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Ignazio Silone.
Le uscite di sicurezza, ieri, oggi, sempre

Guido Sirianni
Articolo pubblicato nella sezione “Libertà e democrazia nella cultura politico-giuridica italiana”

1.Un irregolare

Nel panorama culturale del 900 la figura di Silone riveste una posizione particolare, per varie ragioni. Silone può essere collocato a pieno titolo, con una posizione di spicco, tra gli irregolari, gli indisciplinati, gli inquieti, gli eretici, tra coloro che col potere, inteso in tutte le sue forme, possono avere solo un rapporto di distanza se non di avversione. Di irregolari, la cultura italiana del 900 ne ha avuto vari. Il ribollente contesto di una società attraversata da enormi mutamenti, aperta ai simili impulsi provenienti da un contesto sempre più cosmopolitico, ha certamente favorito, più che in altri tempi, lo sviluppo di sensibilità nuove e plurali, e quindi anche l’irregolarità e l’eterodossia. Al tempo stesso questa vitalità si è scontrata con i nuovi miti collettivi ed organicistici della nazione e della classe, in una società irreversibilmente massificata, che hanno preteso di irreggimentarli in regole di militanza, di disciplinamento, di fedeltà, di conformismo. La distanza, l’estraneità al potere, considerate errate e pericolose, sono state sovente bollate come individualismo nostalgico, romantico, borghese, reazionario e comunque fuori del tempo. Non stupisce quindi che nel corso del 900 gli spiriti liberi abbiano avuto in genere vita difficile, o difficilissima, scontando diffidenza, avversione, emarginazione, aperta ostilità se non persecuzione.
L’irregolarità di Silone, “socialista senza partito”, “cristiano senza chiesa”, ha una particolare valenza: essa non è solo l’espressione di un indomabile spirito critico, di una ragione che non accetta di sottomettersi, o della rivendicazione della propria libertà individuale “negativa” nei confronti di un potere tirannico, ma viene anche dal bisogno del soggetto di esprimere i valori di una identità collettiva e relazionale, peraltro duplice (quella di socialista, quella di cristiano) senza dover soggiacere alla mediazione obbligata di un apparato coercitivo ed autoritario (partito, chiesa).
Di questa irregolarità Silone ha lasciato nel corso della sua vita una lunga e varia traccia in forma di opere e di scritti: rivoluzionario per professione, tra i fondatori del Partito Comunista negli anni venti, in giro per l’Italia e per l’Europa; dissidente negli anni tragici dello stalinismo e poi drammaticamente espulso dal Partito Comunista; romanziere e saggista di successo internazionale negli anni ‘30, vessillifero dell’antifascismo, in particolare con un romanzo, Fontamara, tradotto in molte lingue e conosciuto a livello planetario, che narra la vicenda della antica civiltà contadina della Marsica, quella dei “cafoni”, schiacciata dall’avanzata fascista e in senso più lato travolta dai processi di modernizzazione; di nuovo militante politicamente attivo, ma sempre insofferente, questa volta nelle file socialiste, ricoprendo ruoli importanti - direttore dell’Avanti!, deputato all’Assemblea costituente - negli anni precedenti e successivi alla Liberazione; lasciata la politica attiva, nel consapevole intento di non dover confondere indebitamente la sfera della cultura con quella della politica organizzata, nel corso degli anni della guerra fredda è promotore instancabile di iniziative di grande rilevanza, a livello internazionale e nazionale (l’Associazione italiana per la libertà della cultura), alla testa di un movimento intellettuale che coinvolse tutta la cultura laica - Croce, Salvemini, Ruffini, Salvatorelli, Carocci, Calogero, Olivetti, Rossi, Venturi e molti altri - a difesa della libertà della cultura, contro ogni totalitarismo e dogmatismo, nell’esile spazio lasciato alla cultura liberal, a destra come a sinistra, dal maccartismo, dal clericalismo reazionario, dall’egemonia culturale comunista nei confronti di adepti e compagni di strada “impegnati”, esercitata attraverso organizzazioni come i Partigiani della pace; in questo ambito fondatore e direttore con Nicola Chiaromonte negli anni ’50 di una delle più importanti e non conformiste riviste italiane, «Tempo presente»; osservatore attento e critico, rifuggente da superficialità e catastrofismo, della umanità nuova e disgregata generatasi nelle società di massa sotto le insegne del socialismo reale e dell’americanismo; autore infine, negli anni 60 di due opere straordinarie che compendiarono il suo pensiero e la sua esperienza umana e politica, Uscita di sicurezza e L’avventura di un povero cristiano e gli fecero ottenere, nel mutato clima della Distensione, quei consensi diffusi, in ambito culturale che prima gli erano stati negati. Ma le controversie intorno a Silone, momentaneamente sedate, si sarebbero riaccese, a distanza di qualche anno dopo la sua morte (1978), a seguito della pubblicazione delle ricerche storiche di Biocca e di Canali da cui emerse la traccia di una lunga attività di Silone negli anni della sua militanza comunista, quale informatore della Polizia. Se, come e per quali ragioni, nobili o ignobili, Silone sia stato un “doppiogiochista” (evento non infrequente tra militanti ed intellettuali nei turbolenti anni 20-30 ed anche oltre), e se ed in quale misura tale circostanza comporti la necessità di una rilettura della sua attività politica e culturale è divenuto oggetto di controversie tuttora aperte. Non avendo elementi che ci consentano di prendere partito, non possiamo che rinviare a coloro che hanno approfondito il tema: Biocca, Canali 2000; Biocca 2005; Tamburrano, Granati, Isinelli 2001; Tamburrano 2006; Stille 2000); Leake 2003.
Il pensiero e la vita di Silone sono stati oggetto di molti studi approfonditi: basti qui ricordare il voluminoso saggio critico di d’Eramo (2014), la curatela di Falcetto dell’ opera omnia di Silone (1999), il volume di Rigobello (1975). Anche di recente (ed al di fuori delle controversie sul “doppiogiochismo”) la figura è stata oggetto di attente riflessioni, quale quella riservatagli da Teodori (2008):


Per il gran peso che ebbe nello scontro ideale, politico e culturale della Guerra fredda, lo scrittore abruzzese fu bersaglio preferito sia dei comunisti che delle destre clericali e parafasciste. Non si poteva essere, come Silone fu, socialista e anticomunista, cristiano e anticlericale, liberale ed anticonservatore, “eretico marxista” ed avverso all’orizzonte comunista. Forse per questo Silone è l’intellettuale pubblico cui spetta un posto di primissimo piano, forse il primo, nella galleria degli eretici antitotalitari italiani (p.152).


O quella di Mastrangelo (2020) focalizzata sulla trilogia Fontamara, Vino e pane, Il seme sotto la neve e su La scuola dei dittatori.


2. Il cristianesimo ed il socialismo del “rustico” Silone

Rinviando ai contenuti di tali studi, ed ai loro vasti riferimenti bibliografici, ed anzi, presupponendoli, le note che seguono si propongono solo di esporre alcune impressioni di lettura, o di rilettura, del tutto soggettive e parziali, tratte da un testo siloniano, Uscita di sicurezza. Lo scritto, che unisce nelle sue varie parti le caratteristiche del racconto, della parabola e del saggio, può essere considerato una ottima porta per penetrare il vasto universo dello scrittore di Pescina. Questa lettura cercherà in particolare di puntare su un interrogativo di fondo: comprendere la irregolarità di Silone, quel suo essere eretico socialista e cristiano che lo spinge istintivamente ed incoercibilmente, ogni qual volta sente che il cerchio si chiude, a cercare uscite di sicurezza esistenziali e politiche insieme, cogliendo l’attualità di una lezione, appresa dallo scrittore nei cupi scenari del 900, in un mondo, quello di oggi, nel quale “il Dio che è fallito” non è più il comunismo, o il fascismo (come ci ha raccontato Zangrandi [1971], e tantomeno la socialdemocrazia, fallita anch’essa, ma in realtà mai divinizzata) ma il mercato della vulgata neo-liberista e nel quale il liberalismo è assediato dai nuovi e crescenti autoritarismi che hanno seguito l’ondata delle democratizzazioni degli anni 80-90, assumendo forme mutevoli: regimi puramente e semplicemente totalitari; democrazie fittizie; democrazie - anche quelle più consolidate - esposte ai rischi del populismo e della manipolazione.
Uscita di sicurezza fu pubblicato da Vallecchi, per consulenza di Geno Pampaloni, critico legato all’entourage olivettiano e grande estimatore di Silone, nel 1965. Il volume raccoglie in una cornice unitaria, molto coesa, una serie di scritti risalenti, già pubblicati negli anni precedenti, in varia misura rielaborati. In particolare, il suo capitolo Uscita di sicurezza (da cui il titolo del volume) era già stato pubblicato nel 1949 in Comunità e quindi compreso in una raccolta The god that failed. Six stories in communism (London, 1950), con scritti di ex comunisti (Fisher, Gide, Koestler, Spender, Wright) producendo una vasta eco internazionale. Lo scritto di Silone suscitò la violentissima reazione di Palmiro Togliatti in merito alle circostanze della espulsione avvenuta nel 1931. L’uscita del volume nel 1965, e più volte ristampato, ottenne anche in Italia un ampio consenso tanto della critica (che negli anni della guerra fredda si era mostrata distratta ed ostile rispetto all’opera di Silone sia letteraria che saggistica, tanto da generare un “caso Silone”, il caso singolare di uno scrittore tanto osannato a livello internazionale quanto osteggiato in patria) quanto del pubblico (sulla storia del volume, v. le note di Falcetto in Silone 1999, vol. II, p. 1564 ss.)
L’irregolarità di Silone è testimoniata, tematizzata, scandagliata in tutti i capitoli di Uscita di sicurezza. Per il lettore contemporaneo la (inevitabile) perdita della possibilità di comprendere tante sfumature del testo, a distanza di decenni dal momento in cui il volume fu pubblicato, o dal tempo nel quale i fatti narrati sono avvenuti, è forse compensata dal vantaggio postumo di sapere come le cose sarebbero andate a finire.
L’irregolarità di Silone ha la sua prima matrice nel processo formativo ed educativo dello scrittore, nella scaturigine dei valori etici e politici che ispireranno tutta la sua vita. Vogliamo cioè dire che l’irregolarità non è il prodotto di una trasformazione, di una conversione esistenziale o culturale, dalla regolarità alla irregolarità, come spesso avviene, ma è nel caso di Silone genetica, originaria. Questa indisciplinabilità, per così dire, viene dall’incontro tra carattere ed educazione. Silone non ha una formazione borghese, positivista, accademica, letteraria; non ha una formazione cristiana, nel senso di una formazione organizzata ed impartita dalle istituzioni ecclesiastiche (se non filtrata dal rapporto con una personalità atipica come Don Orione); non ha una formazione basata su identità, valori e percorsi sviluppatisi nelle città d’ Italia, che da Pescina apparivano lontane ed ostili. Le sue radici affondano in una civiltà contadina antica, rigorosa, austera, profondamente intrisa di valori cristiani intessuti di un francescanesimo popolare e familiare conservatosi integro per secoli nelle montagne della Marsica, come viene colto bene da Chiaromonte, nel suo apostrofare Silone il rustico Silone (cfr. Teodori 2008, p.127) a rimarcarne l’ascendenza con il rus piuttosto che con la civitas.
I primi capitoli di Uscita di Sicurezza rappresentano, in forma di racconto, quattro momenti che Silone considera fondativi della sua identità morale e politica, in un arco temporale compreso tra la infanzia e la sua adolescenza: Visita al carcere, La chioma di Giuditta, Incontro con uno strano prete (Don Orione), Policusc’ka. I primi due racconti narrano come, nel contesto della piccola comunità contadina di Pescina, sotto la guida ferma del padre, ma in modo istintivamente («Appena vi misi piede (nel carcere), il cuore cominciò a battermi tanto forte da farmi male», p. 758) Silone abbia appreso, in modo definitivo, il proprio sentimento inderogabile di rispetto per la persona, esteso anche (o forse proprio a partire da) nei confronti dei più reietti, dei miserabili, non solo quando essi siano poveri diavoli accusati di piccoli furti, ma anche quando abbiano commesso azioni abiette a danno di infelici magari ancora più infelici di loro. Il racconto Policusc’ka narra (p. 796) come questo apprendimento si sia poi approfondito, quasi casualmente, tanti anni dopo, a Mosca:


Una sera nelle vicinanze del monumento a Puskin, trovandomi insieme ad alcuni dirigenti della gioventù comunista sovietica, vidi due militi portare via, di peso, un vecchio contadino Ubriaco. Subito lo riconobbi. “Non potreste farlo rilasciare?” proposi ai miei compagni. “Perché?” mi rispose uno di essi. “Non è che un insetto parassita”.


Nel personalismo dell’universo siloniano gli esseri umani non possono mai essere disumanizzati da parte di chicchessia, nel nome della virtù, della morale, della ragione o del bene pubblico. Questo a-priori condizionerà ogni concezione politica e morale, saldandole in modo insolubile. In altre parti di Uscita di sicurezza Silone non racconta l’apprendimento di questo rispetto radicale per la persona umana attraverso exempla personali, ma lo analizza in forma di saggio. In particolare ci paiono assai significative le riflessioni contenute in due scritti, Situazione degli ex, del 1942 e La scelta dei compagni, del 1954. La Situazione degli ex, scritto nel momento più cupo della storia europea, tanto più cupo nella prospettiva di un naufrago del comunismo, riesce ad estrarre dalle tenebre raggi di sole.


Le sorti del socialismo o comunismo, voglio affrettarmi ad aggiungere, a mio parere non sono per nulla legate al marxismo. Il socialismo o comunismo è una aspirazione permanente dello spirito umano assetato di giustizia sociale. Nel suo nucleo essenziale esso è una estensione del criterio morale dalla sfera privata all’intera vita sociale; è un ideale di ulteriore umanizzazione dell’ambiente terrestre, mediante la sottomissione all’uomo delle forze economiche che tendono ad opprimerlo. Questo ideale, come tutte le grandi aspirazioni umane ha assunto varie forme e giustificazioni nel corso della storia. Platone arrivò al comunismo partendo dal concetto socratico della virtù; le prime comunità cristiane dall’attesa del Regno di Dio; gli utopisti del XVIII secolo dalla filosofia del diritto naturale; Marx ed Engels dall’analisi del capitalismo. Una vicenda dottrinale altrettanto varia ha vissuto, come noto, il cristianesimo, che ha avuto una teologia platonica, una aristotelica, una kantiana, una hegeliana, una darwiniana e adesso una esistenzialista (Silone 1999, vol. II, p.873).


Il pendolo della vita morale e politica oscilla dunque tra umanizzazione e disumanizzazione, e per Silone l’umanizzazione non è altro che una metastorica sete naturale di giustizia iscritta nell’essere umano, che non deve essere confusa col suo costrutto filosofico, religioso, scientifico, che al contrario, assumendo forme dogmatiche e traducendosi in apparati, può anche paradossalmente portare alla sua negazione. Ulteriori approfondimenti si leggono ne La scelta dei compagni. Silone in questo scritto non si interroga sulla sete naturale di giustizia e le distonie delle sue forme coscienti, filosofiche, religiose, politiche, ma su una questione ancora più grave e lacerante, e cioè sulla “evaporazione” nichilista nell’uomo di oggi del senso naturale di giustizia, che si manifesta quando al senso naturale di giustizia si contrappone un altrettanto naturale senso di indifferenza morale:


La rappresentazione che di questa situazione dell’uomo di oggi ci ha dato la letteratura posniezschiana ed esistenzialista è a tutti nota. Essa si riduce a questo: ogni legame tra l’esistenza e l’essenza dell’uomo è rotto; l’esistenza è priva di ogni significato che la sorpassi; l’umano si riduce a mera vitalità (Silone 1999, vol. II, p.879).


L’opposizione di Silone a questa prospettiva, al culto vitalista della forza e del successo, è netta, fin troppo netta, se gli fa scrivere che “né la letteratura né le arti figurative possono prendere dimora nella situazione nichilista” e che i migliori astrattisti nichilisti “sono diventati giocolieri del nulla”. Silone non si sottrae alla necessità di replicare in modo accorato e drammatico, senza celarsi dietro certezze inesistenti e prendendo spunto dalla sua esperienza personale e dai suggerimenti di altri grandi contemporanei partecipi del dubbio e dell’incertezza: Ernst Junger, Albert Camus, André Malraux, Simone Weil. Silone ricorda l’età dell’oro di una stagione (in vero breve) a cavallo tra 800 e 900 in cui la sete di giustizia sociale e di libertà ha trovato il suo cavaliere, il proletariato:


Correvano allora gli ultimi anni di un’epoca in cui numerosi fatti sembravano confermare la validità del mito della missione liberatrice dei proletari [...]. Il movimento dei lavoratori, nel suo insieme appariva agli intellettuali più sensibili come la grande alternativa popolare alla decadenza nichilista annunciata da Nietzsche: era la promessa di una nuova epoca” (p. 885).


La illusione si dissolve presto, quando ci si avvede che «la coscienza di classe non è un prodotto naturale della classe» e che di conseguenza l’unità della classe operaia si frantuma:


l’operaio può essere, come si è visto e si vede, un attivista delle cause più opposte: può essere camicia nera e partigiano, boia e vittima o semplicemente, nei paesi ricchi, e tranquilli, un pigro filisteo senza ideali, assicurato contro la disoccupazione, contro la vecchiaia, contro le malattie [...]. Egli può essere ancora Cristo, il povero Cristo che prende su di se i peccati degli altri e si sacrifica per tutti: e può essere anche Barabba, un ignobile Barabba totalitario, calpestatore di tutto ciò che nel prossimo è di più umano (p. 887).


Quale è dunque l’uscita di sicurezza da un baratro nichilista aperto sotto i piedi dopo il fallimento di quel dio in cui si è creduto? Silone sottolinea la vacuità di appelli ad un generico ed autocompiaciuto umanismo, letterario o filosofico, che non possono dissimulare la tragicità della nostra condizione umana. La sua proposta, in un contesto in cui ogni premessa metafisica o storica pare franare, è quella di assumere, diremmo vichianamente, l’affettività quale guida dell’intelligenza, l’intendere con animo perturbato e commosso. Una affettività non astratta, ipotetica, ma rivolta, nel nostro presente, a uomini in carne ed ossa ed alle loro sofferenze. E così il percorso di Silone diviene un percorso circolare che ritorna alla origine, alla palpitazione di un bambino che entra nel carcere di Pescina per dare conforto ad un povero disgraziato, portandogli qualche sigaro. Non è una panacea, avverte però Silone: «noi siamo costretti a procedere sotto un cielo ideologico buio; l’antico e sereno cielo mediterraneo, popolato di lucenti costellazioni, è ora coperto; ma questa poca luce superstite, che aleggia intorno a noi, ci consente almeno di vedere dove posare i piedi per camminare» (pp. 893-894). Questa luce superstite è alimentata da tre sentimenti/convinzioni: «la certezza intima che noi uomini siamo esseri liberi e responsabili... la certezza che l’uomo ha un assoluto bisogno di apertura alla realtà degli altri... la certezza della comunicatività delle anime».


3. Le fughe provvidenziali

Nel percorso siloniano il passaggio chiave è rappresentato dalla sua esperienza di comunista, che viene narrata in Uscita di sicurezza, con precisione e accoramento, nel lungo capitolo che porta, come si è già detto, lo stesso titolo del libro. I primi paragrafi narrano i primi esordi della sua precoce militanza politica socialista, appena uscito dalla adolescenza, in una linea di continuità con la antica tradizione solidale del suo mondo contadino e quindi la sua rapida radicalizzazione, nei burrascosi anni del Biennio rosso e dello scontro col Fascismo, con l’adesione, naturale e inevitabile, del pari di quella di tanti suoi coetanei, in quella inedita ed epocale nuova forma politica rappresentata dal Partito comunista, assurto come pilastro, organizzato in forma clandestina, della lotta antifascista e della fondazione di una società socialista. La metamorfosi per Silone è profonda: «per me, come per molti altri, era una conversione, un impegno integrale, che implicava un certo modo di pensare e un certo modo di vivere» (p. 823): un modo di pensare che però comportava la rimozione di quella tensione cristiana che aveva generato il suo primo impulso alla rivolta: «Fu nel momento della rottura che sentii quanto fossi legato a Cristo in tutte le fibre del mio essere. Non ammettevo però restrizioni mentali. La piccola lampada tenuta accesa... fu spenta da una gelida ventata» (p. 824).
Con l’adesione al Partito, il XX secolo, con tutta la sua dura secolarizzazione, ma anche con le sue promesse di palingenesi, spazza le tracce di una religiosità ancestrale: «Il partito diventò famiglia, scuola e caserma; all’infuori di esso il mondo restante era tutto da distruggere» (p. 825). Il tempo dei dubbi, alimentato dalle degenerazioni autoritarie del movimento comunista, e del profondo divario corrente tra le mentalità dei comunisti russi e dei comunisti occidentali, venne presto per Silone, come per tanti altri, senza però determinare rotture, per ragioni pratiche e per la speranza di possibili evoluzioni positive. Le prime crepe, nel caso dei comunisti italiani, si sarebbero aperte nel contesto della conquista del potere da parte di Stalin, acuite dalla claustrofobia, esasperata dalla clandestinità, propria di una istituzione totale che impone una disciplina ferrea ed esclude la possibilità di ogni dialettica critica. In questo contesto si inserisce il distacco di Silone, avvenuto per fasi alterne, dopo un tira-e-molla durato un paio di anni, fino alla espulsione del 1931. La separazione, narrata nei paragrafi finali di Uscita di sicurezza, avviene in modalità drammatiche simmetriche a quelle che avevano caratterizzate l’ingresso, assumendo, come le prime, una dimensione tanto politica quanto esistenziale: l’espulsione assume le caratteristiche duplici di un lutto, di un addio ad una densa tranche de vie ed alla giovinezza, e di una liberazione. Di una liberazione, perché, nel caso di Silone, l’espulsione non lo fa precipitare nel limbo amaro e rancoroso degli “ex comunisti”, ma viene colta al volo, come «la guarigione da una nevrosi» (p. 853) , da una coazione mentale e morale, grazie al ricupero pieno di quella originaria soggettività cristiana e socialista, che era stata spenta anni prima dalla ricordata “gelida ventata” solo in modo temporaneo, che diverrà il tema di fondo della trilogia Fontamara, Vino e pane, Il seme sotto la neve, nella quale si esprimerà la sua nuova identità letteraria e gli fa concludere che «anche l’impulso di libertà può essere una trappola, mai peggiore della rassegnazione» (p. 861).
Scorrendo le pagine di Uscita di sicurezza si possono cogliere analogie tra la “fuga” del 1931 ed un’altra precedente istintiva evasione giovanile, quella da un lugubre collegio romano di preti, diretto con piglio militaresco, dove Silone era finito negli anni della Grande guerra per proseguire gli studi ginnasiali: «Me ne andai senza riflettere, senza rendermi conto di quel che facevo, e senza alcuna meta, semplicemente perché ad un certo momento vidi il cancello spalancato» (p. 769). Anche questa una espulsione provvidenziale da una istituzione totale, che pretende di imporgli la sua normalità, per conseguenza della quale Silone, in modo del tutto casuale, fa l’incontro più importante della sua vita, quella con uno “strano prete”, Don Orione.


Riferimenti bibliografici

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Teodori M. (2008), Storia dei laici, Marsilio, Padova.
Zangrandi G (1971), Il lungo viaggio attraverso il fascismo, Garzanti, Milano, voll. 1-2.



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