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L'Utopia di Bacone come specchio dei rischi della contemporaneità

ANGELA ARSENA
Articolo pubblicato nella sezione Tra le righe

1. L'universo delle utopie è luogo di geometria rigorosa ed esatta che sembra voler richiamare il mondo reale, estendendolo o riducendolo ma sempre perfezionandolo ed a volte esasperandolo, spesso deformandolo, come in uno specchio curvo e dunque creando illusioni sensate e logiche.
E tuttavia nel mondo delle utopie non alberga il principio di non contraddizione e gli oggetti, le specie animali e vegetali, rispondono al volere e alle intenzioni dell'autore, acuto e onnisciente ingegnere che, come nuovo Adamo a cui è conferito il diritto di dare il nome alle cose, sceglierà ed imporrà la nomenclatura più adatta (cfr. Baldini 1974).
In tutte le utopie (come dinanzi allo specchio di Alice) sembra aver senso quanto dice Lewis Carroll:

«Quando uso una parola», Humpty Dumpty disse in tono piuttosto sdegnato, «essa significa esattamente quello che voglio – né di più né di meno».
«La domanda è», rispose Alice, «se si può fare in modo che le parole abbiano tanti significati diversi». «La domanda è» replicò Humpty Dumpty «chi è che comanda – tutto qui» (Carroll 1978, p. 203).

E chi comanda stabilisce il senso e le direzioni di un grande Piano Regolatore che gli uomini sono chiamati solo ad abitare, realizzando una duratura ed immutabile condizione di armonia e concordia.
Le utopie mettono in mostra e concretizzano il «vivere felici e contenti», consci che nulla possa intervenire a perturbare l'idillio tra l'uomo e l'altro uomo e tra l'uomo e la realtà circostante, perché tutto è stato preventivamente già pensato e previsto (cfr. Jacobelli 1989).
Il visitatore che nelle utopie letterarie si ritrova catapultato, talvolta a sua insaputa e malgrado la propria volontà, nel nuovo mondo, è gravido di domande e di perché che trovano sempre ed immancabilmente una risposta (cfr. Baldini 1994). Ed una volta placate le ansie, tutto nel mondo utopico si rivela perfetto: simbolo di poetica curvata secondo le diverse situazioni storiche, la letteratura utopica modifica la natura dei suoi prodigi e delle sue possibilità a misura delle mostruosità del mondo.
Le utopie sono il rovesciamento del Castello di Kafka dove all'agrimensore K. non è consentito entrare e non è consentito porre domande. Nelle utopie letterarie il visitatore è ammesso e le domande sono lecite, purché non si discuta mai la granitica risposta.
Le utopie hanno il compito di esorcizzare l'esistenza di un divario irriducibile tra reale e irreale: utopie e realtà, dunque, s'implicano e si significano reciprocamente, sebbene, nei mondi dell'utopia, mappamondi e planisferi, atlanti e persino una carta della Luna non bastino a dare una direzione.
Essa è sempre dettata dall'Architetto/Autore che ha stabilito la logica dell'immaginario la quale, pur non minando e pur non sovvertendo i passaggi della logica pura, celebra e realizza quella tenace falsificazione (o quella superiore autenticità) che dilata e respinge lo spazio e il tempo, realizzando “un attualismo” narrativo eterno e implacabile.


2. Nel mondo dell'utopia le azioni e i fatti sono infatti narrati all'indicativo presente: tutto è, nulla dovrà più compiersi, e il passato, scrive Bauman (2017), anche quando è inteso in maniera nostalgica e interpretato come età dell'oro, viene definitivamente risucchiato in un pozzo babelico senza fondo.
L'uomo delle utopie è ad una sola dimensione temporale, incurante in maniera a volte irresponsabile della possibilità che a questo presente, a queste azioni possa non corrispondere l'esito auspicato e atteso; incurante che ad un presente pensato, calcolato, possa non corrispondere il futuro sperato, perché, semplicemente, nel mondo delle utopie (e nel mondo delle ideologie politiche ad esso legato) l'esito delle azioni rimane prevedibile, al contrario del mondo reale dove alle azioni, anche le più virtuose, non corrispondono sempre gli esiti auspicati (cfr. Antiseri-Pellicani 1995).
E in questo unicum temporale, che ha annullato il passato riducendolo a prologo e ha fatto del futuro l'epilogo previsto, l'uomo delle utopie perdura e prospera, pressoché ignaro di una eterogenesi dei fini (cfr. Pellicani 2001).
Gli scrittori di utopie sono ingegneri di realtà che spalancano le porte del cielo e conducono, non senza stupri mentali, alla consapevolezza che un mondo migliore sia possibile, sia realizzabile, a volte con la semplice arte della parola, a volte con l'agilità e la seduzione delle profezie, dei delitti contro la verità, approfittando della latitanza dell'intelligenza e della latitanza del dubbio e della ragione, anzi asservendo la ragione stessa, lusingandola sino al punto da convincere la ragione a collaborare con gli intenti dello scrittore/filosofo/ingegnere e a farsi bassa manovalanza del grande piano regolatore.
I disegni utopici infatti sono ragionevoli all'ennesima potenza, talmente ragionevoli da fagocitare l'errore, la diversità, la titubanza, l'alterità, la complessità del reale: esse si srotolano con la perfezione delle regole del montaggio e della logica cinematografica, convertono la mente dell'uomo alla fede che un copione è già dato, è già scritto (cfr. Melchiorre 1970).
Questa perfetta, impeccabile e implacabile regia chiede solo che quel copione venga assecondato, lasciandosi trasportare da un nastro che conduce inesorabilmente verso una felice conclusione, a patto di non recitare a soggetto, di non improvvisare.
Le scritture dell'utopia, secondo Servier (1967), attraggono per un candore letterario che diventa candore esistenziale, e che mira a purificare, a rendere assolutamente bella e assolutamente linda ogni vicenda umana, anche la più refrattaria, soprattutto la più refrattaria, semplicemente annullandola, tacitandola, a volte annientandola.


3. Le scritture dell'utopia prevedono quasi sempre colonne d'Ercole da superare e guardiani a sorvegliare le entrate, rendendo poi impossibile l'uscita ma senza opporre grandi divieti, bensì seducendo con la convinzione di non potersi più privare di tanta gratuita, traboccante, tangibile felicità. Come un immenso Paese dei Balocchi, le utopie letterarie inducono alla permanenza, pena la morte, ma senza strali e senza urla: i guardiani dell'utopia fanno leva sulla gratitudine nei confronti della benevolenza dell'ingegnere che nulla tiene per sé ma tutto vuol realizzare per gli altri, regalando un benessere che diventa ben presto offerta che non può essere rifiutata, alla maniera mafiosa.
Persuasione e ragionevolezza, purificazione e benessere collettivo, distribuito equamente e spesso in maniera immeritata, diventano i pilastri narrativi dei grandi disegni utopici, e su di essi si poggia la spropositata fortuna che nei secoli questi racconti hanno raccolto, tanto da renderli strutture portanti di costruzioni ideologiche socio-politiche (cfr. Nozick 2008, p. 303).
La problematica allora sarà come leggere i grandi racconti dell'utopia, come pensarli e come interpretarli. Luciano di Samosata nel prologo delle sue Alethòn Dieghematòn, ovvero delle sue Storie Vere, che poi vere non sono affatto, dichiara apertamente: «queste storie, vere, sono false, ma io ho fatto ricorso a un falso molto più onesto. Io dichiaro a voce alta che mento. I miei lettori non devono credere nemmeno ad una parola». Se come epigrafe di ogni disegno utopico fosse giustapposto questo monito, forse allora il lettore potrebbe felicemente salpare insieme allo scrittore verso modelli mentali, verso paradigmi di finzioni scientifiche, verso realtà virtuali e virtuose, godendo del paesaggio, apprezzando gli slittamenti spazio-temporali, resi possibili soltanto con la machina ex litteris e con la sola scrittura, ma rimanendo sempre fermamente consapevole della fictio.
Del resto, Robert Musil, profeta dei rischi della modernità, angosciato per l'utilitarismo della scienza, scrittore quasi satirico nei confronti della tecnocrazia, spettatore perplesso di fronte alle nuove dinamiche del rapporto uomo-macchina, nell'Uomo senza qualità scrive senza indugi che «lo stivale delle sette leghe era più bello dell'automobile» proprio per assolvere e giustificare l'esistenza del fantastico e l'esigenza di salvaguardarlo come qualitativamente superiore alla realtà umana.
Il racconto fantastico e fantascientifico è quel racconto che introduce nelle vicende narrate elementi fittizi (ordigni, tappeti volanti, espedienti, fughe sul suolo lunare, escursioni in isole non registrate sulle mappe usuali) che il lettore riconosce come non reali, ma che concepisce al contempo come realizzabili. Umberto Eco in un'antologia di testi, dal titolo, non a caso, Sugli Specchi, dove decostruisce e ricostruisce le teorie letterarie circa la fantascienza e l'utopia, scrive che entrambe, come rappresentazioni falsate della realtà, appartengono alla lista delle letterature dell' impossibilia, e dunque rimangono distinte da una letteratura considerata realistica semplicemente perché mette in scena mondi «strutturalmente possibili», ovvero mondi abitati da controfattuali quotidiani (ovvero mondi retti da ipotesi del tipo “cosa accadrebbe se?”) o quantomeno riferibili alla realtà nella quale si è immersi. Tuttavia, spiegava il noto semiologo, il mondo delle utopie e della fantascienza può diventare (e spesso, nell'immaginario popolare, è diventato) un mondo strutturalmente possibile (e abitabile o auspicabile) soltanto quando il lettore (dietro il suggerimento dell'autore) riesce a porre controfattuali credibili:

il mondo di Esopo è strutturalmente diverso da quello reale solo dal punto di vista biologico o zoologico, il mondo degli imperi del sole e della luna di Cyrano di Bergerac presenta, rispetto a quello reale, notevoli differenze cosmologiche, mentre ciò che differenzia la Nuova Atlantide baconiana dal nostro mondo è essenzialmente la sua struttura sociale. Quindi diremo che il controfattuale su cui gioca la letteratura fantastica è di questo tipo: cosa accadrebbe se il mondo reale non fosse simile a se stesso, cioè la sua stessa struttura fosse diversa?La letteratura fantastica ha diverse vie davanti a sé [...]. Può immaginare che il mondo possibile narrato sia parallelo al nostro, esista da qualche parte benché ci sia normalmente inaccessibile. È questa la forma che assume normalmente il racconto utopico [...] questo mondo può essere esistito un tempo o può esistere in un luogo remoto dello spazio. Di solito costituisce il modello di come dovrebbe essere il mondo reale (Eco 2015, pp. 235-237).

Astronavi capaci di attraversare gli universi non esistono, ma hanno una loro plausibilità, così come non ci sono evidenze di un mondo altro, diverso da questo, il “migliore dei mondi possibili”, ma esso potrebbe rappresentare davvero una possibilità.
Una possibilità, giammai un'alternativa: con questa consapevolezza, accettando le regole fittizie ma plausibili imposte da uno scrittore di miti e di favole, il lettore sa e può godere di una letteratura sterminata, dove, scriveva il poeta e saggista francese Michel Butor

l'autore ha preso cura di non abbandonare la realtà se non in una certa misura, vuole prolungare la realtà, estenderla, ma non separarsene. Vuole darci un'impressione di realismo, vuole far entrare l'immaginario nel reale, anticipando sui risultati acquisiti. Un tale racconto colloca naturalmente la sua azione nel futuro. Si possono immaginare, partendo dalla scienza moderna nella sua accezione più larga, non solo altri apparecchi, ma delle tecniche d'ogni specie, pedagogiche, psicologiche, sociali [...] la garanzia scientifica può diventare sempre più precaria, ma è lei a costituire la specificità del racconto: una letteratura che esplora il campo del possibile, quale ci permette d'intravvederlo la scienza. È un fantastico inquadrato in un realismo (Butor 1961, pp. 198-204).

Partendo da questo assunto, la New Atlantis, concepita nel 1634 da Francis Bacon, si inserisce perfettamente in un quadro di letteratura non tanto e non solo utopica, bensì fantastica, dove ogni novità tecnica e tecnologica incontrata dai naufraghi ospiti dell'isola si giustifica con la validità di quell'insieme di dottrine che oggi chiamiamo scienza moderna e che l'autore e il lettore del tempo non avrebbero mai osato mettere in discussione.


4. Ma se in un primo tempo la Nuova Atlantide (Bacone 2009) affascina come lettura fantastica, subito dopo essa curva pericolosamente verso una proposta che non è più letteraria o immaginaria, ma diventa irrinunciabile proposta politica (De Michelis 2016).
Proprio dalla credibilità delle sorti sempre progressive della scienza deriva il disegno di Bacone che immagina una società perfetta nella quale gli scienziati, nuovi sacerdoti, traghettano l'umanità verso un imperturbabile benessere, raccogliendo i frutti di esperimenti che apparivano plausibili e che secoli dopo sarebbero stati in parte realizzati.
In questa analisi della Nuova Atlantide diventa opportuno partire proprio da quella che si presenta come un'appendice trascurabile all'opera ma che in realtà costituisce il fondamento del disegno utopico del filosofo inglese, dal titolo I portenti della natura, in particolare per l'utilità umana, e che consiste in un lungo elenco di prodigi della tecnica già in atto nell'isola di Atlantide, quali, tra tanti, il prolungamento della vita, la cura di malattie considerate incurabili, la mitigazione del dolore, la modifica dei lineamenti, la produzione di ricchi concimi per la terra, la trasformazione di sostanze crude e acquose in sostanze oleose e untuose, la produzione di nuove fibre, la creazione artificiale di illusioni dei sensi o di maggiori piaceri dei sensi, la produzione di cementi artificiali.
Non occorre sottolineare come la chirurgia o l'ingegneria abbiano reso possibile, nei secoli, queste realtà e come oggi esse appaiano conquiste quotidiane, ma per i lettori della Nuova Atlantide la mitigazione del dolore e la modifica dei lineamenti, ad esempio, apparivano alla stregua del racconto di razzi interplanetari degli odierni romanzi di fantascienza: una realtà possibile, plausibile, ma di là da venire.
Sarà Arthur Clarke, noto autore di fantascienza classica, caratterizzata dalla verosimiglianza scientifica (suo è il romanzo 2001, Odissea nello Spazio) a spiegare nel saggio Hazards of Prophecy: The Failure of Imagination come «qualunque tecnologia sufficientemente avanzata sia indistinguibile dalla magia» (Clarke 1962, p. 14), in questo riecheggiando quanto già scritto nel 1942 da Leigh Brackett per il quale «ciò che per l'ignorante è stregoneria, si rivela essere semplice scienza per l'istruito» (Brackett 1942, p. 39). Queste affermazioni, pronunciate da maestri del controfattuale fantascientifico, fanno leva sul pregiudizio popolare che a coltivare le scienze possano essere solo “addetti ai lavori” e che vi sia dunque una distanza incolmabile tra chi pensa, chi elabora teorie e chi semplicemente usa i frutti di questo lavorio mentale.


5. Ebbene, Bacone scrive per lettori che ritenevano realizzabili gli scenari futuristici prospettati eppure non disponevano di alcuna consapevolezza circa la loro attuabilità, in quanto la scienza rimaneva linguaggio esoterico per pochi.
Ma proprio per questo la lettura della Nuova Atlantide era ed è suggestiva, perché racconto credibile, verosimile, primo esperimento di letteratura fantascientifica e politica insieme, oseremmo dire.
La Nuova Atlantide, inoltre, rimane minuziosa descrizione di un'isola felice e questo espediente letterario, utilizzato frequentemente, è figlio di una tradizione che parte proprio da Omero quando stabilisce i contorni dell'isola dei Feaci come un fantastico mondo, circondato da un isolamento irreale e immune dai mali che tormentavano l'umanità, dove i personaggi principali (i naufraghi) appaiono alla stregua di deuterogonisti.
La vera protagonista della Nuova Atlantide, infatti, è l'Isola, così come, secondo Calvino (2002), Itaca, un'altra isola, rimane la vera protagonista di tutto il poema omerico: essa è la meta, seppure casuale, del viaggio, dove nulla ha una dimensione storica, ma, come nelle favole, tutto accade once upon a time, tutto è fuori dal tempo o fuori tempo, nel senso di inattuale, non contemporaneo, non ancora contemporaneo, per il lettore che accetta questa regola del gioco narrativo e vi si immerge.
La scelta di fare di un'isola teatro di mondi nuovi non è solo omaggio ad un felice e fortunato topos letterario, ma rivela precise motivazioni storiche: nel Seicento il Nuovo Mondo concepito dalle scienze meccaniche era un mondo di cose isolate, presieduto da uomini isolati. Il primo trionfo della razionalità scientifica determinerà, nell'approccio teoretico ed ermeneutico delle scienze stesse, il perfezionamento del modello analitico di smembramento e di dissociazione rispetto al senso del tutto.
La conseguenza fu per secoli la mancanza cronica di un metodo capace di trattare l'episteme come unità intera. Del resto l'ideale baconiano di sapere comincia a prendere corpo già nello scritto del 1605 Of the Proficience and Advancement of Learning, Divine and Human (Bacon 2011, pp. 39-74) nel quale, attraverso una vasta classificazione delle scienze (ambizione questa poi condivisa da tutto il Positivismo), nell'intento di ripartire o tripartire le scienze e la storia e soprattutto con lo scopo di distinguerle dalla poesia e dall'arte e dalla filologia, si perseverava nel convincimento di dividere inesorabilmente queste ultime dal complesso delle discipline cosiddette razionali e dalla mera empiria (cfr. Di Nuoscio 2006, p. 80).
La realtà utopica di Bacone, teatro di accadimenti scientifici, è un'isola perché la stessa scienza del Seicento rimane un'isola, in quanto scenario privilegiato del fenomeno, tutto occidentale, di spersonalizzazione e di frammentazione del metodo, dove i metodi della fisica nulla avevano in comune con quelli della biologia, e dove trionfa la divisione e la separazione, insanabile per decenni, tra lo scienziato e il filosofo (cfr. Antiseri 2000).
Il felice connubio greco tra filosofi e geometri, filosofi e indagatori della natura, tra logica e teoretica e storiografia si rompe:

massa, velocità, tempo, temperatura, pressione, erano tutte categorie che avevano il loro posto nel nuovo quadro meccanico, e, ciò che è più importante, preparavano gli uomini a trattare con maggior competenza le macchine che l'ingegnosità umana stava creando [...] Questo escludeva la vera essenza della humanitas. E ne escludeva pure il metodo essenziale. Partecipazione ed imitazione, simpatia ed empatia, che sono i mezzi principali per verificare l'esperienza soggettiva, rimanevano fuori del dominio della scienza (Mumford 1964, p. 299).

Nel suo asettico laboratorio lo scienziato (baconiano) seleziona e compila le tabulae dell'esperienza e dei fatti, degli idola e delle apparenze: tutto ciò che non è misurabile e che non è quantificabile rimane, non solo intelligibile ma, soprattutto, irrilevante. Le scienze fisiche che nascono da questa metodologia si ergono e svettano come grandi cattedrali simboliche. Il passo successivo, ovvero la presunzione di trattare questi simboli come il più alto e il più vero ordine della realtà, sarà immediatamente inevitabile e condurrà al trionfo di una ragione e di una scienza fagocitanti e ingombranti. Occorrerà aspettare il Novecento per tornare a ridimensionare i simboli della scienza a ciò che essi realmente sono: non un più alto ordine di realtà ma solo un più alto ordine di astrazione, o un paradigma destinato ad un ciclico processo di nascita e tramonto o una dinamica della fallibilità e del fallibilismo umano, caratterizzato da un procedimento per prove ed errori, sempre perfettibile.
La tendenza ingenua della scienza del Diciottesimo secolo di ergersi a metafisica, spodestando di fatto quest'ultima, si rivelerà determinante nella costruzione dell'idolo di un mondo nuovo.
Nella Nuova Atlantide si leva una sola, implacabile condanna contro le bugie e gli inganni dettate dal tentativo di “abbellire la natura” (una spietata fatwa dell'arte tutta, sul solco di Platone) quando Bacone (2009, pp. 100-101) mostra compiaciuto al visitatore dell'isola come

Abbiamo case degli inganni dei sensi, dove rappresentiamo tutti i generi di giochi di prestigio, false apparizioni, imbrogli, illusioni e le loro falsità. E sicuramente non avrai difficoltà a credere che noi che abbiamo tante cose veramente naturali, che inducono all'ammirazione, potremmo, nel mondo dei particolari, ingannare i sensi, se volessimo camuffare quelle cose e sforzarci per farle sembrare più miracolose. Ma noi odiamo davvero tutte le imposture e le bugie: al punto che abbiamo severamente vietato a tutti i nostri compagni, sotto pena di ignominia e ammenda, di ostentare alcuna opera o cosa naturale adornata o gonfiata, ma soltanto pura come essa è, senza nessuna affettazione di stravaganza.
Così come la mente (scientifica) verrà sempre di più allontanata dal corpo (delle emozioni viste come illusioni) e dal corpus della filosofia e della teologia, nel tentativo di guadagnare quella precisione utile per raggiungere la verità che si manifesta in quantità, in misurabilità, così le diverse isole utopiche si presentano come laboratori asettici e impersonali, dove si sperimenta e si attua una felicità calcolabile, quantificabile. Del resto sarà di Hume il monito, nel 1748, di dare alle fiamme tutti quei volumi di religione e metafisica che, non contemplando ragionamenti astratti sulla quantità e il numero o sui dati sperimentali, si rivelano inutili sofismi:

Quando scorriamo i libri di una biblioteca, persuasi di questi principi, che cosa dobbiamo distruggere? Se ci viene alle mani qualche volume, per esempio di teologia o di metafisica scolastica, domandiamoci: «Contiene qualche ragionamento astratto sulla quantità o sui numeri?» No. «Contiene qualche ragionamento sperimentale su questioni di fatto e di esistenza?» No. E allora, gettiamolo nel fuoco, perché non contiene che sofisticherie ed inganni (Hume 1971, p. 175).

Nella Nuova Atlantide si cerca un PIL del benessere ante litteram caratterizzato da una fiducia estrema negli straordinari progressi delle scienze fisiche e matematiche piegati a rispondere anche e soprattutto alle esigenze pratiche, etiche e persino politiche: nasce così una scienza politica” nel senso di un'idea di gestione della convivenza umana diretta e guidata dalla nuova, emergente casta degli scienziati. Nell'Isola troviamo infatti non i filosofi, non i teologi, non i magistrati, ma gli scienziati al potere e la loro opera è volta alla manutenzione di un organismo sociale felice ed efficiente come un laboratorio sterile, dove non entrano i sentimenti e le emozioni ritenuti nemici della fredda ragione e dell'azione efficace.
Ma l'utopia non è solo locus, è anche archetipo del racconto di un viaggio: la letteratura utopica trova il suo massimo sviluppo a partire da Cinquecento e le ragioni possono cercarsi e trovarsi proprio nelle novità introdotte dalle scoperte geografiche, le quali non solo scandiscono l'avvento dell'epoca moderna, ma importano mutamenti e a volte sconvolgimenti culturali ampliando l'orizzonte antropologico. Non a caso gli autori delle più importanti opera di letteratura utopica sono due inglesi (More e Bacone) contemporanei all'epopea britannica dei grandi viaggi e delle grandi conquiste per mare.
Eppure si tratta di un un viaggio che, trasformandosi in racconto, perde i connotati dell'oggettività e diventa inevitabilmente proiezione del sé e delle proprie idee e ambizioni, anche teoretiche in quanto

il viaggio implica di necessità un narratore ed infatti l'utopia è sempre un racconto, agli inizi in prima persona e nella forma del dialogo, successivamente in terza persona, quando prende la forma del romanzo: ma sarà sempre l'espressione di un'esperienza soggettiva, esemplare, positiva o negativa che sia (ché la letteratura utopica svilupperà anche questo secondo aspetto) che si sottopone alla riflessione della comunità umana storicamente determinata (Punzo 1989, p. 26).

Ecco perché si può essere autorizzati ad affermare che la narrazione baconiana contempla la possibilità della realizzazione, almeno in soggettiva, di un utinam, un ottativo, anche solo ponendosi nell'orizzonte delle possibilità come desiderativo, una sorta di “volesse il cielo” implorato dall'io narrante, e non come un impersonale periodo ipotetico del terzo tipo, dell'irrealtà, dell'impossibilità.
“Utopia” diventa allora non solo e non tanto un non-luogo, ma un altro luogo, un altrove geografico e storico, da recuperare innanzi tutto con il ricordo, con la memoria e poi da raggiungere come “Terra Promessa”.
Nella letteratura utopica l'isola esiste, è stata vista o visitata, gli uomini, spesso naufraghi, sono inciampati in essa, magari per caso, magari per sbaglio, ma hanno potuto ammirarne le meraviglie assumendosi il compito e la missione di indicare la strada agli altri uomini. Visibilissima rimane allora in tutta la letteratura utopica europea cinquecentesca e seicentesca il ripetersi della dinamica filosofica e narrativa della parabola platonica: il ricordo di un mondo felice, il racconto di esso, la ferma, incrollabile volontà di una persona sola nel condurre gli uomini verso il Bene, l'incomprensione inevitabile dei profani, la conversione di questi ultimi come auspicio finale e il possibile (talvolta necessario) martirio di chi tenta di condurre gli uomini alla verità. Il fascino che il racconto della caverna ha esercitato nei secoli sta nel dramma vissuto da colui che, animato da buone, da ottime intenzioni, avrebbe voluto condurre gli uomini in prossimità del Bene e della Verità, a costo della propria vita: la mistica di Platone, scrive Kelsen (1985), risiede in questo, e costituisce la giustificazione ad ogni ideologia tirannica, perché il filosofo-re è il solo a conoscere la giustizia e la verità, per cui può e deve guidare i suoi sottoposti esigendo da essi un'obbedienza incondizionata. Il filosofo-re non sta facendo, infatti, che il loro bene, non sta applicando che un piano di salvezza valido erga omnes. Da qui ad imporre, anche con la forza, questa salvifica Weltanschauung il passo può essere brevissimo, sino al punto da poter interpretare i diversi dittatori nazisti, fascisti e comunisti proprio sulla falsariga di quel filosofo-re platonico che, disponendo di una ricetta di salvezza, sentiva l'autorità di schiacciare ogni opposizione (cfr. Bambrough 1967, pp. 166-172).
Il dovere di ritornare e salvare il popolo, il paradigma del ritorno o dell'arrivo di un homo novus è parte integrante dell'architettura narrativa platonica (cfr. Casertano 2007) e della narrativa utopica ed in questa dinamica il racconto e la testimonianza di ciò che si è visto e goduto si traduce in impegno politico, nella prospettiva di indicare e custodire la nuova via da seguire. Anche per Bacone coloro che hanno il privilegio di essere spettatori di un mondo perfetto e senza storture, senza errori, senza poesia e senza arte perturbanti, hanno anche il dovere di spiegarne il buon funzionamento, perché testimoni privilegiati della sua efficacia e validità.


6. Si determina quindi, e Bacone ne è uno degli artefici, un connubio inedito e tipicamente moderno tra il conoscere e il fare, ed il fare (o il saper fare), in questa nuova consapevolezza, perde gradualmente i caratteri riduttivi di mera tecnica, fino ad imporsi come obbligo del sapiente: chi conosce (la tecnica, la scienza, la biologia) ha il dovere di intervenire nei posti di comando della società per migliorarla. La domanda chi deve governare? ritornerà ad essere allora la domanda politica per eccellenza, e Bacone con la Nuova Atlantide risponderà alla questione ponendo al comando la comunità degli scienziati, così come secoli prima Platone aveva posto i filosofi al potere e così come nel Novecento si teorizzeranno ideologie che vorranno al potere, di volta in volta, il popolo, e poi la fantasia, e poi i tecnici, e poi i politici di professione, e poi di nuovo la gente comune.
La problematica politica ed etica che si spalanca in questa dinamica di attribuzione perentoria di potere a questo o a quello è riconducibile alla stessa problematica che investe ogni episteme, e dunque ogni sapere che voglia dirsi scientifico e pertanto controllabile: la domanda politica per eccellenza (come ci ricorda il filosofo liberale Dario Antiseri) non è «chi deve comandare, ma chi controlla coloro che comandano» (cfr. Antiseri 1994). La domanda che spalanca l'era democratica della modernità, e che da un secolo cerca di spazzare via i demoni delle ultime ideologie, è la domanda circa i mezzi e le opportunità di controllo e di verifica dei gangli di potere: così come si può parlare di fenomeno scientifico solo se quest'ultimo risulta essere verificabile, così la scienza politica democratica chiede, per essere tale, di poter aprire le porte sempre ad ogni verifica.
Se manca il controllo (dei mezzi e dei fini e degli uomini del potere e del governo), non si è più autorizzati a parlare di democrazia, ma di una nuova, magari attuale ed inedita (e per questo molto insidiosa) forma di tirannia (cfr. Antiseri-Di Nuoscio-Felice 2018).
Bacone (e Platone) appartengono ad un passato politico che, accanendosi solo sulla categoria buona e giusta da collocare al potere, si fanno portatori di pericolose ideologie.
Lo scienziato baconiano (e prima ancora il filosofo-re) sono al contempo demiurgo della tecnica e della società, e dunque del sapere e dell'etica, e il metodo scientifico diventa così prassi morale, etica e politica.
Come dirà il Padre della Casa di Salomone nella Nuova Atlantide «il fine della Nostra Fondazione è effettuare tutte le cose possibili» (cfr. Bacone 2009, p. 83).
Una scienza che si fa strumento di controllo e di fondazione di un Impero affinché possano essere realizzate tutte «le cose possibili» comporta un confine tra bene e male, lecito o illecito la cui discriminante è solo tra ciò che è possibile e ciò che non è possibile realizzare dalla scienza e dalla tecnica, indipendentemente dagli esiti, fausti o infausti.
Eppure Bacone, apparentemente in maniera ingenua, pare non porsi questa problematica: nell'isola di Atlantide tutto è buono e tutto è lecito perché a capo della comunità viene collocata una mente scientifica ed essa, per definizione, non può ingannarsi.


7. In questo culto per la scienza trova posto anche un inusuale rispetto per la religione: nella Nuova Atlantide, chiamata Bensalem (nomen omen, che vuole suggerire la profezia escatologica della Nuova Gerusalemme), il culto religioso ha un ruolo fondamentale che oscilla tra Instauratio e Renovatio come confini di uno spazio di condivisione tra ebrei, maomettani e cristiani e che trova un baricentro condiviso nell'ideale e nel valore della famiglia.
Essa, in Bacone (e poi anche in Hegel) sarà il vero, primo e privilegiato nucleo sociale, regolato da un codice civile e comportamentale (e morale) rigido, a tratti modernissimo e persino scandaloso: a Bensalem è data la possibilità, anzi l'obbligo, ai futuri coniugi di vedersi, e non solo di intravedersi, nudi, affinché non possano persistere dubbi su una eventuale incompatibilità di tipo meramente sessuale (oseremmo dire meccanica, alla stregua di due ingranaggi che devono combaciare).
La costruzione della famiglia è dunque regolata da una prassi e da una metodologia che potremmo definire rigorosamente razionale, piegata all'esigenza di escludere il rischio e l'errore, come se l'oggetto della costruzione non fosse una realtà in fieri fondata sui sentimenti ma fosse anch'essa una perfetta macchina socio-antropologica, riproducibile e prevedibile in laboratorio.
Non a caso il folklore di Nuova Atlantide ruota attorno alla festa della Famiglia (Bacone 2009, p. 18), ricorrenza laica e riconosciuta, nonché rispettata, da tutta la popolazione.
Si tratta di un grande disegno educativo, dove l'uomo è in relazione con l'altro uomo in una prospettiva di progettualità quasi meccanica o meccanicistica: la società pensata come un gruppo di ricerca, un team affiatato e collaudato, dove ci si aiuta (e ci si corregge) reciprocamente, sottolinea più volte Bacone (2009, pp. 17-20) con un direttore che funge da supervisore e da interprete primo ed ultimo della realtà.
Non stupisce pertanto che in questa metafora siano ammessi la benevolenza, la parsimonia e una sorta di austerity ante litteram: il migliore dei mondi possibili coniuga le migliori attitudini umane in una sintesi sempre efficace, sempre propositiva e sempre attenta a non sprecare tempo e denaro. Del resto, comun denominatore a tutta l'opera rimane la convinzione che non vi sia cosa più inutile (e più costosa in termini di spreco) dell'arte, in un primo abbozzo forse di prometeico funzionalismo moderno o modernissimo che non ha tempo per soffermarsi sugli inutili abbellimenti della natura in forma artistica o letteraria e dunque, banalmente, sottrae all'uomo il tempo di soffermarsi su sé stesso. E se questo efficientismo dovesse coinvolgere persino le dinamiche lente di una democrazia e di una sapienza democratica a favore di una rapida e autoritaria risoluzione delle problematiche sociali e politiche, gli abitanti di Bensalem sarebbero chiamati a farsene una ragione. Scrive Trousson (1992, p. 62): «la selezione poco democratica degli uomini di scienza e la sua [di Bacone] passione per una elite di tecnocratici si spiegano con l'entusiasmo scientista che lo anima».
Del resto è stato spesso l'entusiasmo (alimentato da ottime intenzioni) a giustificare nei secoli le peggiori nefandezze totalitarie: la democrazia, infatti, nei suoi meccanismi, nei suoi riti e nelle sue liturgie, nel bisogno di un controllo reciproco, nell'esigenza di rimanere sempre vigili, attenti ed informati, costa fatica, sforzo e tempo. Il piglio autoritario risolutorio e risolutivo, che non ha bisogno di attraversare il mare tempestoso del dibattito e del dissenso e che appare immune da ogni dubbio, si presenta, in prima istanza, efficace e accettabile. Ma una scienza che non ha bisogno di prove ed errori (e che si riduce appunto ad entusiasmo scientista) e una politica figlia di questo stesso alterato entusiasmo, sembrano destinate entrambe al fallimento.
Nella Nuova Atlantide, infine, non rimane adeguatamente esplicitato il tema dell'integrazione, che comunque si auspica, lasciando, sullo sfondo, domande inevase: come abbandonare i propri riferimenti valoriali per adattarsi ai nuovi, di cui l'Isola è contenitore? E quando si conclude questa progressiva, inarrestabile assimilazione? Quando si diventa perfettamente integrati e cittadini dell'utopia? In altri termini: quando trionferà definitivamente l'utopia?
Le problematiche connesse alla perdita, anche solo momentanea, dei valori di cui si è depositari ed eredi in favore di un continum indeterminato e uniforme, dove si annullano le differenze e le singolarità, non è problematica secondaria: essa sarà successivamente affrontata da Rosmini che mostrerà come e quanto la coscienza dell'uomo possa diventare facilmente terra di conquista quando si rinnega la sovranità non dell'apparato statale o sociale al quale si appartiene, bensì la sovranità di sé stessi (cfr. Antiseri 2017, p. 21).
Ma anche in questo risiede il fascino duraturo delle grandi utopie, ieri come oggi, incardinate in un grande, straripante ideale di socializzazione, anzi, in una sorta di silenziosa dittatura della socializzazione: occorre essere sempre socievoli e sorridenti (con tutti i mezzi a disposizione, anche virtuali), pena l'esclusione dal consorzio della categoria di animale sociale e politico. La tristezza, la vecchiaia, il silenzio, il dubbio, il senso d'inadeguatezza, la consapevolezza della finitudine, finanche la riflessione sulla morte, non sono ammessi nell'Isola felice: anche la scuola contemporanea è intesa innanzi tutto come luogo di socializzazione e dopo semmai, se pure, come luogo d'istruzione e di educazione.
Questi disegni totalizzanti, ammalianti e luminosi, non lasciano spazio alla sfera privata, ma tutto viene a priori pensato e deliberato, dalla costruzione del nucleo domestico come perfetto ingranaggio, congegno sociale, sino addirittura alle scelte gastronomiche e alimentari. Quale sia il prezzo da pagare per questa felicità imposta è presto detto: l'esigenza dell'uomo di introspezione, di chiusura, seppur momentanea ma sempre feconda, nel perimetro di un “io” autonomo e deliberante, pensante e dubbioso, la possibilità di sottrarsi alle feste e ai rituali imposti dalla mente programmatrice, la necessità di vagare “solo e pensoso i più deserti campi”, di non voler sempre e comunque condividere e convivere in questa grande, perfetta comunità festante e benestante, e la possibilità, talvolta il lusso, di essere isola, di sentirsi isola, di farsi isola, non reperibile, non esposto in vetrina, pare non sia realizzabile nell'isola di Nuova Atlantide e nelle nuove isole utopiche della contemporaneità.
Si vive in un'isola perché non si possa essere isola.
Platone nella Repubblica prevedeva che venissero allontanati «fuori dalle mura della città» tutti coloro che dissentivano ed il filosofo esprimeva questo concetto usando un verbo che, come osservava Karl Popper (1973, p.233) con grande lucidità filologica, oltre che filosofica, non lascia scampo e non lascia spazio ad equivoci: Platone, a proposito degli oppositori, non diceva che essi debbano essere “allontanati” magari “accompagnati, condotti fuori dalle mura della città”, forse persino “deportati”, bensì usava un'espressione traducibile con “eliminati”, “annullati”, prestando così argomenti ad ogni ideologia che, nei secoli successivi, avrebbe previsto lo sterminio del diverso (cfr. Popper 1973, p.234).
Di contro, Bacone sospende il giudizio sulla sorte dei non “integrati”, forse perché semplicemente, ma questa è solo una nostra ipotesi, essi non sono ammessi ab origine.



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