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Non è un paese per bambini?
Cenni su alcune recenti trasformazioni della letteratura distopica

MANUELA CERETTA
Articolo pubblicato nella sezione La distopia nel Terzo millennio

1. Parafrasando un durissimo film dei fratelli Coen (No country for Old Men), si potrebbe dire che la distopia non è un paese per bambini o, per lo meno, che essa non lo è stata nel Novecento. I suoi terrificanti mondi di rado li hanno inclusi e, laddove lo hanno fatto, li hanno per lo più relegati a ruoli marginali, con l’unica eccezione di The Lord of the Flies di William Golding. Il che è per certi versi paradossale se si riflette sull’intima vocazione pedagogica che caratterizza tanto la letteratura utopica, nella sua duplice declinazione (utopico e distopica), quanto quella per l’infanzia. Ma il paradosso è la cifra dell’utopia e non ci deve stupire che persino nel Paese che non c’è, dove le istituzioni e le proposte pedagogiche abbondano, i bambini scarseggino (cfr. Moneti 1992).
Nonostante l’utopia nasca nel Cinquecento come gioco, divertissement letterario fra intellettuali raffinati, l’incontro fra utopia e infanzia avviene solo due secoli più tardi. Il Settecento tiene infatti a battesimo sia la nascita di una letteratura specializzata per l’infanzia, fatta di fiabe, racconti e libri istruttivi (cfr. Trisciuzzi - Cambi 1989, p. 59) sia l’incontro fra bambini e utopia. Il primo libro scritto in inglese per bambini è infatti un’utopia, pubblicata nel 1749, intitolata The Governess, or Little Female Academy e firmata da Sarah Fielding (cfr. Gadeken 2003, p. 57). Se questo dato ci conferma quanto ci hanno insegnato Bronislaw Baczko e Franco Venturi e cioè che il secolo dei lumi è stata l’epoca che più di ogni altra ha esplorato le potenzialità del raccordo fra riforma, speranza e immaginazione politico-sociale (cfr. Baczko, Porret, Rosset 2016) spingendolo oltre i confini del tempo presente - L’an 2440. Rêve s’il en fut jamais (1771) - e al di là dei limiti dell’età adulta, esso non ci dice però molto di più: l’incontro fra letteratura utopica e letteratura per l’infanzia è stato, di fatto, un incontro occasionale perché le utopie, che sono sempre anche libri di riflessione critica sui sistemi, le categorie e gli istituti pedagogici, sono generalmente testi sui bambini, nel senso che contemplano visioni antropologiche e pedagogiche (cfr. Pancera 2000), ma di rado testi per bambini, ovvero scritti con «in mente l’infanzia» (Grilli 2018, pp. 21-57). E il motivo di ciò va ricondotto a quelle che sono state le caratteristiche intrinseche della scrittura utopica, cioè il suo essere al contempo scrittura “obliqua” e “politica”, capace di mescolare sapientemente il serio e il faceto (cfr. Ginzburg 2002). Ogni utopia è frutto di immaginazione, è una creazione non arbitraria, è un gioco, è espressione di libertà, ma un gioco con delle regole: «i confini della terra di utopia sono vasti ma non infiniti» (Kumar 1995); ed è un gioco che si fonda su una scommessa: che le idee possano cambiare la società, che il ruolo degli intellettuali sia quello di cambiare un mondo sbagliato e ingiusto attraverso quella leva potente che è l’immaginazione politica, raccontando storie verosimili, per gettare immagini che lavorino nelle coscienze, per esprimere l’eterna aspirazione umana a modificare il mondo, a migliorarlo, perché l’uomo è un «animal utopique» (cfr. Abensour 2013).
Allorché tra la fine del XIX secolo e i primi decenni del Novecento, l’utopia ha ceduto il passo alla distopia, l’universo infantile è rimasto il grande escluso della narrativa distopica, che alle soglie dell’infanzia si è arrestata. Non una delle opere che hanno fatto la storia della distopia del Novecento è stata pensata come testo per bambini. Persino La fattoria degli animali, che pur nella sua perfezione allegorica si presta a essere piacevolmente fruita anche da un lettore completamente ignaro della parabola involutiva della rivoluzione russa, come Orwell stesso si era premurato di verificare al termine della prima stesura (cfr. Crick 1991), è un’opera così densa di riferimenti storici concreti da risultare ostica a una lettura non superficiale anche per gli studenti universitari. Intellettuali e letterati engagés, testimoni e attori delle grandi trasformazioni del secolo breve, le donne e gli uomini che hanno firmato i classici della distopia novecentesca sentivano la scrittura come impegno militante in un scontro in cui la posta in gioco era la sopravvivenza dei valori e della civiltà occidentale. Scegliendo la forma del romanzo distopico, gli Autori e le Autrici delle distopie del secondo millennio avevano la ben precisa intenzione di esplorare le potenzialità persuasive del romanzo politico per raggiungere una più ampia cerchia di persone, ma concepivano tale cerchia come una cerchia di lettori adulti. Il bersaglio principale, anche se non unico, dei loro scritti erano il totalitarismo e le sue incarnazioni storiche, rese particolarmente minacciose dagli straordinari sviluppi tecnologici in atto nei primi decenni del Novecento (cfr. Claeys 2016; Gottlieb 2001). È all’indirizzo di lettori adulti intesi come concrete soglie di resistenza contro il totalitarismo che scrivono, a ridosso della rivoluzione di Ottobre, l’ingegnere navale russo Evgeny Zamjatin e quindici anni più tardi, in piena epoca staliniana, Ayn Rand; è a fronte della allarmante ascesa del partito fascista di Oswald Mosley e dello spettacolo minaccioso della nazionalizzazione delle masse e dell’imporsi del nazionalsocialismo di Hitler che scrivono la futura Presidentessa del PEN, Margaret Storm Jameson, Katherine Burdekin e Günther Anders (che avrebbe rimaneggiato la sua Catacomba Molussica, scampata, quasi per miracolo, al sequestro della Gestapo, fino al 1938); è soverchiati da un sentimento di impotenza, che condurrà entrambi al suicidio, che Karin Boye e Stig Dagermann restano spettatori della tragedia della seconda guerra mondiale dalla tutt’altro che rassicurante politica neutrale della Svezia. E, dopo il ’45, sarà la caccia alle streghe comuniste dell’America del senatore McCarthy a destare le preoccupazioni di Ray Bradbury; e sarà la convinzione che «anything could happen anywhere, given the circumstances» (C. A. Howells 2006) ad armare la penna della canadese Margaret Atwood, durante il suo soggiorno nella Germania divisa dal Muro di Berlino, sollecitandola a immaginare il profilarsi dell’impero totalitario, fondamentalista e maschilista di Gilead nell’America che avrebbe dovuto essere la terra di utopia e la patria del Bill of Rights.
È un mondo adulto quello della distopia novecentesca, violento e crudele, sconvolto da guerra, fame, prevaricazione, menzogna, pianificazione esasperata, condizionamento, propaganda, discriminazione di genere e di razza, che pensa all’infanzia in termini poco edulcorati e non partecipa a quelle forme di idealizzazione che dal romanticismo in poi ne hanno caratterizzato la concettualizzazione (cfr. A. James, C. Jenks, A. Prout 2002). Un esempio su tutti: i bambini di 1984 che sono complici, parte attiva ed integrante, dei crimini di Oceania, come dimostra il tragico epilogo esistenziale del compagno Tom Parsons, il vicino di casa di Winston Smith, che sarà denunciato dalla figlia minore perché ritenuto colpevole di psicoreato nel sonno. Nel Novecento distopico, l’infanzia, nelle sue rare apparizioni, appare insomma essere terreno di coltura ancor più fertile dell’età adulta, perché più facilmente plasmabile ad immagine e somiglianza dell’ideologia dello Stato totalitario, per quell’opera di svilimento e ottundimento della coscienza e del giudizio critico che il totalitarismo realizza e sul quale la distopia punta il dito. Non più generoso, peraltro, sarebbe stato il giudizio di William Golding: i piccoli naufraghi di Il Signore delle Mosche, opera scritta al termine della Seconda guerra mondiale, che ci ammoniscono contro la fragilità della ragione e la precarietà delle istituzioni civili e sociali, negano alla radice il mito dell’innocenza infantile. Ralph, Piggy, Jack e Simon (che nei loro comportamenti sono più simili ad adulti rimasti privi di sostanza etica e di radicamento istituzionale), sono una condanna a tutto tondo dell’umano, un modello negativo di ciò che l’uomo rischia sempre di diventare (cfr. H. A. Talon 1966).
Diversa, se non opposta, per tema ma non per segno, l’impronta lasciata sulla distopia novecentesca da Aldous Huxley, forse il più visionario fra gli Autori fin qui menzionati nel modo di pensare e rappresentare il mondo del futuro e la centralità dell’infanzia in esso. Nel riflettere sugli sviluppi culturali, tecnologici e scientifici che contraddistinguono la fine degli anni ‘20 sullo sfondo dell’“imperativo” che connota la modernità politica - quello della ricerca della felicità - Huxley immagina una società futura che ha cancellato la libertà, il giudizio critico, la letteratura e il silenzio attraverso la creazione di un mondo di adulti-bambini. Se c’è una distopia novecentesca che non relega a un ruolo di secondo piano i bambini, essa non è il Signore delle mosche, ma Brave New World fra le cui pagine emergono i contorni di una società planetaria formata da adulti-bambini. Huxley descrive una società che ha scelto di non pagare i costi della libertà, che ha optato per l’asservimento attraverso un uso spregiudicato e pervasivo di strumenti biopolitici (l’eugenetica è stata messa al servizio del depotenziamento dell’uomo) e di politics of entertainment, decisa a sacrificare la libertà in nome di quel «padrone esigente» che è la felicità, ridotta a consumo, godimento, abbondanza e sazietà (Huxley 2015, p. 185). Interrogandosi sui «nuovi volti della schiavitù» (Smith 2011) e immaginando le molteplici maschere dell’asservimento e le possibili forme di svilimento della libertà così come i suoi surrogati, Huxley esplora i rischi dell’eudemonismo sociale, ipotizzando l’ultima, definitiva, «rivoluzione davvero rivoluzionaria», quella antropologica, «realizzata non nel mondo esterno ma nelle anime e nella carne degli uomini» (Huxley 2015, p. 218).
“No leisure from pleasure”: nessuna dilazione tra un desiderio e la sua realizzazione, nessuno scarto tra felicità e piacere. Brave New World sonda i rischi del piacere e i pericoli dell’abbondanza, dipinge una società oppressiva che ha riconosciuto che la leva di oppressione più efficace è il piacere, ha cioè appreso la lezione del Grande Inquisitore: «Noi li costringeremo a lavorare ma nelle ore libere dal lavoro ordineremo la loro vita come un gioco infantile, con canti infantili, con cori e con danze innocenti. Oh, concederemo loro anche il peccato, perché sono deboli e inetti [...] daremo loro la felicità degli esseri deboli, quali essi sono stati creati» (Dostoevskij 2014, p. 345). Ma quello che nei Fratelli Karamazov era stato un rapido riferimento, diventa con Huxley una riflessione sistematica: la peculiare natura della debolezza umana ha un nome preciso, si chiama edonismo e si concreta nella inveterata ricerca della natura umana di quei mediocri piaceri e quelle fugaci distrazioni che la vita riserva. Il capolavoro realizzato dai governatori mondiali, che hanno imposto il dovere di «essere infantili, fosse pure contro la loro inclinazione» (Huxley 2015, p. 77) è dunque quello di aver trasformato gli abitanti di Brave New World in «adulti intellettualmente e durante le ore di lavoro» e in «bambini quando si tratta di sentire e di desiderare» (ibidem). Nessuna pausa di silenzio né di riflessione tra il lavoro e lo svago, nessun tempo morto dall’impegno professionale al gioco. Con quasi un secolo di anticipo Huxley aveva intravvisto quello che oggi la sociologia dei processi culturali indaga: lo spettacolo inquietante dell’infantilizzazione degli adulti, dei ‘kidult’ e degli ‘adultescent’, che fa sì che «atteggiamenti infantili e modelli di vita adolescenziali vengano costantemente promossi dai media e tollerati dalle istituzioni» e che «il perdurare di comportamenti infantili in età adulta sembri aver perso qualsiasi connotato clinico ed essere diventato un ideale connesso alla spensieratezza, il divertimento e il rifiuto degli obblighi sociali» (Bernardini 2012). Con Kant, che rappresentando la libertà come autonomia, aveva affermato che la libertà è una faccenda da adulti ai quali spetta il compito di uscire volontariamente dalla minorità - compito tutt’altro che banale perché pigrizia e viltà solleticano uomini e donne a rimanere per l’intera vita minorenni: «è così comodo essere minorenni!» (Kant 1977, p.51) - Huxley rappresenta gli abitanti di Brave New World come servi volontari ed eterni bambini, ingenuamente convinti di essere liberi e felici (Ceretta 2019).
Facendo del piacere, dello svago e dell’abbondanza degli ingredienti fondamentale della società distopica del futuro, Huxley ha inaugurato un filone distopico la cui influenza risuona più forte nella distopia del terzo millennio che non in quella del secondo millennio, certamente più debitrice nei confronti di Orwell. È il filone di cui Michel Houellebecq con Sottomissione e J.C. Ballard con Regno a venire si sono fatti interpreti, mettendo in luce la ricerca insensata del divertimento e la fuga dal pensare, fissando la propria attenzione sull’imperativo categorico di quegli animali perennemente desideranti che sono gli uomini e le donne: divertirsi innanzitutto! (cfr. Deery 2005; Postman 2008). Ciò che questo filone distopico postmoderno profila è la graduale polverizzazione del tessuto sociale per il combinarsi congiunto di passioni individualiste e narcisiste e per l’imporsi di un sentimento d’indifferenza verso gli altri, verso il mondo e verso la politica, il cui è corollario è evidentemente l’emergere di privatopie e di utopie declinate sul singolo. L’acuto libro di M.T. Anderson, Feed, scritto e dedicato ai giovani lettori, ne è uno degli esempi più riusciti: in un futuro lontano, povero di aria, un dispositivo “feed”, impiantato nel cervello di ognuno, consente a tutti i protagonisti - degli adolescenti - di chattare, ascoltare musica, ma li espone anche a un bersagliamento ininterrotto di offerte pubblicitarie sempre più mirate e irresistibili, in una società intellettualmente apatica in cui il No-Speak ha rimpiazzato il Newspeak (cfr. Morrissej 2013, p. 195), che ha fatto del consumismo e dell’edonismo i suoi unici valori (cfr. Anderson 2002).

2. «You may lead a child into the darkness, but you must never turn out the light» (Hughes 2003, p. 156) questo principio-guida della scrittrice Monica Hughes - autrice di diversi romanzi per ragazzi a carattere distopico con protagonisti dei bambini - ci conduce dritti al cuore delle trasformazioni che hanno riplasmato la letteratura distopica nell’ultimo trentennio.
Prima di osservarle più da vicino vale la pena di richiamare un dato non trascurabile: a dispetto delle fosche previsioni di vendita del settore di libri per l’infanzia, gli ultimissimi anni del Novecento e i primi del terzo millennio hanno mostrato una crescita esponenziale delle vendite, che è andata al di là di ogni aspettativa: il requiem per la morte dei libri, killed per mano di video assassini, per riprendere una celebre canzone del 1979, è decisamente suonato invano. Il successo planetario della saga di Harry Potter, inaugurata nel 1997 con la pubblicazione di Harry Potter e la pietra filosofale, ha dimostrato che i giovani lettori rappresentavano una fetta di mercato le cui potenzialità espansive erano enormi (cfr. Zipes 2002) e ha aperto la strada al proliferare di una narrativa distopica (non sempre di qualità, che ha spesso sfruttato formule di successo, moduli ripetitivi e orientamenti commerciali) che nei libri ha trovato il suo primo luogo di espressione (si pensi alla trilogia di Hunger Games e a Divergent, Insurgent, Allegiant per menzionare solo i titoli più noti e acclamati) e nei giovani lettori il suo luogo di elezione (cfr. Beseghi 2018, p. 62).
In parallelo con questo sviluppo imprevisto della narrativa per bambini e per ragazzi si è registrato un altro significativo cambiamento che ne ha investito i contenuti, segnati da una crescente politicizzazione grazie anche all’affacciarsi «delle letterature della diaspora, dei modi e delle tematiche della narrativa d’emigrazione e post coloniale», alle quali scrittori di talento del calibro di Grossman, Oz, Ben Jelloun hanno prestato la propria penna (cfr. Beseghi 2018, p. 81). La letteratura per bambini e per ragazzi si è così mostrata sempre più incline a far propri oltre ai grandi temi morali che l’hanno storicamente connotata (lo scontro fra Bene e Male, che ha comunque continuato a esserne uno degli assi portanti, ne è indice la battaglia fra Harry Potter e Voldemort, che si sviluppa lungo i sette volumi della saga del celebre mago, e che proprio con la parola ‘bene’ termina) anche le principali sfide politiche attuali. Fra questi temi hanno dominato l’incontro-scontro con l’Altro, sia esso uomo o animale, si pensi allo straordinario successo di un’utopia illustrata per bambini, intitolata Dinotopia, dove James Gurney ha moreanamente giocato sull’ambivalenza del termine deinos-topia nel senso di luogo terribile, spaventoso, e di dino-topia, nel senso di luogo dei dinosauri; l’insostenibilità del nostro stile di vita, l’esaurimento delle risorse del pianeta, si pensi a The Carbon Diaries 2015 and 2017, il degrado ambientale e il cambiamento climatico sul quale si è sviluppata un’intera narrativa (cfr. Von Mossner 2013; Oystry 2013); o, ancora, l’uscita dal controllo umano della tecnologia e dell’intelligenza artificiale. Su quest’ultimo fronte, tuttavia, è stata la serie televisiva Black Mirror a offrire il contributo forse più intelligente e certamente più inquietante, spaziando dai rischi della spettacolarizzazione della giustizia nelle nostre società-spettacolo nell’agghiacciante “Orso bianco”, al micidiale connubio fra anonimato, irresponsabilità e pratiche persecutorie rese possibili da internet nell’inquietante “Odio Universale”; dalla degenerazione patologica delle forme di riconoscimento sociale (i likes) in un mondo iper-connesso in cui ognuno può votare la popolarità degli altri illustrata in “Caduta libera” fino alla commistione tra la fragilità emotiva che travolge coloro che sono colpiti da perdite e lutti e le inedite possibilità tecnologiche di costruirsi dei surrogati attraverso quel bacino di memorie che sono i social nello straordinario “Torna da me”. Rivisitando un tema classico della distopia novecentesca, la trilogia di Scott Westferl, Uglies (tradotta in italiano da Mondadori e raccolta in un solo corposo volume intitolato: Beauty. Brutti, perfetti, speciali), ha declinato in forma aggiornata gli imperativi conformistici che tocquevillianamente affliggono le culture di massa e che nelle società contemporanee si configurano come imperativo della bellezza a tutti i costi, immaginando una società in cui all’età di 16 anni, ragazzi e ragazze, gli uglies, sono costretti a sottoporsi a interventi di chirurgia plastica per adeguarsi ad ideali estetici imposti dall’alto. Mentre la crescente ossessione salutista, quella che Lucien Sfez ha chiamato l’utopia della «salute perfetta» (Sfez 1999), con il suo bastione carico di derive biotecnologiche e relativi dilemmi etici, ha aperto nello struggente romanzo di Ishiguro, Non lasciarmi, la possibilità di creare in laboratorio esseri umani destinati a fornire «pezzi di ricambio» per organi malati (tema questo che ha trovato espressione anche nel popolarissimo The Giver).
La prodigiosa proliferazioni di temi e soggetti a carattere distopico e l’apertura a un universo di piccoli e giovani lettori ha influito sulla trasformazione del genere, che ha esibito in modo sempre più consistente un carattere inizialmente peculiare alla scrittura distopica femminile: la presenza di finali aperti ed enigmatici, compatibili con quelli che sono i tratti costitutivi della letteratura per l’infanzia, spaventare e avvertire, condivisi dalla letteratura distopica: «Dystopias matter because they make us think. They help us to imagine and envisage how the present can change into something very nasty. They tell us what’s wrong with the now, and they imagine how things could (easily) become much worse. [...] Dystopias thus interrogate the now and offer warnings and sometimes prophecies about the future» (Sargisson 2013; R. Baccolini, T. Moylan 2003).
«Per statuto la fiaba e la letteratura per l’infanzia, nella loro accezione più ampia, si occupano di metamorfosi: al loro interno tutto si modifica, si trasforma, cambia aspetto e natura» (Antoniazzi 2018, p. 187): se il cambiamento è la cifra dei mondi letterari infantili, la staticità e l’inerzia insieme alla loro emozione gemella, la rassegnazione, ne sono l’antitesi. Tutto viene rimesso in gioco nella letteratura per l’infanzia anche le paure, che sublimano in qualcosa di diverso. Così l’anti-eroe della distopia novecentesca, le sue sconfitte e il suo senso d’impotenza (cfr. Manferlotti 1993) cedono il passo nella distopia per bambini, adolescenti e Young Adults a piccoli, attenti, eroi quotidiani - è la proclamazione del “child power” - capaci di allearsi e collaborare, di pensare al di fuori degli schemi e delle aspettative che gli adulti hanno gettato sulle loro spalle. La distopia per bambini e Young Adults funziona come “cautionary tales” ma anche come spunto di riflessione sulla società, il suo funzionamento, le sue distorsioni e le sue iniquità. Essa invoca il cambiamento, dipinge scenari prossimi e futuri orribili come invito urgente a farsi parte attiva della trasformazione e consegna le chiavi di questa trasformazione ai suoi giovani protagonisti, cui ricorda che quegli scenari sono il prodotto di scelte umane funeste. Meno lineari e meno tragiche delle distopie del secondo millennio, che hanno portato alle loro estreme conseguenze i presupposti teorici su cui erano state costruite, le distopie contemporanee per bambini e adolescenti mostrano degli andamenti più oscillanti, ambigui ed esitanti, che indicano la volontà delle loro Autrici (che ad oggi sono la voce più significativa: J.K. Rowling, S. Collins, V. Roth, L. Lowry ecc.) e dei loro Autori di inviare un messaggio che non suoni disperato o nichilista. Finali aperti che rappresentano le molteplici possibilità di sviluppo di mondi rappresentati come passibili di evolvere in una direzione o un un’altra. Questi finali delineano però anche l’esplorazione di nuove potenzialità all’interno del genere narrativo distopico, che invita i giovani lettori a immedesimarsi per trovare soluzioni alternative, in una logica “interattiva”, che costituisce una sfida inedita e un interessante terreno di sperimentazione per Autrici e Autori cui spetta il compito, non facile, di evitare di cadere nella contraddizione rispetto alle premesse distopiche del romanzo, disseminando aperture possibili lungo la trama, così da non arrivare a negare le premesse su cui si fonda lo scenario distopico. Ecco perché, sebbene abbiano in sé il germe della disperazione, magari celata sotto la patina di un benessere e di una felicità superficiali, le distopie del terzo millennio promettono speranza, dicono che il cambiamento è possibile, persino nelle peggiori circostanze, se collaborazione, responsabilità e impegno verranno mantenuti (cfr. Basu 2014, p. 3; Sargisson - Levitas 2003).
Tale caratteristica non ha peraltro mancato di sollevare anche diverse critiche: è stato rimproverato a questi racconti e indirettamente alle loro Autrici/Autori di finire per essere poco consequenziali e non del tutto convincenti, poco logici, a tratti al limite del miracoloso (cfr. Sambell 2003, pp. 172-173). Se Sambell ha ragione nel sottolineare questo rischio, non bisogna dimenticare che sia Zamjatin che Orwell, seppur a piccole dosi, non avevano resistito a introdurre nei loro desolanti racconti qualche minuscolo seme di speranza, così come, del resto, aveva fatto anche Katharine Burdekin. La Grande Operazione, con l’estirpazione chirurgica della fantasia, aveva posto fine alla ribellione e ricondotto D-503 sotto il giogo della ragione e del Benefattore, ma prima di essere sottoposto all’intervento, egli aveva fatto in tempo a portare al di là del Muro verde O-90, la donna che portava in grembo il figlio (cfr. Zamjatin 2013, pp. 153-4; p. 161). Il desolante epilogo di 1984, «Ora amava il grande fratello», sembra non lasciar spazio alla speranza, ma - inspiegabilmente - l’appendice sulla Neolingua, collocata alla fine del romanzo, è scritta al tempo passato: «La Neolingua era la lingua ufficiale in Oceania... Fine della Neolingua era … quello di rendere impossibile ogni altra forma di pensiero», come se, dopo gli interrogatori di O’Brien, dopo la stanza 104, dopo la capitolazione di Winston e il tradimento di Giulia, ci fosse appunto un dopo, un tempo altro, dal quale i due minuti d’odio, lo psicoreato, le guerre fratricide, la puzza di cavolo per le scale, lo squallore e la Neolingua possano venire raccontati come si racconta un tempo che fu (cfr. Orwell 2001, p. 1219). Se la morte aspetta al varco Fred, il protagonista di Swastika Night, non sappiamo però cosa il futuro riserverà alla piccola Edith, cui va l’ultimo pensiero di Fred, in un finale che lascia appena ‘intravedere’ la speranza (cfr. Loche 2018, p. 149).
Certo, le tracce di speranza disseminate nella distopia novecentesca sono labili a confronto di quelle ben più visibili delle distopie per bambini. Un piccolo, riuscitissimo, esempio di questa tendenza è L’ultima stella a destra della luna di Silvana de Mari, autrice di libri molto conosciuti fra cui l’Ultimo Elfo, nonché traduttrice del primo volume della saga di Harry Potter. In un pianeta non ben precisato, due ‘razze’ di strane creature coi tentacoli, gli Yukon e gli Amir, rigorosamente separate nei loro spazi e nelle loro mansioni, si dividono in maniera iniqua le risorse, le comodità, i privilegi e le possibilità di vita che il pianeta offre. I contorni di questa società fondata su princìpi palesi di ingiustizia emergono man mano che leggiamo i brevi temi svolti dall’Allievo 4/6**5, gli esilaranti e severissimi giudizi della sua Maestra, Miss Star-One, e i commenti a margine di Individuo 678*20@6st, mamma dell’Allievo 4/6**5, a cui i temi devono essere consegnati per la firma dopo la valutazione. A giudicare dagli errori ortografici e di sintassi, dal lessico semplice e dai ragionamenti solo in parte sconclusionati, l’Allievo 4/6**5, autore dei temi, assomiglia molto a un bambino di prima elementare.
De Mari immerge i suoi piccoli lettori in una società distopica che si disvela attraverso lo sguardo ‘dislocato’ di un bambino, che fra lo stupito e il perplesso racconta il mondo che lo circonda via via che si cimenta con la composizione dei testi assegnatigli dalla maestra come compiti: “La tua scuola”, “La tua casa”, “La tua famiglia” ecc. Con felice ironia e procedimento simile alle Lettere persiane, recuperando la «poetica del punto di vista infantile», lo sguardo ‘alieno’ dell’Allievo 4/6**5 rileva le assurdità e le iniquità del paese dove abita (cfr. Grilli 2018, pp. 28-34). Le indica posandovi uno sguardo lieve (che nulla ha a che vedere l’acredine di Winston Smith o il livore invidioso di Bernardo Marx), non oggettivo, che trasfigura la realtà e sa vedere la bellezza anche dove non c’è, lo sguardo infantile di chi non ha mai conosciuto nulla di diverso eppure coglie la profonda ingiustizia della sperequazione distributiva delle risorse. La sua scuola è ricoperta di pericolose piante carnivore, la sua casa si trova in paludi infestate di alligatori assassini, topi e ragni, in un luogo tecnologicamente regredito, senza elettricità e senza riscaldamento, dominato da un Governo che ha imposto tasse sul parto e sui funerali, sugli animali domestici, sulle uova, sul miele e sui ribes, su tutto eccetto che sull’aria, da qui il ritornello continuo «ma su questo bisogna pagarci le tasse». Le miniere di plutonio e di sale sono l’unica occupazione possibile per gli Yukon, le madri vi lavorano dal mattino alla sera, mentre i padri vi restano tutto l’anno ad eccezione del giorno del TuttoVaBene, quando possono rientrare a casa. L’ideologia dominante ha indotto i bambini Yukon a credere che senza lo sbalzo termico si ammalerebbero, che se mangiassero i biscotti più di una volta all’anno comprometterebbero la loro salute e li ha spinti a ritenere che i giocattoli potrebbero annoiarli a morte, nel vero senso dell’espressione; eppure non li ha convinti fino in fondo: «io credo che un pochino ci potrei giocare [con l’astronave con l’elastico] senza morire, magari uno di quei giorni che piove e si sta a casa al buio a sentire la pioggia che cade» (de Mari 2015, p. 32).
Come in Noi, Anthem o The Handmaid’s Tale, i nomi sono stati aboliti, il nonno dell’Allievo 4/6**5 incarna la memoria storica di un tempo precedente la Legge dell’Ordine, un tempo in cui gli abitanti del pianeta avevano nomi, cose e prospettive. Il decimo testo dell’Allievo 4/6**5, «Ultimo giorno di scuola: considerazioni sull’anno appena trascorso», introduce l’imprevisto: l’anno scolastico è finito anzitempo perché il governo ha scoperto che Miss Star-One non si è attenuta ai programmi ministeriali, che prevedono che gli Yukon imparino unicamente a leggere la Legge dell’Ordine e a compilare i moduli dell’Ufficio Tasse Tributi. La maestra è stata spedita nelle miniere di plutonio insieme al preside, colpevoli entrambi di aver chiesto ai bambini Yukon di svolgere i temi per imparare a pensare e di aver quindi messo in pericolo la stabilità del pianeta. L’evento scatena la resistenza degli Yukon, è proprio l’Allievo 4/6**5 ad accendere la miccia da cui si propagherà la rivolta. Gli Yukon decidono di continuare a svolgere i temi (dopo averne rubato la lista e anche se nessuno li correggerà) attraverso la lettura dei quali scopriamo come si evolve la protesta: essi cominciano a reclamare i nomi, di seguito orari di lavoro meno pesanti e così via, in un crescendo di conquiste che li porterà prima a scoprire che Yukon e Amir non appartengono a razze diverse ma crescono con alimentazione così differenti da finire per sembrare razze diverse, poi a guadagnare orari di lavoro più umani e, infine, a far tornare Miss Star-One a scuola.
La contaminazione fra letteratura per l’infanzia (quella vera che «funziona per tutti», che è amata da grandi e piccini, e non è «esclusivamente per l’infanzia» [Grilli 2018, p. 23]) e la distopia celebra, in sintesi, come dimostra anche il testo di de Mari, l’incontro fra due mondi cangianti, quello dell’infanzia, che si caratterizza per l’enorme plasticità rispetto all’ambiente esterno, per l’inclinazione a credere nella natura metamorfica di ogni cosa, e quello della distopia che in modo dinamico sviluppa sempre l’interrogativo “che cosa accadrebbe se”.
Per concludere questo excursus e tirare le fila della riflessione fin qui accennata si può dire che la fortuna di alcune distopie per bambini e la sfortuna di altre ci ricorda, in primis, che i bambini non sono un “recipiente” cui destinare consigli altamente istruttivi o un bersaglio di strategie di mercato sempre più invasive e penetranti nella logica commerciale dei “piccoli consumatori crescono”, ma un soggetto che legge, decide, sceglie e fa propri libri e racconti oppure li scarta e li rifiuta seguendo sue logiche proprie: come ci ha insegnato Paul Hazard, i bambini si “conquistano” i libri e vale la pena di ricordare che nel Settecento non fu l’utopia di Sarah Fielding, a loro destinata, ad appassionarli bensì i Gulliver’s Travels di Jonathan Swift, bibbia dell’uomo disingannato (cfr. Grilli 2018, p. 84). In secondo luogo, questa letteratura distopica per bambini e adolescenti fa emergere una vocazione pedagogica in maniera decisamente più chiara che nella sua controparte novecentesca perché parla con i bambini (e con gli adolescenti) e non solo di bambini. In terzo luogo, proprio perché è una letteratura rivolta ai bambini e agli Young Adults, essa rinuncia alla disperazione, che l’ha storicamente caratterizzata, e si fa portatrice di un’idea di infanzia che ne sottolinea l’agency, il suo essere un soggetto capace di orientare cambiamenti e trasformazioni. Essa rivela fra le pagine di trame distopiche un sentimento utopico che la colloca a fianco di quel più generale riscatto della speranza e dell’utopia che ha segnato questi ultimi anni, dopo decenni di discussioni centrate sui rischi dell’utopia, in cui le voci della sociologia (Kumar, Levitas), della filosofia politica (Abensour, Cacciari) e della scienza politica (Cooper, Moyn, Bregman) si sono unite in un coro che ha ribadito l’importanza del ruolo dell’immaginazione politico-sociale e della speranza come vettori di cambiamento.
Come ha scritto Dominic Baker-Smith, l’obiettivo dell’utopia non è la costruzione di uno specifico stato sociale, bensì la conquista di una precisa disposizione mentale che guarda al presente come a qualcosa di dato in modo non definitivo (cfr. Baker-Smith 2011, p. 162). La distopia del terzo millennio riafferma questa caratteristica centrale dell’utopia e porta questa convinzione alle sue estreme conseguenze, ribadendo la convinzione che tutti, dai grandi e potenti decisori che agiscono sulla scena internazionale fino al più piccolo dei bambini, abbiano un ruolo attivo nel plasmare la fisionomia del mondo che verrà, attraverso le loro abitudini di vita, i loro modi di abitare il mondo e prendersene o non prendersene cura, la loro capacità di essere consumatori più o meno consapevoli, agenti o spettatori più o meno distratti della grandi trasformazioni in atto e della loro posta in gioco. Se quanto ha scritto Ágnes Heller (Heller 2016, p. 16) «le distopie sono creazioni dell’immaginazione che combinano alcune credenze della loro epoca con la passione della paura» è vero per le distopie del secondo millennio, lo è un po’ meno per quelle del terzo millennio perché questa letteratura distopica che ha eletto bambini ed adolescenti come suoi interlocutori privilegiati, elabora in realtà un discorso sulla speranza: «once ‘struck with hope’ for a more human world, children will want more» (Zipes 2003, p. xi).



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