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Dalla democrazia all’omnicrazia:
l’educazione al potere in Aldo Capitini

Giuseppe Moscati
Articolo pubblicato nella sezione “Libertà e democrazia nella cultura politico-giuridica italiana”
«È un errore credere che la nonviolenza sia pace,
ordine, lavoro e sonno tranquillo, [è] una lotta continua
contro le situazioni circostanti, le leggi esistenti,
le abitudini altrui e le proprie, contro il proprio animo
e il subcosciente, contro i propri sogni» - Aldo Capitini
(Capitini 1948, pp. 57-58)

Nell’ambito di una riflessione il più possibile panoramica sul rapporto dialettico tra libertà e democrazia nella cultura politico-sociale del Novecento, una considerazione sulla questione del potere in Aldo Capitini può offrire degli spunti piuttosto interessanti già a partire dall’originalità della proposta omnicratica del filosofo sui generis perugino.
Il presente contributo si pone lo scopo di illustrare alcuni elementi fondamentali dell’elaborazione teorica di Capitini per cogliere al meglio la radice pedagogico-educativa di quella che, di fatto, è la prospettiva di una ottimizzazione della democrazia: l’omnicrazia, appunto.
La storia della parola “omnicrazia”, come ha avuto modo di ricordare Pietro Polito, comincia con Capitini (cfr. Polito 1988, p. 127), che la intende come la piattaforma allargata sulla quale tutti partecipano al potere e alla vita dello Stato.
Con questo termine, un neologismo che Capitini conia accostando il lemma greco kràtos (potere) a quello latino omnis (ciascuno), dobbiamo necessariamente intendere il "luogo" in cui si possa attuare la prassi di un’ulteriore apertura del sistema democratico. In altri termini, un esercizio del potere dal basso e allargato ai tutti poiché tutti, secondo compresenza - come vedremo più avanti -, possono cooperare alla costruzione dei valori.
All’omnicrazia come idea compiuta, in realtà, Capitini approda nella maturità e lo fa dopo essere passato da alcuni concetti chiave del suo pensiero quali quelli di persuasione, nonviolenza, apertura, aggiunta e altri, compreso quello di compresenza (possibilità infinita di tutti); tuttavia la genesi di questo orizzonte della realtà e del potere di tutti muove da una urgenza di tipo educativo.
Prima della stagione della collaborazione in chiave di liberalsocialismo con il fraterno amico Guido Calogero (con il quale stenderà il “Manifesto del liberalsocialismo” nel 1937), ma anche con Walter Binni, e prima del confronto - da persuaso - con un amico altrettanto fraterno come il perplesso Norberto Bobbio, solo per citare tre dei suoi principali interlocutori (cfr., almeno, i relativi carteggi: Capitini 2009; 2007; 2012), Capitini si concentra appunto sugli aspetti più propriamente educativi di un atto che, da pedagogico (pre-politico), evolverà in atto sociale, politico-aperto.
La componente educativa è notevole e Capitini non l’abbandona mai poiché la ritiene coessenziale alla formazione del cittadino e alla stessa vita democratica di una società realmente libera, autenticamente aperta.
Ciò è tanto più vero in quanto tale componente educativa la troviamo anche in opere non esplicitamente pedagogiche come, per esempio, Elementi di un’esperienza religiosa (1937) o Antifascismo tra i giovani (1966), l’una considerata da Benedetto Croce - che pure non ne condivideva tutte le tesi - di grande beneficio per i giovani a fronte del vuoto educativo del regime fascista e l’altra una puntuale ricostruzione dell’esperienza educativa antifascista favorita, nell’ambiente della Scuola Normale Superiore di Pisa, da Capitini e altri (soprattutto l’amico Claudio Baglietto, poi morto esule a Basilea).
Un antifascismo, quello capitiniano, vissuto come una opposizione morale, religiosa nel senso della Religione aperta - libro del 1955 messo all’Indice da Pio XII -, da persuaso, da libero religioso e da convinto vegetariano.
Dalla Normale sarebbe stato poi allontanato da Giovanni Gentile, oltre che per il rifiuto di Capitini di prendere la tessera del partito fascista, anche per il suo essere vegetariano nella convinzione che, esitando davanti all’uccisione degli animali, i giovani avrebbero a maggior ragione esitato dinanzi a quell’uccisione di esseri umani che Mussolini avrebbe preteso da loro in trincea.


Dal controllo al potere: il soffio omnicratico

L’istanza educativa è ben rintracciabile anche nel lavoro, svolto per decenni da Capitini, per la pace, il disarmo e in generale la cultura della nonviolenza. Una delle più limpide testimonianze ne è un passaggio assai importante della “Mozione del popolo per la pace” da lui elaborata e poi letta alla Rocca di Assisi, nel momento culminante della Marcia Perugia-Assisi del 24 settembre 1961:


Per preparare la pace durante la pace è necessario diffondere nell’educazione e nei rapporti con tutti a tutti i livelli, una capacità di dialogo, una sincera apertura alla coesistenza ed alla pacifica competizione di ideologie e di vari sistemi politici e sociali, nel comune sviluppo civile, ed affermare il lavoro come elemento costruttivo fondamentale (Capitini 2022a, p. 53).


La questione del potere da estendere al più diffuso possibile, dunque, è dirimente ed è al centro di Il potere di tutti, opera postuma e composita frutto del lavoro di anni del Capitini “politico”. L’esigenza forte che egli avverte è, innanzitutto, quella di governare attentamente il delicato e peraltro necessario passaggio dal controllo al potere, considerando che il primo - nelle sue tre forme: «informazione esatta», «critica adatta», «progettazione progrediente» - è già di per se stesso potere e che sviluppare quest’ultimo corrisponde, in ultima analisi, ad accrescere l’una o l’altra di tali forme, secondo la propria capacità (Capitini 1999, p. 160, ma si veda pp. 160-162).
Interessato a indagare la dimensione sociale, vale a dire la declinazione politica del controllo che si trasforma in potere, Capitini recupera proprio la sua idea di “persuasione della compresenza”, la quale è intimamente legata alla “realtà di tutti” e favorisce sia l’introiezione delle norme che la società alla quale si appartiene si è liberamente date, sia l’accettazione dei progetti proposti. Anzi, in un certo senso è proprio la realtà di tutti a dare potere a quelle norme e a quei progetti.
Come si legge in Il potere di tutti,


esiste un ordine sociale che è la convivenza di tutti e non è il semplice interesse individuale; un persuaso della compresenza e dell’omnicrazia può tralasciare la difesa di tale ordine sociale in quanto egli teme di sottoporre tale ordine al proprio vantaggio individuale, e può tralasciare di vedere la difesa dell’ordine sul piano della guerra, la quale oramai viene condotta come strage e può arrivare all’uso, oltre che delle armi chimiche, delle armi nucleari, il che deforma ogni carattere umano della lotta. Ma rimane il semplice ordine sociale come convivenza pubblica, come rispetto di quelle istituzioni che spesso sono strumenti del potere di tutti (ivi, p. 161).


L’omnicrazia, lo ha ribadito Emanuele Profumi, «è espressione di un potere sociale maggiormente democratico di quello delle democrazie storicamente realizzate» e tende a superare il potere di gruppi fondato sulla violenza o sulla proprietà. Anche qui il superamento dell’autoritarismo, cioè del diritto di alcuni di dominare o sfruttare tutti gli altri, ha fatto il posto ai sistemi democratici che internamente lavorano per essere sempre più democratici, fino a diventare omnicratici (Profumi 2019, p. 235, nota 10).

Capitini precisa che, se


non è possibile collaborare sul piano della guerra o guerriglia, che porta a stragi, terrorismo, tortura, cioè ad una violenza che prende mano rispetto al motivo originario, è possibile stare accanto a chi semplicemente usi la violenza entro stretta disciplina di giovare alla convivenza di tutti nella loro evoluzione, una violenza in ambito modesto, strettamente condizionata dai modi (quante armi si possono usare che non uccidono!), accompagnata costantemente da un soffio omnicratico (Capitini 1999, p. 161, corsivo mio).


Senza tale soffio omnicratico, benefico per la vita democratica, si rischia che della guerra e della pace continuino a decidere poche persone al posto di una immensa maggioranza; che il potere, ma anche il controllo del potere, continui a cadere dall’alto e venga subìto dai più; che i diritti delle minoranze continuino ad essere schiacciati da un eccesso di potere detenuto dalla maggioranza; e che non venga prestata la giusta attenzione alla scelta dei mezzi per perseguire un fine, dove quest’ultimo è veramente nobile solo se lo sono anche anche quelli.
Opponendosi a fenomeni estremamente nocivi come burocrazia e tecnocrazia, la spinta omnicratica lavora perché il metodo della persuasione e della condivisione possa finalmente soppiantare il vecchio metodo del comando e della gerarchia.
Il compito del persuaso nonviolento, comunque, è quello di «richiamare costantemente al fine; ma comprende che c’è violenza e violenza, e quella per mantenere la convivenza di tutti è più giustificata di ogni altra. Io non potrei stare in un governo che può dichiarare la guerra, ma non avrei difficoltà a stare in un’amministrazione di ente locale» (ivi, pp. 161-162).
A proposito del rispetto dell’ordine locale, d’altra parte, esso


non significa accettazione dell’ordine costituito, da difendere ad oltranza, ma il riconoscimento che si può mantenere la convivenza nonviolenta tra gli abitanti di una località, che è ambito modesto, mentre si può, nello stesso tempo, portare avanti la rivoluzione nonviolenta con le sue tecniche per trasformare le strutture e tutta la situazione locale (ivi, p. 162).


Viene così esaltato quell’ambito degli enti locali che meglio di altri promuove la prassi nonviolenta e omnicratica in quanto la regione, la provincia e il comune e ancor più la frazione e i singoli quartieri permettono una più diretta conoscenza tanto delle persone che vi abitano e vi lavorano quanto dei problemi concreti che questi incontrano e con i quali sono spesso costretti a coesistere per lungo tempo senza (o prima che) le istituzioni intervengano efficacemente.


Verso la realtà di tutti

L’istanza di fondo di questa visione capitiniana “dal basso” e con l’orizzonte aperto ai tutti non può che essere una “permanente democrazia diretta”, ma certo ben lontana dalle derive populiste che così perniciosamente ne sarebbero poi sorte.
La radice di una simile prospettiva omnicratica, come anticipato, è eminentemente educativa, ma forse meglio si dovrebbe dire: etico-educativa. Mi pare opportuno rileggere, allora, alcuni passi del primo degli scritti pedagogici capitiniani, L’atto di educare (1951), che tra l’altro ci offre la preziosa opportunità di mettere a fuoco l’importanza per il nostro discorso di un altro fondamentale concetto come quello della “realtà liberata”.
Di due anni più tardo sarà Il fanciullo nella liberazione dell’uomo, mentre la grande opera pedagogica della maturità di Capitini è quella, in due volumi, che porta il titolo di Educazione aperta (1967-68) e dove si legge, tra l’altro, una bellissima definizione di apertura. Contestando le precedenti visioni (sia trascendentistiche, sia immanentistiche) della realtà, tutte marcatamente fondate sull’io, Capitini valorizza il tu e ridiscute i fondamenti della questione tanatologica. Così infatti si pronuncia:


L’atto di apertura al tu, dico tu con la minuscola - ogni essere - e non Tu con la maiuscola, è prassi di interesse e affetto all’essere particolare, nella sua limitatezza, nella sua possibilità di morire, interiorizzando quell’essere. Questo vuol dire che il problema della morte è vissuto in direzione del tu, non dell’io: io mi apro a che tu sia, oltre l’esistenza attuale di limitato, forse di sofferente, di mortale, e solo in questo modo, in sede di tu, posso capire questo oltrepassare il mondo dell’esistenza, cioè non facendo questione affatto della mia prosecuzione oltre la morte (Capitini 2019, I, p. 55, corsivi miei).


Per essere veramente nella realtà liberata, scrive in L’atto di educare Capitini con la sua prosa evocativa, è necessario che «i ragazzi avvertano che la città non è qualcosa di chiuso che assolutizza se stessa, il suo continuare, ma che è aperta a sentire la compresenza, il culto dei valori, della musica per esempio, del tu che comprende e perdona entro la città stessa» (Capitini 2022b, p. 129). Dove la compresenza si conferma il valore attorno a cui nasce e si sviluppa la socialità aperta di tutti: di tutti gli esseri vicini e di tutti gli esseri lontani, tendendo alla cittadinanza mondiale.
Ma allora cosa veramente è questa realtà liberata quale esplicazione della realtà di tutti? E, poi, liberata da cosa?
Tutto ruota attorno al rapporto tra società e scuola e dunque è ancora una volta una questione socio-educativa: massimamente se abbiamo a che fare con una società chiusa (e sostanzialmente, per Capitini, tutte le società lo sono o tendono a esserlo se le si abbandona al loro decorso di cristallizzazione), la scuola ha da distaccarsi dalla società in virtù del peculiare margine di libertà che sempre dovrebbe contraddistinguerla. L’atto di educare che è al centro di questa riflessione capitiniana d’inizio anni Cinquanta su pedagogia-educazione e politica-società, non fa che restituire «alla scuola questa differenza qualitativa, che dà un fondamento più profondo alla richiesta di indipendenza della scuola dalla società insufficiente» (ivi, p. 131, corsivo mio).
Incontriamo così quel che l’omnicrazia si propone veramente di liberare: la società insufficiente, ovvero quella realtà che è schiava della violenza, della sopraffazione, del sopruso, del dominio, insomma della legge di natura vale a dire della “regola” del più forte che schiaccia il più debole.
Appare chiara la centralità di un concetto, quale quello di potere, che Capitini declina peraltro in maniera del tutto differente da quelle che possono essere le relative derive burocratico-totalitarie. Potere, capitinianamente, è appunto potere dal basso e di tutti, potere di ogni singolo cittadino che si fa centro e partecipa alla vita democratica, di ogni piccolo gruppo, di ogni minima comunità, di ogni minoranza... In questo senso Capitini ha contribuito a promuovere un’idea aperta di potere, tale che l’uomo, ogni uomo, può farsi centro di potere e dunque cooperare a quel decentramento del potere stesso che non può che fare bene alla società tutta.
Va peraltro ricordato che l’uomo «non è solo il soggetto, ma anche l’oggetto del potere sociale» (Stoppino 2016, p. 738) e di questo aspetto ci pare che Capitini sia pienamente consapevole. Merita di essere riletto quel passo in cui illustra le dinamiche del rapporto maestro-educando in un gioco di rispecchiamento proprio con le dinamiche socio-politiche:


Quanto più incombe il maestro, tanto meno sorgono gli altri, e l’io si sviluppa antitetico a lui. Sono le tirannie che generano i ribelli. Il valore della compresenza apre la pedagogia dell’interiorismo e della dialettica dell’io, che, difettando appunto di socialità essenziale, finì per valorizzare enfaticamente la patria. [...] Il maestro stesso non dà rilievo alla propria persona, ma alza continuamente la compresenza e il valore, mostrando e suscitando apertura verso tutti e verso il valore. E spesso imposta la comunicazione dell’istruzione problematicamente, mediante ricerca e libera discussione (Capitini 2022b, p. 133).


È qui che Capitini, d’altra parte, insiste sull’imprescindibilità della indipendenza e laicità della scuola da quella che chiama “la vecchia società” così che il sistema scolastico possa finalmente «adempiere, nel modo migliore, il suo ufficio verso la società nuova» (ivi, p. 134).
Per attuare un simile progetto di autonomizzazione della scuola dalla società, o meglio di promozione, garanzia e tutela di una loro inter-indipendenza nella rispettiva vita autonoma, è allora necessario puntare su quella profonda persuasione dei valori che, sola, può realizzare una realtà liberata (di valore essa stessa, appunto) che non accetta più il regno della violenza, della discriminazione e dell’esclusione.


La cooperazione corale alla produzione del valore

In tale direzione, la più grande fortuna che possa capitare al fanciullo cui guarda Capitini è proprio quella di incontrare familiari, maestri e amici che, persuasi dei valori, si rivelino persone appassionate dell’arte, della giustizia sociale, della vita religiosa, della cultura e al tempo stesso della bontà, del coraggio del sacrificio, della compresenza dei morti e in senso lato di relazioni interpersonali ispirate alla lealtà (cfr. ivi, p. 45). Il che significa ispirate alla nonviolenza, alla “nonmenzogna” e alla “noncollaborazione con il male”, dove quest’ultimo naturalmente non ha un’accezione metafisica, bensì rinvia all’idea di dominio già richiamata.
Per Capitini sono questi valori a poter contrastare efficacemente e continuativamente la trita quotidianità e le brutture che spesso, finendo per annichilirla, caratterizzano la vita; e tali valori contribuiscono così a rendere più forte il fanciullo di oggi e il cittadino di domani. Mi pare particolarmente interessante quanto egli scrive a proposito dell’adolescente che prima «idoleggia Napoleone perché vi scorge l’energica affermazione di sé e la turbinosa ascesa alla potenza», ma che poi, quando «conosce la musica di Beethoven, la Terza Sinfonia, la Quinta, l’Egmont, il Coriolano, ecco che ha scoperto un eroico di valore più puro, e preferisce e si appassiona per questo» (ibidem).
Sarà pertanto opportuno precisare meglio cosa intenda Capitini per valore e lo possiamo fare a partire da una domanda che si pone sempre tra le righe di L’atto di educare:


Che cos’è che unifica la compresenza, la rende attiva, della migliore attività che sia pensabile? È il valore, cioè la compresenza e la cooperazione di tutti alla produzione del valore; e questa collaborazione infinita a cui tutti sono presenti, e che si compie interiormente, costituisce un tipo di realtà diverso da quello insufficientissimo con cui hanno a che fare i nostri occhi, le nostre mani, quella dove chi è vivo e chi è morto, e chi è sano e chi soffre (ivi, p. 76).


Di conseguenza, proprio in virtù del valore e, meglio ancora, della cooperazione di tutti alla produzione del valore, la realtà di tutti comprende ed include senza lasciare nessun individuo fuori, neanche il morto, né il più reietto, il più lontano, il più infermo, il più dimenticato dalla società idolatra dell’efficienza a tutti i costi, ovvero il meno produttivo. Questo è possibile solo grazie al fatto che la realtà di tutti si fonda sul valore della libertà e, insieme, sul valore dell’amore; Capitini sottolinea che la realtà di tutti non va considerata come un punto di arrivo, bensì decisamente come un punto di partenza a partire dal quale impegnarsi per una prassi democratica sempre più virtuosa, pertanto sempre più tendente all’ideale dell’omnicrazia.
Si tratta di una realtà, come egli chiarisce, che non può essere conosciuta altrimenti che attraverso impegni pratici, atti concreti, tesi verso il valore e, appunto, verso la compresenza, ma tenendo sempre presenti principalmente i singoli individui, anzi i singoli esseri, secondo quella libera aggiunta che il persuaso percepisce come il proprio, fondamentale dovere morale.
In breve, in virtù di questa libera aggiunta e di un certo dinamismo del valore che si va realizzando con quegli impegni e con quegli atti, la realtà di tutti – da strumento di liberazione qual è – trasforma la realtà insufficiente. La trasforma radicalmente, consumandone i limiti strutturali e contestandone il dolore che essa arreca, allargandone gli orizzonti rimasti troppo a lungo ristretti, arricchendola infinitamente di tutti gli esseri possibili (cfr. ivi, pp. 76-78).
A proposito del dinamismo del valore, è ormai chiaro che quest’ultimo non è affatto qualcosa di statico o slegato dalle trasformazioni sociali e dai cambiamenti politici, non ristagna in una sorta di “dualismo cristallizzato”; piuttosto esso corrisponde a una intrinseca tramutazione di quella realtà che abbiamo visto essere per Capitini inaccettabile, inadeguata, insufficiente. Il concetto di tramutazione, tra l’altro, è collegato intimamente a quello del valore, che costituisce una tensione perenne: la «non accettazione non deve tradursi - ha scritto Ornella Pompeo Faracovi - in rinuncia, né in ribellismo sterile, ma deve calarsi in opere e in comportamenti che consentano la tramutazione, per quanto piccola e modesta essa sia, della realtà» (Pompeo Faracovi 1990, p. 88).
Tutto questo sarà fatto oggetto dei lavori del Convegno internazionale per la nonviolenza tenutosi a Perugia il 30 gennaio del 1952, occasione per ribadire i princìpi e i metodi della nonviolenza quale radicale opposizione alla violenza, allo sfruttamento e all’oppressione. E, nello specifico, per affermare l’urgenza di un federalismo nonviolento mondiale come superamento dell’imperialismo e del totalitarismo come pure del centralismo statale, dell’accentramento del potere nella mani di una dominante oligarchia economico-politica (oggi diremmo: finanziaria) e di un certo capitalismo disumano.
Tornando alla realtà liberata, però, è altrettanto importante sottolineare un altro aspetto fondamentale, un elemento che per Capitini, in ultima analisi, tiene insieme pedagogia, etica e politica, ma anche logica ed estetica. Dopo aver ricordato che l’individuo, per millenni, si è sempre dibattuto tra la mortificazione di sé e l’esaltazione di sé, egli così scrive a proposito della possibile liberazione:


Quando l’atto estetico sia portato al punto festivo, l’atto educativo al punto di salutare nell’educando la differenza qualitativa della realtà nuova, l’atto di pensiero al punto dell’apertura a nuove categorie, l’atto sociale alla persuasione dei valori aperti ai tutti come società nuova, si può, guardando il proprio io individuale, vederlo nella realtà liberata. Senza percorrere quella via, senza aprirsi lietamente, come in un mattino, a quegli atti, l’io individuale resta fenomenico, sconosciuto, di qua dalla liberazione (Capitini 2022b, p. 151, corsivo di Capitini).


Il potere dal basso dei C.O.S.

È in questo senso che la società stessa, secondo la linea interpretativa proposta dall’autore umbro, può essere “letta” alla luce della categoria-prassi della realtà liberata quale incipit di una realtà alternativa a quella dominata dalla violenza, di un potere che non si configuri più alla stregua di un dominio. L’auspicio capitiniano, allora, è che ogni singolo cittadino faccia proprio il senso di responsabilità nei confronti di una realtà insufficiente in quanto ingiusta, violenta, oppressiva e sostanzialmente sorda alle sofferenze dei deboli e, appunto, dagli esclusi dalla società.
Dalla scuola e dalla pedagogia (atto educativo) alla società (atto sociale), il pensiero “politico” di Capitini passa per l’esperienza dei C.O.S., quei Centri di orientamento sociale da lui ideati e avviati sul territorio all’indomani della Liberazione e che persino un prefetto, nel gennaio 1946, arriva a elogiare quale vera e propria palestra di democrazia per tutti:


una istituzione, diretta da un indipendente in collaborazione con persone dei vari partiti, che ha lo scopo di promuovere lezioni e conversazioni su argomenti amministrativi, politici, sociali, educativi, a cui possono intervenire indistintamente tutti i cittadini, e tutti vi possono prendere la parola. [...]. Il Centro di Orientamento Sociale è una scuola di democrazia aperta a tutti (Maori, Moscati 2014, pp. 88-89).


I C.O.S. rappresentano dunque un tentativo di accostare popolo e intellettuali, pubblico e autorità, attraverso due incontri assembleari a settimana ispirati al motto “ascoltare e parlare” che, «studiando la situazione nazionale ed internazionale, i danni del fascismo ed i problemi della ricostruzione, i problemi cittadini dai più umili ai più complessi, i programmi dei partiti politici, i problemi della costituente» (ivi, p. 89), si pongano come utili strumenti di esercizio della più autentica prassi democratica. Il tutto finalizzato alla creazione di «un costume democratico di ragionamento, di comprensione, di aiuto reciproco» (cfr. ibidem) e alla promozione di una cultura del confronto, del dibattimento, del contraddittorio e del dissenso.
Proprio in L’atto di educare Capitini riconosce cosa più efficacemente gli ha insegnato l’esperienza dei C.O.S., vale a dire che


la cultura è più viva se procede da problemi che interessano direttamente. Per esempio, uno dei principi fondamentali del C.O.S. era quello di alternare le riunioni su problemi cittadini (il lunedì) con quelle sui problemi sociali, politici, culturali (il giovedì). Questo dava al popolo un senso di completezza e direi anche di fiducia, per constatare che la cultura non si presentava più trascurando e sprezzando i problemi circostanti immediatamente il popolo, ed anche per il fatto che su questi problemi il popolo può parlare, può dire cose provate e appropriate; e quindi prende coraggio, vince il silenzio, la timidezza, la sfiducia; e chi può parlare, ascolta anche più profondamente. Un altro principio del C.O.S. era quello di non parlare mai senza far posto ad eventuali obiezioni e domande di chiarimenti: elemento questo importante del metodo collettivo, della partecipazione corale (Capitini 2022b, pp. 141-142).


Ecco, è questo il cuore del metodo di decentramento del potere.
Solamente tenendo periodiche riunioni dedicate alla conoscenza e alla condivisa ricerca della soluzione dei problemi amministrativi locali, infatti, è possibile dedicare la giusta attenzione ai delicati meccanismi di una democrazia diretta, che altrimenti rischia di scadere proprio a pericoloso populismo e che invece è chiamata ad andare ben oltre la democrazia rappresentativa.
Non solo, a metà degli anni Quaranta, i temi posti ad oggetto di tali periodiche riunioni sono di interesse collettivo, dell’intera comunità cittadina, ma soprattutto il discuterne «abitua ad avere gli occhi aperti e attenti sul proprio luogo, sul suo aspetto ordinato, sulla buona amministrazione» (ivi, p. 142). Non manca forse una qualche eco aristotelica.
Nell’atto sociale, insomma,


l’essenza sta nel calare le strutture politiche nella libertà al massimo del suo significato che dissolve l’assolutezza di ogni istituzione, nel valore raggiunto quando la realtà di tutti costituisce l’individuo. Davanti all’atto sociale sta dunque lo Stato liberato, cioè il molteplice associarsi che dà tutto alla libertà di tutti. [...] Nell’atto sociale la politica che traccia le sue azioni e strutture gravita su valori che sono il metodo nonviolento [...], il rispetto infinito di tutti come eguali, il deliberare insieme, la partecipazione competente al bene di tutti, la solidarietà nei mezzi verso i singoli (ivi, pp. 125-126).


Capitini può così arrivare ad affermare che «il valore libera non solo nell’educazione, ma anche nella socialità» (ivi, p. 126): è, questo, l’avvio di una società che sia qualitativamente differente rispetto alla società regolata dalla legge del più forte, ovvero inevitabilmente secondo violenza, ingiustizia e oppressione.
Siamo perciò partiti dall’atto educativo, per il quale la relazione tra il maestro e il fanciullo è improntata all’apertura e all’aiuto del primo nel processo di liberazione del potenziale del secondo, e siamo approdati all’atto politico, che fa tesoro dell’educazione aperta e in un certo senso, complice la persuasione nonviolenta, la traduce in prassi di omnicrazia al fine di liberare - di continuo - la realtà sociale dalla sua tendenziale insufficienza.
Il messaggio lasciatoci in eredità dai C.O.S., la cui prerogativa è un potere pensato, costruito e agito dal basso, supponiamo abbia oggi ancora molto da suggerire a una società segnata, da una parte, da una pressoché latitante partecipazione e, dall’altra, da una diffusa, pericolosa tendenza alla delega dell’esercizio democratico.


Bibliografia

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