da queste distopie si può imparare come riflettere su come farla rinascere: non che la paura quale elemento della distopia sia uno strumento costruttivo e positivo, ma - come già accennavo - può costituire un argine contro la catastrofe, in modo che si possa progettare di vivere di nuovo insieme in modi, almeno in parte, cooperativi.
Delle tre modalità che ho rapidamente descritto sul ruolo della paura (motivo per costruire lo Stato; strumento del potere dispotico o totalitario; emozione primaria nelle relazioni interindividuali “dopo” la fine, almeno apparente, della politica), è la terza che può essere utile, proprio in questi ultimi anni quando alcuni tentano di fare del terrore l’unica cifra del nostro modo di vivere.
Gli ultimi due romanzi di cui ho parlato, che paiono descrivere un’irreversibilità della fine della politica, si concludono capovolgendo le carte e, aprendo uno spiraglio alla speranza, indicano una possibile via per sconfiggere la distopia stessa. Ciò non significa che la speranza permetta il superamento del timore. Per combattere per la speranza, come Leonardo, bisogna saper vivere la paura, non subirla. Vivere la paura non significa accettare la prospettiva di Underwood; semmai significa tenere a freno il terrore e l’insicurezza che esso genera; e questo è proprio il compito della politica e della filosofia politica.



Bibliografia

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