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Olivetti politico.
Il sogno della “comunità”

Giorgio Campanini
Articolo pubblicato nella sezione “Libertà e democrazia nella cultura politico-giuridica italiana”

Nella storia del pensiero politico italiano del Novecento Adriano Olivetti (1901- 1960) occupa un posto veramente singolare: la sua, se non andiamo errati, è l’unica organica riflessione politica condotta da un ingegnere-imprenditore, da un manager che - a partire dalla fondamentale influenza di viaggi negli Stati Uniti d’America negli anni ’30, sino alla soglia di inizio della seconda guerra mondiale, - ha condotto ad ampio raggio un’originale riflessione sulla politica in una società ormai fortemente condizionata dal progresso tecnologico. Come dare un fondamento umanistico alla tecnica è stato l’obiettivo principale cui Olivetti si è dedicato nel cruciale quindicennio che va dalla fine della seconda guerra mondiale alla sua morte precoce.
L’obiettivo principale sul quale Olivetti ha puntato è stato quello della conciliazione fra progresso tecnologico e sviluppo umano, così da fare integrare nel processo di trasformazione dell’Italia (e, in generale dell’Occidente) l’autentico sviluppo umano, a partire dalla nuova centralità assunta dalla moderna fabbrica. Sta qui – nel tentativo di coniugare sviluppo industriale e sviluppo umano – la sua originale proposta di “Comunità”, superando gli opposti rischi dell’astrattezza filosofica e di un unilaterale pragmatismo.
Sotto molti aspetti il pensiero politico di questo imprenditore-filosofo rappresenta un unicum nella complessa storia delle idee del Novecento ed è ancora una preziosa indicazione per una “società dal volto umano”, nella quale il lavoro, soprattutto quello di fabbrica, non sia luogo di alienazione ma occasione di piena realizzazione dell’uomo, attraverso un’economia dal volto umano (cfr. Campanini 2021).


1. Alle origini di una ricerca

Quella condotta da Olivetti in ordine al problema del lavoro è stata una ricerca a tutto campo, avviata con i viaggi degli anni ’30 negli Stati Uniti, continuata negli anni della seconda guerra mondiale nell’azienda di famiglia sino al 1943 allorché Olivetti, minacciato di deportazione in Germania, riparò in Svizzera e lì rimase per circa due anni, assai fecondi per la sua ricerca, culminata con la pubblicazione nel 1945, sul finire della seconda guerra mondiale, del fondamentale studio su L’ordine politico della Comunità.
A partire dall’esperienza nordamericana, e dalle sollecitazioni che ne derivavano in ordine al problema dell’umanizzazione del lavoro industriale (con particolare riferimento alla cultura francese degli anni ’30 e ’40), Olivetti tracciava, nella sua ricerca, le linee fondamentali del progetto che, dopo la fine della guerra, andava prendendo corpo in un’Italia finalmente liberata dalla tirannide. Due “poli” rappresentarono i suoi fondamentali punti di riferimento: l’“umanesimo del lavoro” statunitense e il personalismo comunitario francese (cfr. le “fonti” nordamericane: Mumford 1954 e Fried Ann 1955; a livello europeo cfr. Mounier 1949, Maritain 1953 [Cristianesimo e democrazia e I diritti dell’uomo e la legge naturale]; per un quadro ampio delle “fonti” olivettiane cfr. Campanini 2020).
Soprattutto negli anni dell’esilio svizzero, venivano gettate le basi di quello che, a guerra finita, divenne il Movimento Comunità, caratterizzato da una duplice “anima”: quella culturale, affidata ad una casa Editrice, appunto “Comunità”, che metteva a disposizione del pubblico italiano, per la prima volta, importanti punti di riferimento stranieri; e quella propriamente industriale, fondata sull’impresa olivettiana, facente essenziale riferimento ad Ivrea, ma con la speranza – che in realtà non si realizzò – di offrire all’Italia un orizzonte per quello che poi sarebbe stato chiamato “capitalismo dal volto umano”.
Nella realtà, tuttavia, il progetto olivettiano non ebbe fortuna né nell’ancora tradizionale “capitalismo” industriale, né nei partiti di allora (assai diffidenti nei confronti del nuovo Movimento Comunità), né negli stessi sindacati dei lavoratori, inclini a guardare con sospetto ad un progetto di “umanizzazione del lavoro”, quale appunto quello olivettiano, che sembrava orientato al superamento della tradizionale dialettica imprenditori-lavoratori, ed ancor più della “lotta di classe”.
Il progetto olivettiano venne definitivamente travolto dalla prematura morte del suo fondatore (1960), ma la sua sorte appariva segnata in partenza, per la distanza troppo grande che intercorreva fra il “sogno” del fondatore di “Comunità” e lo specifico contesto italiano degli anni del secondo dopoguerra. Quello di Olivetti rimase così una sorta di “sogno nel cassetto”: non, tuttavia, condannato a morire ma importante punto di riferimento per tutti quanti hanno ripreso e coltivato quel “sogno” di quello che sarebbe poi stato chiamato un “capitalismo dal volto umano”. Ivrea fu un interessante ed importante tentativo di porre su nuove basi, non più aspramente conflittuali, il rapporto fra capitale e lavoro.


2. Pregi e limiti di un progetto

Alla base del progetto di società di Olivetti sta una duplice sollecitazione, l’una pratica, l’altra teoretica.
Sotto il primo profilo, determinanti furono i viaggi del giovane Olivetti negli Stati Uniti negli anni ’30, decisivi per la sua formazione imprenditoriale: negli USA, infatti, egli si incontrò con le aree più avanzate di una cultura industriale che si era appena ripresa dalla drammatica crisi degli anni ’20 ed aveva favorito interessanti innovazioni in ambito industriale. Sul piano teoretico, studiosi come Mumford o Friedman avevano aperto la strada a forti innovazioni nell’apparato tecnologico, e nello stesso tempo, sottolineato fortemente l’importanza del “fattore umano”.
Dal punto di vista pratico la crisi aveva messo in evidenza l’obsolescenza della cultura industriale del passato e posto con forza il problema della formazione e della valorizzazione del fattore umano. Allorché, negli anni centrali della guerra (1941-43), apparve chiara l’impossibilità di ritornare ad un passato che era in gran parte responsabile del fallimento dell’Occidente, Olivetti scelse la via del volontario esilio, per sottrarsi alla quasi certa cattura da parte della Germania nazista, e poté, in una Svizzera democratica nella quale era ancora possibile l’accesso ai “libri proibiti” dal nazismo, incontrarsi con la più avanzata cultura europea. Fu allora che, in particolare, avvenne l’incontro con le opere di Denis de Rougemont e soprattutto di E. Mounier e J. Maritain (cfr. Mounier 1949: Maritain 1953 [Cristianesimo e democrazia e I diritti dell’uomo e la legge naturale]).
Se dai personalisti francesi Olivetti trasse importanti indicazioni in ordine al concetto di comunità, tuttavia furono prevalentemente suoi gli scritti nei quali, con il progredire della sua riflessione, portava avanti il suo progetto comunitario. Né Mounier né Maritain, entrambi di matrice filosofica, erano, come Olivetti “uomini dell’industria”, capaci di fare i conti con la spesso dura realtà della fabbrica, del lavoro, del mondo sindacale. Fondamentale era indubbiamente una puntuale ed organica definizione del fondamento e del punto di partenza, e cioè la persona umana - per lo stesso Olivetti struttura portante del suo progetto -, ma necessaria appariva all’uomo dell’industria il confronto con la dura realtà della ricerca pratica, dell’organizzazione aziendale, del rapporto con i lavoratori. Fu questo il settore prediletto da Olivetti ed oggetto della sua attenzione, tanto negli scritti teorici sul movimento comunitario quanto nella sua azione pratica di imprenditore. Conscio tuttavia dei suoi stessi limiti, Olivetti ebbe modo di circondarsi, tanto nella sua opera aziendale quanto nell’impianto complessivo del comunitarismo di validi e qualificati studiosi, molti dei quali ebbero modo di affermarsi nei mondi della cultura e dell’imprenditorialità (cfr. Botta 1980; Cubeddu 2014; Ferrarotti 2001; Pampaloni 1980; Campanini 2020).
Nonostante il successo iniziale, soprattutto nell’area di Ivrea, del progetto olivettiano, molte furono le difficoltà che l’imprenditori-filosofo dovette affrontare. Vennero, un poco paradossalmente, ad incontrarsi due diversi “ostracismi”: quello dei cattolici (che non riconobbero mai l’appartenenza di Olivetti al loro mondo e non ne favorirono l’affermazione) e, soprattutto, quello della sinistra comunista ed anche socialista, orientate a puntare soprattutto sulla “lotta di classe” in vista di una sognata palingenesi di un mondo, quello della fabbrica, allora e dopo costretto a misurarsi con la dura realtà del lavoro. Di qui una duplice scarsa simpatia del sindacato nel suo complesso, tanto di quello cattolico quanto di quello socialcomunista, per i quali il progetto olivettiano di Comunità rimase sostanzialmente un corpo estraneo.


3. I punti di forza e di debolezza del progetto olivettiano

La decisa avversione del movimento sindacale al progetto olivettiano, apertamente accusato di “paternalismo”, spiega, ma solo in parte, il sostanziale fallimento di un progetto che pure presentava interessanti aspetti di originalità e costituiva un tentativo, sostanzialmente unico nell’Italia degli anni ’50 del Novecento, di trasformare in concreta realtà imprenditoriale l’ideale comunitario di aperta ispirazione mounieriana. Quello che può essere considerato, in Europa, il più lucido e rigoroso tentativo di attuare il progetto, o forse il sogno, di un nuovo “comunitarismo”, ha contrapposto da una parte un Olivetti lucido ed apprezzato imprenditore, attorniato da una cerchia di qualificati tecnici e guardato con simpatia da una parte dello stesso mondo operaio, dall’altra un sindacalismo socialcomunista ancora prigioniero del mito di una classe operaia impegnata nella “conquista del potere”, con un sindacalismo cattolico alle prese con il problema della propria rifondazione dopo la traumatica fuoriuscita dalla CGIL unitaria e in verità troppo poco attento ad un’esperienza, quella appunto di Olivetti, di per sé non incompatibile con una visione cristiana del lavoro e della sua funzione nella storia. Fu così, quello di Olivetti, un progetto non realizzato: non senza che sia lecito domandarci se siano stati nel giusto quanti, separandosi dalla CGIL e dal suo “classismo”, non hanno sufficientemente guardato ad un progetto, quello appunto di Olivetti, che sotto molti aspetti si richiamava a quel “corporativismo cattolico” teorizzato in Italia da Giuseppe Toniolo e che pure anticipava non poche delle felici intuizioni di Olivetti in ordine al rapporto fra impresa e lavoro.
Lo stesso “personalismo comunitario” di Mounier – al quale Olivetti aveva guardato con grande simpatia – poneva in evidenza i suoi limiti, nel momento in cui lanciava la proposta di una “rivoluzione personalista e comunitaria” senza tuttavia avere, contemporaneamente, la capacità di trasformare in un vero e proprio progetto politico l’ideale comunitario.
In Europa Adriano Olivetti è stato forse il solo che si è misurato con lucida consapevolezza con l’eredità di Mounier, senza tuttavia essere riuscito appieno a realizzare la necessaria mediazione fra la centralità della persona e la dura fatica dell’homo oeconomicus. Sotto questo aspetto la lezione stessa di Mounier rivelava i suoi limiti sotto il profilo di una reale capacità di cambiare la storia dell’Occidente (per alcuni limiti del progetto del personalismo comunitario cfr. Campanini 2012). Rimaneva così aperto il problema della “società industriale” e del ruolo al suo interno affidato ad una “democrazia del lavoro” non sempre capace di accomunare la passione dell’ideale e la pazienza del reale. Quello che è stato chiamato il “miracolo economico” ha indubbiamente segnato importanti passi in avanti in materia di miglioramento delle condizioni del lavoro e di equa retribuzione dei lavoratori; ma molta strada resta da percorrere in direzione di una civiltà del lavoro ancora in gran parte da costruire.


4. Conclusione

Alla fine quella di Olivetti è stata un’utopia, e in che senso? Non certo dal punto di vista della sua reale fattibilità, perché stanno ad attestare il contrario le non piccole né parziali esperienze poste in atto nell’ambito del lavoro e della sua doverosa e necessaria “umanizzazione”. Si deve tuttavia riconoscere che, a mano a mano che il XXI secolo ha condotto avanti il suo corso, l’“umanesimo del lavoro” ha segnato una battuta d’arresto, se non preoccupanti passi indietro. Se in Occidente la condizione dei lavoratori è fortemente migliorata (quasi soltanto, tuttavia, sul piano salariale e non sotto il profilo della partecipazione alla gestione delle imprese) in pressoché tutto il resto del mondo le condizioni del lavoro sono spesso disumane. Vaste e complesse sono le ragioni di questa arretratezza, ma una fra esse appare - proprio alla luce della lezione di Olivetti - quella più grave, e cioè l’assoluta “perifericità” del lavoro umano e la drammatica realtà di un potere che sotto molti aspetti riproduce, in veste mutata, il dramma della schiavitù.
È per questo che rimeditare la lezione di Olivetti - e, in generale, di quanti si sono impegnati per l’umanizzazione del lavoro - appare necessario anche in questo complesso e talora drammatico (anche in Occidente) avvio del XXI secolo. Lezioni come quella di Olivetti meritano di essere riprese e rimeditate, in vista di una nuova stagione di “umanesimo del lavoro”, come ideale continuazione di quella passione per il lavoro che già all’alba del XIII secolo,nella grande stagione delle cattedrali romaniche, apriva nuovi orizzonti al bello e al bene, popolando le splendide cattedrali romaniche di eleganti statue inneggianti alle varie espressioni del lavoro umano: una dura fatica da sopportare ma nello stesso tempo una preziosa occasione per dare senso compiuto al mondo e alla storia.


Nota bibliografica


1. Scritti di Olivetti

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2. Scritti su Olivetti

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