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Togliatti e la via italiana al socialismo

Gianluca Fiocco
Articolo pubblicato nella sezione “Libertà e democrazia nella cultura politico-giuridica italiana”

Nel primo dopoguerra il giovane Togliatti si trasforma da interventista democratico a dirigente rivoluzionario, che aderisce alla causa del bolscevismo e scommette sulla possibilità di realizzare una rivoluzione anche in Italia. Inserito nel gruppo torinese dell’Ordine Nuovo, sotto la guida di Antonio Gramsci, vive e sovrintende a tutta l’esperienza dei Consigli di fabbrica, originali organismi del proletariato torinese che si ispirano all’istituto dei Soviet russi. I Consigli sono concepiti come la base di una organizzazione sociale di tipo nuovo, destinata a soppiantare lo Stato liberale e tutta l’impalcatura del potere borghese.
Nel 1920 vengono attuate grandi lotte operaie a Torino e in altri centri del Nord, con la speranza di dare una spallata rivoluzionaria. In particolare, l’occupazione delle fabbriche condotta nell’autunno di quell’anno viene vissuta da Togliatti come l’anticamera di un sommovimento nazionale. Le cose vanno in modo molto diverso: la mobilitazione rifluisce dopo aver ottenuto dei riconoscimenti solo sul piano sindacale e in breve la forza motrice degli eventi diviene lo squadrismo fascista, che dalla Pianura Padana muove alla conquista delle città.
La vittoria del fascismo - vista come rivelatrice di tratti di lungo periodo della storia italiana - apre la prospettiva di un percorso più lungo e complesso per condurre al potere la classe operaia. Non basta l’azione delle avanguardie organizzate nei centri produttivi più avanzati. Per sconfiggere il blocco reazionario che ostacola l’evoluzione del paese dai tempi del Risorgimento serve in particolare una grande alleanza tra le masse lavoratrici del Nord e i contadini del Sud. La questione meridionale diviene così centrale nella riflessione di Gramsci e Togliatti, riversata nelle Tesi di Lione del 1926 - un programma politico di rifondazione del comunismo italiano che è anche un saggio di storia (Vacca 2007, pp. xl-xli).
L’arresto di Gramsci priva Togliatti di un prezioso nutrimento e lo costringe a proseguire da solo nell’elaborazione politico-culturale. Come potrebbe cadere la dittatura e quali scenari si aprirebbero in una simile eventualità? La prospettiva togliattiana - che recepisce anche in forme peculiari le analisi del Comintern sulla stabilizzazione relativa del capitalismo - non contempla salti in avanti e prese del Palazzo d’Inverno, bensì una lunga fase postfascista di cooperazione tra movimento operaio e altre forze politiche d’ispirazione sia borghese che contadina. Le chiusure settarie della stagione del socialfascismo, calate da Mosca su tutti i partiti comunisti, impediscono di proseguire su tale via, ma Togliatti non abbandona l’idea che la lotta per il socialismo debba adattarsi alla irriducibile specificità di ogni contesto nazionale.
Dal 1934, l’apertura della nuova fase dei Fronti popolari restituisce a Togliatti maggiori spazi nella sua azione politico-culturale. Egli, al fianco di Dimitrov, è l’esponente del Comintern che più si impegna nel costruire una piattaforma teorica sui temi della democrazia e dell’avanzata in forme originali verso il socialismo. Pur non contestandolo esplicitamente, si allontana dal paradigma leniniano della guerra inevitabile: il fascismo può essere fermato senza giungere a un nuovo grande conflitto e a tal fine i partiti comunisti sono chiamati a svolgere un ruolo attivo nelle coalizioni antifasciste che si formano a livello nazionale. Così un dirigente del Pcd’I riassume le indicazioni di Togliatti dopo averlo incontrato:


I comunisti si pongono oggi risolutamente alla testa della lotta per la difesa e la conquista della democrazia perché la lotta è oggi in tutto il mondo fra fascismo e democrazia. Questa posizione di difesa della democrazia deve essere assunta col massimo di coraggio e di decisione abbandonando ogni sottinteso politico che indebolirebbe la lotta stessa. Naturalmente, noi lottiamo per una democrazia nella quale la classe operaia sia non solo alla testa della lotta contro il fascismo, ma porti il peso della sua forza concreta e della sua maturità politica (Spriano 1980, p. 67).


Questi appunti risalgono al principio del 1937, quando da alcuni mesi si combatte in Spagna una guerra civile vista da molti come un preannuncio di un incendio europeo. Togliatti sull’onda dei tragici avvenimenti spagnoli prefigura la possibilità di costruire una forma originale di democrazia, forgiata nella lotta contro il fascismo.


Questa democrazia di nuovo tipo – scrive in un noto articolo – non potrà, in caso di vittoria del popolo, non essere nemica di ogni forma di spirito conservatore. Essa possiede tutte le condizioni che le consentono di svilupparsi ulteriormente. Essa offre una garanzia di tutte le ulteriori conquiste economiche e politiche dei lavoratori della Spagna. È per questo che tutte le forze della reazione mondiale vogliono la sconfitta del popolo spagnuolo (Togliatti 2014, p. 411).


In tutto questo vi è una chiara lezione storicista: il 1917 ha creato una breccia cruciale nel fronte imperialista, ma non rappresenta un modello da applicare meccanicamente; il cammino di emancipazione dei popoli segue forme sempre nuove col mutare dei tempi. E un nuovo mutamento epocale giunge con lo scoppio del secondo conflitto mondiale.
Togliatti, caduto in disgrazia dopo la sconfitta in Spagna e sull’orlo di essere schiacciato dalla macchina del Terrore (cfr. Pons 2004), risorge ancora una volta nel contesto della grande guerra antifascista. Responsabile della propaganda radiofonica del Comintern per tutta l’Europa occupata dal nazifascismo, dai microfoni di Radio Milano Libertà incita gli italiani a lottare per una democrazia che non dovrà essere un ritorno al passato prefascista, bensì puntare alla creazione di condizioni più avanzate sul terreno economico, sociale e politico. Per i comunisti la sfida è rendere le masse protagoniste di tale processo, in modo da spezzare ogni autoritarismo presente e passato. Si tratta di un compito che Togliatti considera una missione storica di assai complessa realizzazione, considerato il distacco tradizionale fra governanti e governati, su cui poi si è innestata l’esperienza fascista di coinvolgimento del popolo nelle organizzazioni di massa. La riflessione di Togliatti sul grado significativo di consenso raggiunto dal regime mussoliniano anche tra i ceti popolari è testimoniata dagli appunti delle sue lezioni moscovite agli allievi della scuola quadri del Comintern (cfr. Togliatti 2010). Altra questione che egli reputa cruciale è come educare alla libertà di pensiero e di associazione quei giovani formatisi nella dittatura, privi di una conoscenza dell’Italia antemarcia su Roma.
Animato da tali convincimenti, Ercoli sbarca a Napoli nel marzo del 1944. Un punto fermo della “svolta di Salerno” che lo vede protagonista è l’accordo tra tutte le forze politiche antifasciste e la monarchia per la convocazione di una Assemblea costituente a guerra finita, «chiamata a dare al nuovo Stato italiano una Costituzione democratica» (Togliatti 1974, p. 393). A tale organismo spetterà anche il compito di stabilire la scelta istituzionale tra monarchia e repubblica. In seguito Togliatti accoglierà la soluzione di affidare tale decisione direttamente al voto popolare, nell’ambito di un accordo strategico con la Dc di De Gasperi, considerata da lui come un pilastro cruciale del nuovo sistema politico in costruzione.
Per Togliatti, la responsabilità più grave dei Savoia è stata quella di aver tradito il proprio ruolo di garanti della legalità costituzionale, accettando l’azione eversiva dei fascisti e consegnando loro il governo per vent’anni, fino ad appoggiarne i disegni imperialisti di aggressione. L’uscita di scena della casa regnante gli sembra un passo necessario per spezzare il blocco reazionario che è venuto a patti col fascismo. Solo la vittoria della repubblica offre adeguate garanzie di porre il paese su una strada nuova, di reale progresso sociale. L’itinerario da compiere dovrà essere tracciato nella carta costituzionale che dopo il termine del conflitto ci si appresta a scrivere. Quali caratteri essa dovrà assumere?


Abbiamo bisogno - risponde Togliatti nel suo rapporto di apertura al V Congresso del Pci - di una Costituzione che seppellisca per sempre un passato di conservazione sociale e di tirannide reazionaria e non gli permetta di risorgere mai più, quindi di una Costituzione la cui originalità consisterà nell’essere, in un certo senso, un programma per il futuro (Togliatti 1984, p. 197).


Muovendo da questa impostazione, Togliatti in seno alla Costituente si batterà per sancire la irrevocabilità della forma repubblicana. Dopo il referendum del 2 giugno, conclusosi con una vittoria repubblicana inferiore alle attese, lo spettro di un ritorno conservatore e monarchico continuerà a lungo a preoccuparlo. La sua visione è quella di un lungo cammino da compiere per cambiare dalle basi una società dominata da uno spirito fortemente reazionario.
La Costituzione, dunque, come punto fermo rispetto al passato e al tempo stesso come programma delle riforme profonde di cui il popolo italiano ha bisogno per scrollarsi dalle spalle una storia di miseria e sfruttamento. Polemizzando con chi contrasta tale approccio, Togliatti osserva che i costituenti italiani non sono chiamati a sancire diritti già divenuti realtà nel paese, bensì a indicare le mete da raggiungere per un effettivo inveramento della democrazia. Serve una Costituzione in grado di durare nel tempo, di accompagnare la trasformazione del paese verso forme più elevate di organizzazione sociale: ciò richiede l’instaurarsi a Montecitorio di un reale spirito fondativo e di incontro tra culture politiche diverse. In particolare, a giudizio di Togliatti è fondamentale il pieno coinvolgimento in questo disegno della Democrazia cristiana: solo orientando in senso progressivo il mondo cattolico sarà possibile consolidare la democrazia. Mettersi contro il mondo cattolico significherebbe rendere fatalmente vulnerabile il patto costituzionale: è in nome di questo convincimento che Togliatti voterà a favore dell’inclusione dei Patti Lateranensi firmati da Mussolini nell’articolo che regola i rapporti fra Stato e Chiesa. Una scelta diversa sarebbe stata percepita dalla Santa Sede e da milioni di cattolici «come l’inizio di una profonda rottura sul terreno religioso, quasi di una guerra di religione» (Togliatti 2014, p. 1824).
Alla prima riunione del gruppo comunista alla Costituente, Togliatti chiarisce che ogni vecchia concezione tribunizia e puramente strumentale del Parlamento va abbandonata. L’Assemblea che sta per iniziare i suoi lavori è una conquista del popolo e si fonda sul sangue dei partigiani. Togliatti favorisce la rappresentazione della Resistenza come quella guerra di popolo che non c’è stata in occasione del Risorgimento. La Costituente deve essere considerata come lo sbocco democratico di un secondo Risorgimento più avanzato, in cui le forze popolari hanno preso la bandiera del riscatto nazionale, sopperendo alle carenze storiche della borghesia. Ne consegue che il lavoro parlamentare degli eletti dal popolo, a cominciare dal lavoro costituente che deve gettare le basi di tutto il cammino legislativo di riforma, è uno degli aspetti fondamentali della lotta dei partiti operai. Per la difesa di questo principio Togliatti intraprende una battaglia che durerà per anni, scontrandosi con la diffusa sottovalutazione dell’impegno parlamentare che aleggia nelle file del suo partito. La centralità del Parlamento è un punto per lui irrinunciabile dinanzi a vecchi atteggiamenti di sfiducia verso le istituzioni della democrazia borghese, che distrarrebbero il popolo dalle sue attitudini rivoluzionarie. Questo è un punto cruciale del suo scontro con Pietro Secchia.
Togliatti affronta dunque con la massima dedizione il ruolo di costituente, collocandosi col suo pensiero e con la sua azione tra le figure rilevanti nel processo di scrittura della Costituzione. Come è noto, egli entra a far parte della Commissione dei 75, animando in particolare i lavori della prima sottocommissione, quella dedicata ai diritti e doveri dei cittadini. Persegue l’obiettivo di realizzare una sintesi al più alto livello possibile tra le diverse culture politiche - socialista, cattolica, liberale - in modo da dare vita a un testo in cui tutti possano riconoscersi, in grado dunque di durare nel tempo e fare da riferimento per lo sviluppo del paese e del movimento dei lavoratori. In questo suo sforzo, a Montecitorio stabilisce relazioni particolarmente cordiali con alcuni giovani dirigenti democristiani (i cosiddetti “professorini”), che rimangono colpiti dalla sua ricerca continua di dialogo. Col tempo Giorgio La Pira avrebbe attribuito un significato provvidenziale al suo incontro alla Costituente con Togliatti, affidando a quest’ultimo un ruolo di intermediario tra i due blocchi della guerra fredda. «Perché - gli chiedeva in una lettera del 1958 - ci si conobbe nel 1947 alla Iª sottocommissione? Perché tanti altri fili e tanti altri impreveduti contatti? Bisogna vedere tutte queste cose nella prospettiva totale della storia per comprendere il significato ed il valore» (Togliatti 2014b, p. 284). Sono poi note le parole che gli rivolge Giuseppe Dossetti nell’estate del 1964, dopo aver saputo del grave malore che ha colpito Togliatti, in una lettera che il segretario comunista non avrebbe potuto leggere:


c’era spesso in me il desiderio di farle sapere che io continuavo a custodire nel cuore i ricordi di incontri che ho sempre ritenuto non esterni e banali: passando gli anni e purificandosi in me, nel mio nuovo stato, tante cose, ritornavo solo agli aspetti più essenziali e profondi di un rapporto, che mi sembra sia stato ricco di umanità e di sincerità (ivi, p. 364).


Questi documenti testimoniano il clima di tensione morale che si era determinato alla Costituente.
Un punto di contatto fra la visione di Togliatti e quella di molti dirigenti cattolici riguarda l’inserimento nel testo costituzionale di fondamentali diritti economici e sociali, legati a una concezione rinnovata della cittadinanza. Questa posizione incarna del resto lo spirito dell’epoca, dalla Carta dell’Onu alla Dichiarazione universale dei diritti umani e ai piani di welfare del governo laburista in Gran Bretagna. Per Togliatti si tratta davvero di un fronte cruciale della battaglia a Montecitorio, e sono note le sue prese di posizione affinché questi diritti non siano citati in un generico preambolo, ma siano affermati solennemente in specifici articoli della Costituzione, in modo da tracciare con precisione la via ai legislatori. Un altro punto di convergenza è rappresentato poi dalla consapevolezza che la vecchia politica dei notabili ha ceduto il passo a grandi partiti radicati nella società, sulle cui spalle graverà il compito di tradurre in pratica i principi costituzionali. «I partiti - osserva Togliatti nel luglio del 1946, replicando all’elogio del parlamentarismo di un tempo fatto da Francesco Saverio Nitti - sono la democrazia che si organizza. I grandi partiti di massa sono la democrazia che si afferma, che conquista posizioni decisive, le quali non saranno perdute mai più» (Togliatti 1984b, pp. 6-7).
Affinché l’azione dei partiti popolari possa dispiegarsi nel modo più efficace è cruciale per Togliatti il loro legame organico con un Parlamento che va posto nella condizione di operare senza interferenze indebite e condizionamenti reazionari. Proprio in difesa della centralità del Parlamento Togliatti esprime riserve, che giungono in certi momenti all’aperta contrarietà, dinanzi alla proposta di istituire una Corte Costituzionale e dinanzi a progetti di impianto federale dello Stato, tesi ad attribuire poteri legislativi sostanziali alle Regioni. Togliatti teme che questi organismi, nel caso finissero sotto il controllo di forze conservatrici e antipopolari, potrebbero sabotare la legiferazione progressiva del Parlamento, impedendo di fatto la marcia dei ceti subalterni verso l’acquisizione di una cittadinanza piena. Nel tempo, tuttavia, le sue posizioni subiranno mutamenti sensibili. Nel caso della Corte, rispetto alla situazione critica che viene a crearsi con la guerra fredda e i rischi di un possibile scioglimento dei partiti di sinistra, l’esistenza di un organo di garanzia della costituzionalità delle misure assunte dalla maggioranza e di pungolo critico per il superamento della legislazione fascista rimasta in piedi appare a Togliatti come uno strumento di ancoraggio alla democrazia. Come è noto, nel contesto del disgelo costituzionale dopo le tormentate elezioni del 1953, egli si batterà affinché il Pci abbia voce in capitolo sulla nomina dei membri della Corte, a difesa della piena rappresentatività di quest’ultima e contro ogni marginalizzazione dei comunisti. Anche a proposito del regionalismo Togliatti compirà una rivalutazione, pur senza varcare mai la soglia federalista (l’Italia gli appare quella delle cento città di Cattaneo più che un mosaico regionale). Nel nuovo ente egli scorge una prova di governo per le forze popolari escluse da ruoli ministeriali a Roma, oltre che un superamento della rete prefettizia di controllo territoriale.
La prospettiva togliattiana della collaborazione tra i grandi partiti per la realizzazione di una democrazia progressiva subisce un duro colpo con l’insorgere della guerra fredda e la cacciata delle sinistre dal governo (maggio 1947). Il pericolo è che l’onda anticomunista montante comprometta il lavoro unitario condotto alla Costituente, in fase avanzata ma non ancora concluso.


L’offensiva volta contro di noi - avrebbe ricordato Togliatti in una lezione pubblica tenuta molti anni dopo - tendeva o a ridurci a qualcosa che non contasse nulla in Italia e a quindi farci rinunciare ai nostri grandi obiettivi, oppure tendeva a ridurci a un gruppo di scalmanati, che si buttasse sulla strada per protestare, o per conquistare con azioni dirette chi lo sa quali vantaggi. Noi resistemmo ad entrambe queste spinte. Cadere nell’opportunismo sarebbe stata una capitolazione; cadere in un estremismo di parole sarebbe stato rinunciare a quella lotta che noi prevedevamo lunga e faticosa, per trasformare il tessuto dello Stato e della società italiana, per far accedere alla direzione di questa società una nuova classe dirigente, conscia del contenuto della Costituzione e capace di applicarla. Naturalmente questo richiese che noi mantenessimo un continuo contatto e legame con le masse, ricercando tutti i motivi di propaganda, di agitazione e di lotta che potevano mantenere in movimento una parte sempre più grande del popolo italiano (Togliatti 1962, pp. 645-646).


Dal momento che il quadro politico ha subito una drammatica involuzione, per Togliatti diventa ancora più importante concludere con spirito unitario il lavoro costituente. Dopo le dimissioni di Saragat sostiene con forza la nomina di Umberto Terracini alla presidenza dell’Assemblea e poi difende il dirigente quando questi si pone clamorosamente in urto con la formazione del Cominform. Alla fine, sulla Costituzione di un paese del blocco occidentale c’è la firma di un presidente comunista. Un indubbio successo per la strategia di Togliatti. Il quadro che si viene a determinare con la guerra fredda rafforza ulteriormente la sua idea di una lunga marcia per realizzare il riscatto dei ceti popolari. Inizia una gramsciana «guerra di posizione», e proprio attraverso la cura e la pubblicazione degli scritti di Gramsci viene avviata in quel periodo da Togliatti una operazione culturale tesa a influenzare gli intellettuali, la politica, la società (cfr. Chiarotto 2011). Si gettano semi affinché nel tempo diano i frutti sperati.
Possiamo considerare Togliatti come l’esponente principale di quella corrente del comunismo europeo che, nonostante la guerra fredda, crede nella possibilità di evitare un nuovo conflitto generale. Scommette sul fatto che si possa mantenere nella legalità il partito comunista italiano e rendere operativo il patto costituente. In tal senso trae elementi di fiducia dalle riforme del centrismo degasperiano, pur mantenendo un giudizio negativo sulle scelte di fondo del leader democristiano. Vi è in buona parte questa speranza nel consolidamento pacifico delle istituzioni repubblicane dietro il rifiuto opposto a Stalin quando questi gli chiede di trasferirsi oltrecortina per guidare il Cominform. Al leader sovietico Togliatti scrive una lunga lettera in cui sottolinea che in Italia «ancora esistono grandi possibilità per il lavoro legale di massa» (Togliatti 2014b, p. 175). Mentre Stalin pensa che in Corea stia già iniziando la terza guerra mondiale, Togliatti resta aggrappato al suo progetto di avanzata democratica nella pace.
L’opposizione al centrismo viene condotta da Togliatti in nome dell’attuazione del testo costituzionale. Si richiamano i partiti di maggioranza al senso di responsabilità verso gli impegni che essi stessi hanno assunto alla Costituente. Tornato da Mosca dopo il braccio di ferro con Stalin, al VII Congresso del Pci (aprile 1951) Togliatti ribadisce la piena coincidenza tra il programma del suo partito e i principi indicati nella Costituzione. «Affermo - recita un passaggio della sua relazione introduttiva - che esiste una piattaforma politica per un movimento di difesa della pace e di trasformazione delle strutture economiche e sociali quali noi ci auguriamo e da cui facciamo dipendere il bene d’Italia. Questa piattaforma è la Costituzione della Repubblica italiana».
Togliatti opera affinché il Pci dall’opposizione cerchi costantemente di influenzare le scelte legislative e le attività della maggioranza. La preclusione di ogni ruolo governativo lo induce a difendere ancor di più a spada tratta le prerogative del Parlamento, in quanto luogo più alto di confronto ed elaborazione politica. E in effetti, grazie anche alla sensibilità mostrata dalla controparte centrista, mentre sulla politica estera lo scontro arriva in vari momenti alla incomunicabilità, sul piano interno il filo del dialogo non viene mai spezzato completamente. Tutto questo si rivela fondamentale per la tenuta del patto costituzionale e il consolidamento della giovane democrazia italiana (cfr. Gualtieri 2007, pp. 326-336).
La battaglia costituzionale del Pci non riguarda solo i diritti sociali, ma investe anche l’ambito delle libertà civili e politiche. Dinanzi all’ondata clericale e alla scomunica lanciata contro i comunisti, Togliatti traduce e pubblica il Trattato sulla tolleranza di Voltaire. Contro i provvedimenti di sicurezza del governo agita la bandiera dei principi liberali.


Si è giunti - denuncia nel citato rapporto al VII Congresso -, mancando per ora il coraggio di restaurare il tribunale fascista, a sottoporre tutti i cittadini, per la manifestazione delle loro idee politiche, al giudizio delle corti marziali. Da un regime fondato sopra una Costituzione democratica stiamo passando ad un regime di arbitrio e di violenza burocratica contro i cittadini, e alcune leggi oggi proposte tendono, sempre col pretesto della preparazione alla guerra, a dare a questo regime una parvenza di legalità.


Come è noto, un momento particolarmente aspro dello scontro politico è quello legato alla presentazione della cosiddetta “legge truffa”, con la quale De Gasperi si propone di cambiare il sistema elettorale in senso maggioritario. Togliatti imposta la battaglia contro tale misura come una lotta per la Costituzione. La sua argomentazione fondamentale è infatti che il premio di maggioranza, oltre a minare il ruolo del Parlamento in quanto espressione degli equilibri politici nazionali, consentirebbe ai vincitori di procedere unilateralmente nella alterazione del testo costituzionale. Il mancato conseguimento del premio da parte della coalizione centrista alle elezioni del 1953 viene salutato da Togliatti come una vittoria della legalità costituzionale. Si è riusciti - scrive a Romano Bilenchi - a «impedire la formazione immediata di un regime reazionario clericale di maggioranza parlamentare assoluta» (Togliatti 2014b, p. 190). Dopo il conseguimento di questo obiettivo solo apparentemente negativo (fermare le intenzioni pericolose degli avversari) si può riprendere un cammino positivo di realizzazione delle riforme indicate nella Costituzione.
Certo, la via da percorrere verso una società più giusta non gli sembra né breve né scontata. Anzi, una lunga guerra di posizione per muovere verso equilibri più avanzati gli appare imposta dalle contingenze storiche. Ma non si tratta solo di una necessità dettata dalla forza dello schieramento conservatore interno e internazionale. Matura ulteriormente in Togliatti l’idea che il socialismo non si realizza con colpi di mano e salti in avanti, ma radicando gradualmente nelle coscienze il valore di determinate conquiste democratiche e sociali. Le conquiste più durature sono quelle che si raggiungono nel modo più consensuale possibile, diventando a un certo punto un patrimonio che nessuno mette più in discussione. È una visione realista, storicista, che trae una precisa lezione dalle tragedie della “guerra civile europea”. Da ciò, dopo la morte di Stalin, scaturisce la prospettiva di Togliatti di una destalinizzazione silenziosa e graduale, sconvolta però dalle turbolenze e dai drammi del 1956.
Dinanzi ai carri armati sovietici che reprimono l’insurrezione ungherese - vicenda che egli considera una dolorosa necessità - Togliatti non reagisce aprendo alle critiche contro Mosca o all’opposto con arroccamenti dogmatici. La sua risposta è la definizione rinnovata di una «via italiana al socialismo», i cui caratteri vengono enunciati all’VIII Congresso del Pci (dicembre 1956). Essa consiste nella «attuazione della Costituzione in ogni sua parte»: a giudizio di Togliatti, il testo costituzionale delinea un vero e proprio programma di trasformazione in senso socialista, da realizzarsi attraverso grandi «riforme di struttura», nel contesto di una «programmazione democratica» delle scelte economiche e sociali. Togliatti rifiuta l’alternativa secca e immobile tra capitalismo occidentale e modello sovietico, e cerca di battere un sentiero originale, sfruttando ogni margine derivante dall’allentamento della guerra fredda, in un mondo che considera sempre più «policentrico».
La piattaforma della via italiana al socialismo viene poi ulteriormente definita e calibrata col programma del X Congresso (dicembre 1962). L’ultima scommessa togliattiana è che nella grande trasformazione in corso - siamo negli anni del miracolo economico - il capitalismo e la borghesia italiana superino i loro limiti storici (quelli che avevano portato al fascismo) e che nelle nuove condizioni si possa avanzare verso il socialismo dall’interno del capitalismo. Una prospettiva in cui ogni visione mitica della rivoluzione cede il passo a un processo graduale di «rinnovamento di tutta la struttura sociale» (Togliatti 1966, p. 228). Diventano molteplici non solo i percorsi verso il socialismo, ma anche le sue declinazioni nei diversi contesti storici. Dalla esperienza del Pci potrebbe scaturire un contributo importante alla elaborazione di una specifica via occidentale al socialismo, che a sua volta con le proprie realizzazioni potrebbe contribuire all’avanzata del socialismo su scala globale, in connessione con il mondo comunista e con quello emergente dei paesi in via di sviluppo. È in questa intelaiatura concettuale che Togliatti annuncia «una opposizione di tipo particolare» al primo governo di centro-sinistra, tesa a esplorare ogni possibilità attuativa della Costituzione nell’ambito del nuovo quadro politico.
Ancora una volta emerge la peculiare cultura istituzionale del “partito nuovo” togliattiano, costruito a partire dal 1944. Un suo obiettivo chiave è il superamento del tradizionale ribellismo dei movimenti popolari, per approdare a una integrazione piena delle masse in uno Stato finalmente democratico, capace di rappresentare le loro istanze. Al vecchio nation building autoritario e nazionalista si sostituisce un modello di patriottismo costituzionale, in cui l’organizzazione di un intero ciclo storico di lotte e mobilitazioni per tradurre in pratica i principi fondamentali della Costituzione diventa la stella polare dell’azione del Pci. L’insorgere della guerra fredda non muta nella sostanza il progetto, ma ne accentua i caratteri di lungo corso e di marcia paziente quanto inesorabile, con una storia alle spalle. In un suo noto scritto per il centenario dell’unità d’Italia, Togliatti scorge nella Costituzione e nel programma in essa contenuto i frutti della «enorme accumulazione di esperienza popolare» compiuta a partire dal 1861. Fuori di ogni retorica celebrativa, la traiettoria dello Stato nazionale va ricordata per il cammino di emancipazione di cui le sue masse popolari sono state protagoniste, a dispetto della «più feroce delle pressioni reazionarie». La conquista fondamentale della Costituzione repubblicana testimonia il progresso compiuto e quello che resta da realizzare (Togliatti 1961, p. 1).


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