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Utopia e rivolta in Albert Camus*

ROBERTO GATTI
Articolo pubblicato nella sezione La distopia nel Terzo millennio

1. Il lessico dell’utopia

Siamo al cuore de L’homme revolté: Camus osserva che, dopo gli orrori del totalitarismo nazista e comunista, dovremmo aver compreso che il mondo non si lascia «foggiare [...] entro una cornice teorica», cioè che tra «idea» e «atto» ci sarà sempre una radicale differenza (Camus 2008, vol. III, p. 151). Ed è proprio questa differenza a richiedere costantemente una mediazione attenta e una ragione paziente che insegnino a cambiare quel che si può, lasciando da parte il resto. La rivoluzione, quindi, non è per niente l’unico modo per evitare di rendere «inutile» la rivolta (ivi, p. 152), anzi si è dimostrata la via peggiore per farlo, nella misura in cui, mentre la rivolta «parte da un no fondato su un sì, [la rivoluzione] parte dalla negazione assoluta e si condanna a tutte le servitù per fabbricare un sì rinviato al termine dei tempi». La rivolta è «creatrice», la rivoluzione è «nichilista» (ivi, p. 277). In estrema sintesi, va riconosciuto che, «obbedendo al nichilismo, la rivoluzione si è, in effetti, rovesciata contro le sue origini, che erano nella rivolta» (ibidem).
Inoltre, dal punto di vista della storia in corso, cioè in un mondo nel quale, date le interconnessioni tra gli Stati, la rivoluzione nella sola Unione Sovietica è diventata impossibile, la si potrebbe realizzare unicamente a livello mondiale. Ma questo, con ogni probabilità, porterebbe alla guerra nell’intero pianeta. Il che impone, anche a chi crede ancora nella rivoluzione, di usare con molta prudenza questo termine. Tenuto conto di ciò, Camus accenna alla possibilità di «rinnovare il contenuto del termine rivoluzione» e aggiunge che questo «esibisce un consenso a ciò che definirei un’utopia relativa [utopie relative]» (La révolution travestie, Camus 2008, vol. II, p. 445). In Sauver le corps (ivi, p. 440) troviamo la distinzione tra un’«utopia assoluta» e un’«utopia di grado molto più modesto». La prima punta a obiettivi estremi e irrealistici, la seconda a obiettivi concreti.
La definizione generale di «utopia» che Camus abbozza è formulata così: utopia significa «ciò che è in contraddizione con la realtà» (ivi, p. 439). Camus accetta, qui, di riconoscersi in quella che definisce un’utopia modesta, che contrappone alle «ideologie marxista e capitalista, fondate entrambe sull’idea di progresso» e, per questo motivo, espressioni di «messianismo» (ivi, p.440). Anche Il mondo va in fretta troviamo gli stessi accenti (Le monde va vite, ivi, p.450), campeggia l’alternativa tra «pensiero anacronistico [che] ci sta per portare allo sterminio», e «pensiero utopistico», rivolto positivamente al cambiamento. La rivolta trova, quindi, il suo spazio in una storia dell’utopia ragionevole, anche se cercheremmo invano, nell’opera di Camus, uno sviluppo esplicito e sistematico di quest’accenno al rapporto tra rivolta e utopia. Ciò non significa che non ci siano riferimenti importanti, come quello alla possibilità e, anzi, al dovere, da parte dei governi democratici, di unirsi in vista della creazione di un ordine internazionale fondato sul diritto. Quest’ordine ha un nome: si chiama «democrazia internazionale» (Démocratie et dicature internationales, Camus 2008, vol. II, p. 448). Ma ieri come oggi il termine era ed è destinato a rimanere puro flatus vocis, nella misura in cui ogni governo ha agito e agisce nel proprio interesse. Ed è, appunto, ieri come oggi, l’interesse a dominare, non la legge. Quanto scriveva Camus è ancora drammaticamente attuale: «Siamo quindi in regime di dittatura internazionale. La sola maniera di uscirne è di mettere la legge internazionale al di sopra dei governi, dunque di fare tale legge, di stabilire un parlamento, di eleggerlo mediante elezioni mondiali cui parteciperanno tutti i popoli». Finché ciò non sarà possibile, «il solo mezzo è di resistere all’attuale dittatura internazionale su un piano internazionale e con mezzi che non contraddicano il fine perseguito» (ibidem).
Ma il fatto, innegabile, che l’utopia modesta non abbia in Camus un’articolazione teorica all’altezza delle prospettive cui sembra alludere non rende impossibile il tentativo di individuare alcuni elementi salienti che ci aiutano a determinarne alcuni aspetti di rilievo.


2. Di cosa è fatta l’utopia modesta

Per quanto riguarda il concetto di libertà Camus eredita la parte che ritiene più rilevante della tradizione liberale e la inserisce in un pensiero denso di tonalità libertarie. L’eredità liberale che egli accoglie sta tutta nel principio secondo cui la mia libertà ha il suo limite nell’uguale libertà dell’altro e non sopporta, salvo eccezioni dettate dalle necessità, la violenza. È quindi una libertà «relativa» (ivi, p. 305), che non può mai diventare «assoluta», in quanto deve rapportarsi costantemente con quella del mio prossimo (ivi, p. 304). Forse l’antitesi di Camus, oltre ovviamente quella costituita dalle ideologie totalitarie, è in questo caso rappresentata da Max Stirner con il suo «individualismo» senza confini e senza misura, con la sua massima per la quale ognuno dovrebbe essere autorizzato a fare qualsiasi cosa di cui sia capace (ivi, p. 115). Se intendessimo interpretare Stirner (pur con molte precauzioni) come rappresentante - o uno dei rappresentanti più significativi - dell’anarchismo, dovremmo decisamente dire che Camus è lontano mille miglia dall’anarchismo.
L’individualismo estremo e il collettivismo totalitario sono i due più pericolosi esempi di negazione della libertà.
Un altro punto da evidenziare riguarda il rapporto tra libertà e giustizia, termine, quest’ultimo, con il quale Camus intende riferirsi sia all’efficacia del diritto in generale, sia, più specificamente, all’equa distribuzione dei beni materiali. Egli insiste continuamente sulla considerazione che entrambe sono fondamentali per l’etica della rivolta. E anche in tal caso il principio conduttore è la misura: né, come abbiamo appena visto, libertà totale, né giustizia «assoluta» (ivi, p. 311). Il motivo è che la giustizia assoluta, con la necessità, ad essa legata, di un illimitato intervento dello Stato nell’economia, finisce per restringere i margini della libertà civile e politica. La vicenda dello Stato sovietico stava allora lì a dimostrarlo: anche in questo caso, la buona filosofia si serve innanzitutto di quanto le mette a disposizione la realtà e, se può, economizza sui libri, scegliendo quelli veramente importanti e tralasciando, quando può, il resto. E cosa c’era, al tempo in cui Camus scrive L’uomo in rivolta, di più evidente del fatto che in Unione Sovietica la giustizia, diventata mero livellamento, si era affermata storicamente attraverso il soffocante «socialismo di Stato» (ivi, p. 259), a scapito delle libertà civili e politiche?
Ma esiste anche un altro motivo per condannare l’assolutizzazione della giustizia: ogni valore, quando è assolutizzato, nega i molteplici fattori che contribuiscono a garantire il rispetto della dignità umana. I valori in morale e i diritti in politica richiedono un equilibrio, una reciproca corrispondenza e limitazione: nessuno sarebbe disposto a riconoscersi libero laddove non ci fosse giustizia (è la lezione positiva dell’ideale socialista nelle sue multiformi versioni), ma neppure ad ammettere di vivere in una società giusta ove non ci fosse libertà (è il lascito vitale del liberalismo). Anzi, Camus si espone a favore della libertà in modo evidente, considerandola la condizione per realizzare tutti gli altri valori e diritti. Scrive che è l’«unico valore perenne della storia» (ivi, p. 311) e lo è perché, «anche quando la giustizia non è realizzata, la libertà preserva il potere di protestare e salva la comunicazione» (ibidem). Ancora più chiaramente lo dice in un’intervista del 1948: «La giustizia presuppone dei diritti. I diritti presuppongono la libertà di difenderli. Per agire, l’uomo deve parlare» [Intervista a la «Reine du Caire» (1948), Camus 2008, vol. II, p. 1024]. La priorità del diritto di libertà è uno dei punti fermi della filosofia politica di Camus, il che non esclude per nulla che l’obiettivo debba comunque essere la conciliazione di libertà e giustizia. Questa conciliazione è «l’ultima speranza dell’Occidente»; «Se l’uomo fallisce nel conciliare la giustizia e la libertà, fallisce del tutto» (Carnets, Camus 2008, vol. II, p. 1026; p. 1034).


3. Sulla violenza

«Nemesi, dea della misura» (L’homme révolté, Camus 2008, vol. III, p. 315), dovrebbe governare anche l’uso della violenza. Rifiutare totalmente il ricorso a mezzi violenti è un moralismo ipocrita, visto che molte volte la violenza è necessaria. Ciò non significa che debba essere resa sistematica, quasi fosse un elemento ineliminabile dalla politica. Camus invita a considerarla come una «provvisoria forzatura», un’interruzione momentanea della «comunicazione», un «limite estremo» al quale l’uomo in rivolta può essere spinto, per esempio, quando si tratta di opporsi a un’altra violenza (ivi, p. 311): «La non-violenza assoluta fonda in negativo la servitù e le sue violenze; la violenza sistematica distrugge in positivo la comunità vivente e l’essere che ne riceviamo» (ibidem). E questo è il limite che potremmo definire negativo: l’uso della violenza per difendere il debole contro il prepotente, per mantenere la libertà contro chi voglia sopprimerla con la forza. Quello che si può chiamare invece il limite positivo consiste nell’«armarsi unicamente a favore delle istituzioni che limitano la violenza, non per quelle che la legalizzano» (ivi, p. 312).
L’espressione più brutale - perché legalizzata - della violenza è la pena di morte, contro la quale, come sappiamo, egli non ha mai cessato di battersi (Réflexions sur la Guillotine, Camus 2008, vol. IV, pp. 127-167). Ma, in generale, ogni politica che assuma il principio secondo cui il fine giustifica i mezzi è portata, per la sua interna logica, a inglobare tra i suoi strumenti la violenza, spinta fino all’omicidio. Ecco perché un altro criterio regolativo si aggiunge: la violenza non deve mai essere al servizio di una «dottrina» o della «ragion di Stato» (L’homme révolté, Camus 2008, p. 311). Solo l’essere umano concreto è il punto di riferimento, il valore da tutelare: l’essere umano che vive qui e ora, quello che abbiamo dinanzi con la sua sofferenza, con l’offesa che è costretto a subire, con il dominio che l’opprime. E ciò significa anche: mai violenza finalizzata a un futuro indeterminato, alla promessa del paradiso in terra, perché l’eden umano, ammesso per pura ipotesi che possa essere realizzato, non può comunque esserlo a partire dall’omicidio sistematico. Il rapporto tra mezzi e fini risulta sempre complesso, ma almeno una cosa è certa: i mezzi non devono contraddire il fine. È il motivo per cui su di essi bisogna esercitare la massima intransigenza, mentre sui fini - ovviamente su quelli realisticamente raggiungibili - il confronto è non solo utile, ma indispensabile (cfr. ivi, p. 310).
Viene spontaneo, allora, domandarsi come sarebbe mai possibile pretendere di elaborare un sistema, di filosofare in modo pedante in questo campo senza togliere l’inesauribile specificità dell’esperienza morale, senza ignorare il suo carattere proprio, che è, se così si può dire, la provvisorietà, la contraddizione, la discontinuità. Descartes introduce la provvisorietà come espediente metodologico in attesa che possa essere tolta di mezzo dall’evidenza. Camus l’assume, al contrario, come la cifra dell’esistenza, che non è solo il luogo per eccellenza del mutevole, del possibile, del ragionevole, ma anche di un’inesauribile tensione, che l’arte, toccando forse il livello più alto accessibile all’uomo, esprime nel suo modo (cfr. ivi, in particolare le pp. 278-283). Può essere interessante esaminare questa tensione nei suoi aspetti specificamente morali, in quanto ciò consente di focalizzare un altro aspetto rilevante per continuare nella delineazione dei contenuti salienti dell’etica della rivolta come nucleo essenziale dell’utopia modesta. Assumo quale esempio particolarmente rilevante il rapporto tra dovere e felicità.


4. Felicità e dovere

Il Camus di Tipasa, ancora così vicino allo spirito greco, gode della felicità immediata che nasce dalla fusione con la natura; qui non c’è storia, non esiste assunzione di responsabilità verso gli altri, non incombono i mali del mondo. Qui, soprattutto, si vive in una dimensione pre-coscienziale. E ci si avvicina alla forma pura della felicità come amore della terra e della vita con lo slancio tipico di Dioniso, di fronte al quale il piacere epicureo, come mera assenza di dolore, impallidisce
La coscienza comincia ad affiorare nelle brume di Praga, nel mezzo dell’Europa teatro per millenni di conflitti, guerre, stermini, crudeltà; l’atmosfera tetra di questa città è come il riflesso della tragedia della storia che si è consumata e che si consuma ancora. E come confrontarsi con essa senza che la coscienza inizi a emergere? Camus stilizza così quello che è stato anche il suo percorso esistenziale da Tipasa a Praga (e Parigi), dalla natura alla storia: «Bisogna incontrare l’amore prima di aver incontrato la morale. In caso contrario, il tormento» (Carnets, Camus 2008, vol. II, p. 1118). Ma tra incanto (e tentazione) della natura e impegno nel dramma della storia la tensione non cessa mai: «Bisogna amare la vita prima di amarne il senso, dice Dostoevskij, Sì, e quando l’amore di vivere scompare, nessun senso ci consola» (ivi, vol. IV, p. 1057). Una volta strappati via dal grembo della natura, è difficile tornare indietro. Dora, ne I giusti, atto III, lo sente e lo confessa a Kaliayev: «L’estate, Yanek, ti ricordi? Ma no, è il perenne inverno. Noi non siamo di questo mondo, siamo dei giusti. C’è un calore che non è per noi» (Camus 2008, vol. III, p. 31). La coscienza c’impone di nous engager, di mescolarci alle lotte del mondo storico, di prendere posizione, di caricarci delle responsabilità verso il nostro prossimo, di batterci contro le ingiustizie, di agire. Non c’è più posto per l’abbandono ai profumi del mondo-natura. E non ce n’è neppure per godere un sentimento così legato a quest’abbandono, cioè l’amore-passione che unisce un maschio e una femmina e li isola dal resto, quell’amore che Dora rimpiange ma al quale sa che, una volta impegnatasi nella rivolta, non potrà tornare se non negli intervalli che la lotta raramente concede:

C’è troppo sangue, troppa dura violenza. Quelli che amano sul serio la giustizia non hanno diritto all’amore. Stanno eretti come noi, a testa alta, gli occhi fissi. Che spazio ci sarebbe per l’amore in questi cuori fieri? L’amore fa reclinare dolcemente le teste, Yanek. Noi abbiamo la nuca rigida (ivi, p. 29).

E sogna che si possa dimenticare, anche solo per un momento, la miseria di questo mondo e «lasciarsi un po’ andare»: «una sola piccola ora di egoismo, riesci a pensarla?» (ivi, p. 30).
Sono le stesse cose che sanno Rieux e Tarrou, protagonisti de La peste, quando, dopo una giornata di lotta estenuante contro il morbo, si concedono una tregua e nuotano insieme in attesa di riprendere la fatica, il giorno dopo, finché la malattia sarà sconfitta, almeno temporaneamente.

Tarrou si scosse: ‘Sa ‒ disse ‒ cosa dovremmo fare per l’amicizia?’. ‘ Ciò che vuole’, rispose Rieux. Tarrou: ‘Un bagno in mare [...]. In fin dei conti, è troppo stupido vivere solo nella peste. Beninteso, un uomo deve battersi per le vittime. Ma se smette di amare ogni altra cosa, a che serve che combatta?’ (Camus 2008, vol. III, pp. 211-212).

Dopo essersi rivestiti,

tornarono via senza aver detto una parola. Ma avevano lo stesso sentimento e il ricordo di quella notte gli era dolce. Quando videro da lontano la sentinella della peste, Rieux era consapevole che Tarrou pensava, come lui, che la malattia li aveva per un momento dimenticati, che questo era bene, e che ora bisognava ricominciare (ivi, p. 213).

Questo filo teso tra felicità e dovere, tra godimento dionisiaco del mondo-natura e impegno nel mondo della storia, non si elimina, perché è costitutivo della condizione umana (Révolte et servitude, Camus 2008, vol. III, p. 421). L’etica della rivolta ha un innegabile risvolto tragico proprio perché non giunge mai a risolvere conclusivamente i suoi conflitti interni (Pascal parlerebbe delle contrariétés), dei quali e tra i quali, anzi, vive. È, d’altra parte, anche il motivo per cui quest’etica deve ispirarsi alla norma essenziale della misura. La misura suggerisce il limite da non oltrepassare, fa puntare lo sguardo sul confine da non abbattere, mantiene faticosamente l’equilibrio tra i contrasti inevitabili nell’agire umano. Eppure, viene sempre il momento in cui la misura rischia di cedere: «Cerco di tenermi pronto. Ma c’è sempre un’ora della giornata o della notte nella quale l’uomo è vile. È di quest’ora che ho paura» (Carnets, Camus 2008, vol. II, pp. 1011-1012).
Vivere tra felicità e dovere, senza assolutizzare l’uno o l’altro, è il riscontro, nell’etica, di quella più generale tensione che va mantenuta, sul piano «metafisico», tra «assurdo» e «rivolta».


5. Politica e ragionevolezza

Nella parte dedicata al «pensiero meridiano», Camus dichiara le sue simpatie politiche, che sono dirette al sindacalismo rivoluzionario, il quale ha «migliorato prodigiosamente, in un secolo, la condizione operaia» (Révolte et servitude, Camus 2008, vol. III, p. 316), e al «pensiero libertario dei Francesi, degli Spagnoli, degli Italiani» (ivi, p. 317). In questo contesto colloca ‒ con un innegabile eccesso di manicheismo ‒ «la storia delle lotte tra ideologia tedesca e spirito mediterraneo» (ibidem). La Comune parigina del 1871 è annoverata tra le esperienze politiche che più si sono avvicinate allo spirito della rivolta (cfr. ibidem). Qui Camus non procede più come attento osservatore delle tensioni che costellano l’etica della rivolta e, in generale, la condizione umana. Preferisce la contrapposizione: il «conflitto profondo di questo secolo» ‒ sostiene ‒ è «non tanto tra le ideologie tedesche della storia e la politica cristiana [...], quanto fra le visioni tedesche e la tradizione mediterranea» (ivi, pp. 317-318), cui appartengono l’anarchismo di Proudhon, il sindacalismo rivoluzionario, l’esperienza comunarda. A guardar bene ‒ aggiunge ‒, «l’Europa non è mai stata altrimenti che in questa lotta tra meriggio e mezzanotte» (ivi, p. 318). Niente di più vago, si direbbe, di questa tradizione politica «mediterranea». Ma possiamo anche non arrestarci a questo manicheismo politico, poco coerente con il resto della sua riflessione, e verificare se c’è qualcos’altro da dire sull’argomento.
Ho già evidenziato come e quanto l’etica della rivolta venga opposta da Camus a ogni concezione animata da uno spirito schematico, contrario alla complessa realtà umana. Lo stesso vale per quella che potremmo definire la politica della rivolta. A parte qualche pagina, non troviamo negli scritti filosofici di Camus una teoria politica; troviamo accenni, polemiche, rinvii sovente generici, altre volte di graffiante puntualità, come nel caso algerino e a proposito della pena di morte. Anche quello che c’è in altri scritti, compresi i Taccuini, i numerosissimi articoli su riviste e giornali, le lettere è, più o meno, dello stesso genere. Le sue posizioni politiche sono sempre riferite a casi e situazioni concrete, determinate, specifiche; la linea-guida è la natura umana e la difesa della sua dignità nelle occasioni più diverse. Quindi, possiamo dire che l’etica della rivolta guidi la politica della rivolta; e la politica della rivolta, come ogni buona politica, non sopporta un catechismo di regole già confezionate, ma deve saper leggere, nelle differenti situazioni, i caratteri salienti e peculiari di ognuna. Ne deriva che rischiano di cadere nel vuoto i tentativi di etichettare, in modo unilaterale, Camus come libertario, anarchico sindacalista rivoluzionario sulla scia di Sorel, socialdemocratico. Certo, Camus non ha mancato di manifestare il suo libertarismo, che è vicino, come egli stesso afferma, all’anarchismo di Bakunin. Un giudizio ampiamente favorevole di Camus su questa linea di pensiero si trova in L’homme révolté, Ma qui non c’è tutto Camus, come non c’è nelle altre posizioni richiamate. In una nota de L’homme révolté l’esperienza delle socialdemocrazie scandinave è considerata come un caso di società in cui il «sindacalismo più fecondo» convive con la «monarchia costituzionale» e realizza «l’approssimazione di una società giusta» (Camus 2008, p. 317 n). La politica dell’uomo in rivolta è laica nel senso più rigoroso del termine: si esercita e si definisce a stretto contatto con le vicende mutevoli del mondo (il più vicino o il più lontano dall’osservatore), si confronta con le teorie in campo, si misura con le risposte date da altri. E poi si svolge in libertà, senza vincoli di ortodossia. Inseguire Camus nelle variazioni del suo atteggiamento politico - spesso, come si sa, molto radicali e di solito poco allineate alle opinioni e ideologie correnti, di qualsiasi parte - nutrendo la speranza di ricondurle all’unità di una teoria è un’operazione vana e alla quale lo stesso Camus più volte si è opposto. In questo (come meravigliarsene?) la sua posizione è molto più vicina a quella greca che a quelle espresse nella modernità: politica è prassi che guarda al contingente, al mutevole, a ciò che s’inscrive nella libertà e non nella necessità. Se ben fatta, lo è perché ricorre alla ragionevolezza, cioè, per usare un termine tipico della classicità, alla prudenza. Così, la politica si costituisce come discorso libero e come azione ragionata sulle cose d’interesse comune e ‒ lo ha ben evidenziato Hannah Arendt in The human condition ‒ finisce per entrare in crisi proprio nel momento in cui la metafisica, a partire da Platone, arriva a impadronirsene con le sue astratte categorie e con i suoi princìpi eterni che dovrebbero riflettere l’eternità dell’Essere.
Si può ben riconoscere che, con tali premesse, Camus (esattamente come la Arendt) si trovi a casa propria più con quelle forze ed esperienze politiche che sono meno oppresse da preoccupazioni dogmatiche, come accade per i movimenti libertari, che con altre. Ma non dovremmo dimenticare che, per Camus come per la Arendt, i movimenti libertari sono una specie di ultimo e raro appiglio in un’epoca che ha inaugurato l’idea di politica come sistema dottrinale chiuso per poi sostituirla - in una sorta di silenzio del pensiero e di ascetismo dell’efficienza fine a se stessa - con la tecnica. Quando è sistema dottrinale chiuso, richiede, pur in forme diverse nei vari casi, la fedeltà cieca dei suoi sostenitori. Quando diventa tecnica, può fare a meno di ogni consenso, limitandosi a imporre la logica dell’efficienza, della produttività, dell’ordine statico. In realtà, ogni sistema - sia esso costruito sull’ideologia o sulla muta funzionalità degli apparati - costringe e sacrifica la ricchezza della vita.
In tale situazione, lo sforzo estremo cui è chiamata la filosofia e che, in ultima analisi, rappresenta la condizione stessa che la costituisce come tale è la capacità di porsi in ascolto di questa ricchezza e di interpretarla senza tradirla o equivocarla, senza semplificarla in parole d’ordine gergali, senza dimenticarla a tutto favore di progetti astratti e futuribili. Qui sta la base della politica modesta di Camus (Sauver les corps, Camus 2008, p. 440), quella che non ambisce a ricercare e definire l’«assoluto» e a sostituirsi, in ciò, agli individui:

La politica non è la religione o, allora, è inquisizione. Come potrebbe la società definire un assoluto? Ciascuno, forse, lo cerca per tutti. Ma la società e la politica hanno il solo compito di regolare gli affari di tutti perché ciascuno abbia il tempo e la libertà di questa ricerca comune (L’homme révolté, Camus 2008, p. 320).

Il rapporto più diretto, per un’intellettuale militante come Camus, è con la realtà, con i fatti, con gli eventi, con gli esseri umani e con il destino che a loro ci unisce; non con i libri. Questo ispirarsi all’esperienza, alla vita vissuta, alla sua concretezza, questo anti-intellettualismo così pronunciato, sono la sostanza viva della filosofia di Camus e, segnando la distanza enorme rispetto alle utopie della fuga dal reale, ci danno il senso preciso della modestia che egli attribuisce alla sua utopia: qui modestia sta ad indicare il piegarsi umile, attento e paziente sulla realtà, con tutte le contraddizioni che la caratterizzano, pur senza lasciar cader però la tensione ideale verso la cura, faticosa, lunga, paziente (il cui eroe è senz’altro il dottor Rieux ne La peste), dei mali - non del male - nel mondo. La definizione di filosofia dell’esistenza e dell’esperienza si adatta, a mio avviso, molto bene a Camus, che all’esistenza guarda senza essere esistenzialista e all’esperienza fa riferimento senza essere un empirista. Se si toglie via il nesso tra esistenza e pensiero, se s’ignora la tensione tra la vita e la forma ‒ tensione che si può cercare di ridurre ma giammai di eliminare ‒, se si sottovaluta il continuo alimentarsi della riflessione alla concretezza degli esseri umani in carne e ossa, se ci si limita a classificare come pura retorica l’avversione di Camus per la filosofia cattedratica, non si arriva alla radice e al senso proprio del suo essere filosofo. Un senso che è incompatibile non con la filosofia, ma esclusivamente con lo spirito e con i modi tipici dei filosofi di professione che, si potrebbe dire, stanno alla filosofia come i rivoluzionari di professione stanno alla rivolta: la tradiscono perché dimenticano il soggetto vivente.


6. Sintesi sull’utopia in Camus

Almeno due forme dell’utopia scarta come incompatibili con il suo pensiero:
- l’utopia come evasione dalla realtà della storia, quindi anche la sua componente di gioco intellettuale, di divertissement dell’immaginazione, di racconto fine a se stesso, che dalla realtà cerca di distrarci salvo poi farci ripiombare nei suoi drammi non appena il viaggio immaginario è stato tutto percorso;
- l’utopia intesa in un senso diametralmente opposto a quello precedente, cioè l’utopia come forma di pensiero particolarmente affine al clima spirituale e culturale della secolarizzazione; in questo caso l’utopia tende a prendere il posto delle religioni nel momento stesso in cui ne immanentizza i contenuti, delinea un corso della storia e un suo esito che, lungi dall’essere fughe dalla realtà verso l’evasione fantastica, sono invece modelli della società futura la cui descrizione pretende prepotentemente alla realizzazione dell’ideale prefigurato; il campo di questa forma di utopia è, notoriamente, non tanto la letteratura ma la filosofia; e se Marx, come Camus sostiene, è sulla scia di Hegel la figura emblematica di questa forma mentis, il comunismo, quale si è attuato nella storia del Novecento, ne costituisce la più conseguente realizzazione storica. Questa forma di utopia è intrinsecamente totalitaria perché ambisce a farsi storia, a plasmare istituzioni, ordinamenti, leggi, modi di comportamento, insomma a costruire la società perfetta abitata da uomini sottratti ormai a ogni contraddizione e a ogni male. Agevole, ma anche superfluo in questa sede, accostare Camus a Popper, argomento che peraltro non rientra tra gli obiettivi specifici di questo breve articolo. Si può dire che tutta la riflessione etico-politica di Camus sia rivolta contro questo genere di utopia, perché non fa i conti con quella finitezza e con quella ineliminabile contraddittorietà della natura umana su cui il filosofo francese ha puntato con estrema decisione la sua polemica e sulla quale ha costruito la sua utopia modesta.
Se l’aggettivo, “modesta”, dice del limite intrinseco ad ogni progettualità umana, il sostantivo rinvia invece alla prospettiva, possibile e perciò doverosa, della garanzia sempre migliorabile dei diritti incrementi alla dignità umana: “diventa ciò che sei”, scelto da Camus come massima in un certo senso sintetica di tutto il suo impegno intellettuale, può essere allora assunto un po’ come il motto sintetico della componente utopica presente nei suoi scritti più specificamente politici, primo tra tutto L’uomo in rivolta.
Ma se quest’interpretazione è dotata di qualche plausibilità, ne deriva che può essere posto un nesso molto stretto, benché non reso esplicito e speculativamente non approfondito da Camus, tra utopia e rivolta. Se la rivolta designa il rifiuto dell’essere umano di non farsi prigioniero dell’assurdo e di porsi di fronte ad esso senza speranza ma anche senza disperazione, la conseguenza è che l’utopia costituisce il coté politico della rivolta. È la rivolta alle prese con la storia, con le sue vicende, con i suoi orrori ma anche con le sue conquiste e chiama in causa la responsabilità di chi nella storia si trova a dover agire o patire. Il mondo perfetto non esisterà mai, ma un mondo migliore è possibile, è alla nostra portata. Ma non è già lì, fissato da una fantasia troppo fertile o irrigidito da un pensiero eccessivamente orgoglioso; è da fare, è affidato alla custodia dell’uomo perché lo renda più vivibile di quello che è stato e che è, e lo affranchi, in nome della libertà, dalla tenaglia che lo stringe tra capitalismo e comunismo dispotico, le grandi distopie cui ha dato luogo nel Novecento l’utopia messianica dei “Cesari” che dominavano e continuano a dominare il mondo. Il crollo dell’utopia comunista ha lasciato spazio potenzialmente infinito all’utopia della società opulenta. Ma la riduzione quantitativa dei nemici della società aperta non diminuisce, anzi sembra amplificare, l’impellente bisogno di un pensiero e di un impegno diretto verso l’emancipazione e non lo svilimento di milioni e milioni di uomini, donne, bambini oggi pellegrini in un pianeta in cui il futuro ha i colori terrei dell’oppressione che ha il terrificante potere di autoalimentarsi.


* Alcune parti di questo articolo sono tratte dal cap. IV di R. Gatti – M. Bartoni - L. Fatini, Un’utopia modesta. Saggio su Albert Camus, ETS, Pisa 2017. Il resto è inedito.



Riferimenti bibliografici

A. Camus (2008), Oeuvres complètes, ed. R. Gay-Crosier, Gallimard, Paris.



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