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Il liberalismo di Luigi Einaudi*

Enzo Di Nuoscio, Flavio Felice
Articolo pubblicato nella sezione “Libertà e democrazia nella cultura politico-giuridica italiana”

1. Luigi Einaudi: economista, opinionista, Governatore della Banca d’Italia e uomo politico

Nato a Carrù (Cuneo) nel 1874, Luigi Einaudi compie gli studi universitari a Torino, dove si laurea in Giurisprudenza nel 1895. Già da studente universitario manifesta uno spiccato interesse intellettuale per lo studio dell’economia e della scienza delle finanze, che coltiverà sotto la guida del suo maestro Salvatore Cognetti de Martiis. Dal 1902 è professore di Scienza delle finanze presso la Facoltà di Giurisprudenza (di cui sarà anche Preside dal ‘23 al ‘25) dell’Università di Torino e, dal 1904, anche presso la “Bocconi” di Milano, dove dirigerà, dal ‘20 al ‘26, l’Istituto di economia. Sul finire del secolo conosce Benedetto Croce, con il quale intrattiene per tutta la vita un intenso dialogo intellettuale. I due più importanti intellettuali liberali italiani del Ventesimo secolo sono legati dall’impegno antifascista, dalla battaglia per le idee liberali, oltre che da una sincera amicizia personale, la quale, però, non impedisce loro di dissentire e di criticarsi reciprocamente a proposito del legame tra libertà economiche e libertà politiche.
Parallelamente alla sua attività di economista, Einaudi è stato per tutta la vita impegnato in una intensa attività di brillante e influente opinionista, collaborando con la “La Stampa”, con l’”Economist” e, a partire dal 1900, con il “Corriere della Sera”. Negli anni giovanili collabora con “Critica sociale” di F. Turati e in seguito con “Energie nuove” e con “Rivoluzione liberale”, dirette da P. Gobetti. Dal 1908 è direttore della rivista “Riforma sociale”, un vero e proprio laboratorio di idee liberali, chiusa da Mussolini nel 1935. Nel 1925 firma il “Manifesto degli antifascisti”, promosso da Croce in risposta al “Manifesto degli intellettuali fascisti” di G. Gentile, adottando un atteggiamento sempre più duro contro il regime che gli costò anche la sospensione dall’insegnamento universitario. Con la caduta del fascismo nel 1943, viene nominato Rettore dell’Università di Torino, incarico che dovette presto abbandonare per rifugiarsi in Svizzera, dopo l’occupazione nazista. E proprio in Svizzera scrive, nel 1944, una delle sue opere più influenti, le Lezioni di politica sociale. Alla fine della guerra, Einaudi, il più accreditato economista e uno dei più prestigiosi intellettuali in Italia, già nominato Senatore del Regno nel 1919, diventa protagonista della vita politica, giocando un ruolo di primo piano negli anni della ricostruzione e del boom economico. Dal 1945 al 1948 è nominato dal Governo Bonomi Governatore della Banca d’Italia; nel 1946 è membro dell’Assemblea Costituente; nel 1947 è vicepresidente del consiglio e Ministro del Bilancio nel IV governo De Gasperi. Fu soprattutto grazie alle sue decisione che in quell’anno si riuscì a stabilizzare la lira e a ridurre drasticamente un’inflazione elevatissima. In questi anni, scrive P. Soddu, Einaudi «non fu solo tra i principali ispiratori della politica economica della ricostruzione, concorrendo in modo determinante a definire il carattere da imprimere alla vita economica del Paese, ma fu il centro di decisioni e di scelte che contribuirono in modo decisivo alla fisionomia assunta dalla nascente democrazia». Nel 1948 è eletto primo Presidente della Repubblica Italiana, e resterà in carica fino al 1953. Furono anni difficili, di forte contrapposizione a livello nazionale e internazionale, nei quali Einaudi fu un punto di riferimento e di equilibrio per tutto il Paese. Muore a Roma il 30 ottobre 1961, continuando fino all’ultimo la sua infaticabile attività di saggista e pubblicista (cfr. Faucci 1986).


2. Il liberalismo: la ricerca della verità eliminando gli errori

Di formazione empirista e di solida convinzione fallibilista, Luigi Einaudi concepisce il liberalismo innanzitutto come un metodo e una forma mentis. Ha senso parlare di politiche liberali in ambito politico, economico e sociale, solo se si rinuncia alla pretesa gnoseologica di possedere verità assolute, accettando l’idea che la ricerca della verità è una conquista collettiva, a cui devono contribuire tutti gli individui, in un processo senza fine. Il liberalismo - scrive Einaudi nelle Prediche inutili - è «il metodo di libertà», che «riconosce sin dal principio il potere di versare nell’errore ed auspica che altri tenti di dimostrare l’errore e di scoprire la via buona alla verità» (Einaudi 1959c, p. 60).
Se il totalitarismo si fonda su un monopolio della verità, l’ordine liberale si basa innanzitutto sulla libertà di rimuovere gli errori:


la libertà vive perché vuole la discussione fra la libertà e l’errore; sa che, solo attraverso l’errore, si giunge, per tentativi sempre ripresi e mai conchiusi, alla verità. Nella vita politica la libertà non è garantita dai sistemi elettorali, dal voto universale o ristretto, dalla proporzionale o dal prevalere della maggioranza nel collegio uninominale. Essa esiste perché esiste la possibilità di discussione, della critica. Trial and error; possibilità di tentare e di sbagliare; libertà di critica e di opposizione; ecco le caratteristiche dei regimi liberi (ibidem).

L’unica garanzia di salvezza contro l’errore, contro il disastro, dunque, non è la dittatura; è la discussione», perché, spiega Einaudi con una evidente eco delle tesi di J.S. Mill, la verità «non è mai sicura in se stessa, se non in quanto permette al principio opposto di contrastarla e di cercare di dimostrarne il vizio (Einaudi 1922, p. 770).


In Einaudi, come in qualsiasi pensatore liberale, la scelta etica in favore dell’“elevamento morale e materiale” degli individui è il primum movens della sua riflessione (Einaudi 1942-43, pp. 6 ss). Consapevole dell’impossibilità di accedere a un punto di vista privilegiato sul mondo, egli intende dimostrare che l’ordine liberale è quell’habitat economico, politico e istituzionale che, assicurando a ognuno la più estesa libertà compatibile con un’analoga libertà altrui, garantisce il massimo di discussione critica e la più elevata capacità di problem solving. Il liberalismo è, quindi, una «soluzione concreta [...] per raggiungere quel fine o quei fini, materiali o spirituali, che il politico o il filosofo, o il politico guidato da una certa filosofia della vita, ha graduato per ordine di importanza, subordinandoli al raggiungimento della massima elevazione umana» (Einaudi 1931, p. 132). Ha dunque ragione Norberto Bobbio, allorché osserva che


il liberalismo non è stato mai, e certo non è stato nell’opera di Einaudi, soltanto una teoria economica o politica; è stato una vera e propria “visione del mondo”, alla cui formazione aveva sicuramente contribuito la nascita della scienza economica, con la sua scoperta del nesso indissolubile fra ricchezza delle nazioni e libertà economica (Bobbio 1994, pp. 73-74).


3. Economia di mercato e ordine liberale: la polemica con Benedetto Croce

Einaudi è profondamente convinto che la libertà diventa un proclama astratto, non solo se non si combatte la presunzione di possedere una conoscenza infallibile e un criterio di giustizia universale, ma anche se non si difende quell’ordine pluralistico di mercato, senza il quale lo Stato di diritto diventerebbe una formula vuota. Proprio su questo terreno dei rapporti tra l’idea di libertà e l’ordine economico si sviluppa la celebre polemica - nella quale interverrà anche W. Röpke, che difese le posizioni einaudiane - con Benedetto Croce, il quale aveva accusato Einaudi di ridurre il nobile ideale della libertà alla sua più bassa natura “utilitaristica” ed “edonistica”, mettendolo in guardia dal non confondere l’“economico liberismo” dall’“etico liberalismo” (Croce 1927, p. 12).
Einaudi non può accettare la tesi di Croce, il quale non aveva esitato ad affermare che il liberalismo non ha «un legame di piena solidarietà col capitalismo e col liberismo economico o col sistema economico della libera concorrenza, e può ben ammettere svariati modi di orientamento della proprietà e della produzione di ricchezza» e che, pertanto, «ben si potrà, con la più sincera e vivida coscienza liberale, sostenere provvedimenti e ordinamenti che i teorici dell’astratta economia classificano come socialisti» (ivi, p. 14). Per Einaudi, invece, il liberalismo etico-politico non può essere dissociato dal liberalismo economico in quanto, senza quel pluralismo economico garantito dall’economia di mercato, si affermerebbe «una forza unica - dicasi burocrazia comunista od oligarchia capitalistica - capace di sovrapporsi alle altre forze sociali»; una forza che tenderebbe «ad uniformizzare e conformizzare le azioni, le deliberazioni, il pensiero degli uomini» (Einaudi 1937, p. 135). Chi ha a cuore l’idea di libertà non può immaginare di separare, ad avviso di Einaudi, libertà economiche e libertà politiche, Stato di diritto ed economia di mercato (Silvestri 2008, pp. 191 ss).


4. Il mercato: la “democrazia dei consumatori”

L’economia di mercato, dunque, è l’altra faccia della democrazia. Con il suo ordine policentrico essa favorisce la realizzazione dei progetti individuali. Grazie al mercato, infatti, ogni individuo è chiamato, manifestando le proprie preferenze, ad esprimersi, da un lato, sulla priorità dei problemi sociali che la “prontezza” degli imprenditori deve affrontare, e, dall’altro, sull’adeguatezza dei tentativi di soluzione di tali problemi, rappresentati da quelle proposte imprenditoriali chiamate merci. Il mercato è il luogo in cui si esprimono le domande individuali, la risposta alle quali, da parte degli imprenditori, è remunerata mediante il profitto.


Il profitto - scrive Einaudi in un famoso scritto intitolato In lode del profitto - è il prezzo che si deve pagare perché il pensiero possa liberamente avanzare alla conquista della verità, perché gli innovatori mettano alla prova le loro scoperte, perché gli uomini intraprendenti possano continuare a rompere la frontiera del noto, del già sperimentato, e muovere verso l’ignoto, verso il mondo ancora aperto all’avanzamento materiale e morale dell’umanità (Einaudi 1959d, p. 194).


Per contro, «il fallimento è la sanzione, la pena, necessaria e vantaggiosa, per quegli affittuari, quegli industriali, per quei negozianti che non sono capaci a fare il loro mestiere, che utilizzano male terre, capitali, materiali, macchine, impiegati, operai» (Einaudi 1944, p. 24).
L’elemento intrinsecamente democratico contenuto dall’economia di mercato è rappresentato, per Einaudi, dal fatto che i giudici che hanno il potere di premiare o sanzionare le innovazioni problem oriented avanzate dagli imprenditori sono i consumatori, nei quali, in ultima istanza, risiede la sovranità delle scelte circa l’allocazione delle risorse economiche e, di conseguenza, anche di quelle conoscitive. «Il re del mondo economico, in un libero mercato – scrive Einaudi nelle Lezioni di politica sociale – è il consumatore ed egli ha, ministro ubbidiente, esecutore fedele dei suoi ordini, il prezzo» (Einaudi 1944, pp. 231-2). Il consumatore


non è soltanto il re del mondo economico perché con la sua domanda effettiva ordina quel che si deve e quanto si deve produrre e comanda agli imprenditori produttori di consegnargli la merce prodotta ad un prezzo uguale al costo sostenuto; ma è un re perché attraverso il mercato fissa i prezzi, oltre che dei beni direttamente da lui desiderati e consumati, anche dei beni “strumentali”, i quali servono cioè alla produzione dei beni diretti (ivi, p. 234).


Essendo un «servo ubbidiente della domanda che c’è» (ivi, p. 26), il mercato è naturaliter fattore di democrazia; esso non riconosce la possibilità di una fonte privilegiata, magari di natura politica, che, sostituendosi alle preferenze individuali, stabilisca dall’alto quali sono i bisogni soggettivi e la priorità nell’affrontarli (cfr. ivi, p. 28).
Oltre ad essere necessario per la democrazia, il mercato è anche insostituibile per effettuare quel “calcolo economico”, come lo avrebbe chiamato L. von Mises, per appagare nel miglior modo possibile le preferenze individuali e per una ottimale allocazione delle risorse. Per cui, i tentativi di sostituire tale “calcolo” del mercato con decisioni politiche sono necessariamente destinate al fallimento, e storicamente hanno sempre prodotto mastodontiche organizzazioni burocratiche, inefficienti e liberticide.


Chi non voglia trasformare la società intera - osserva al riguardo Einaudi - in una immensa caserma o in un reclusorio, deve riconoscere che il mercato, il quale raggiunge automaticamente il risultato di indirizzare la produzione e di soddisfare alla domanda effettiva dei consumatori, è un meccanismo che non può essere fracassato per vedere, come fanno i bambini per i giocattoli, come è fatto dentro (ivi, p. 40).


In sintesi, si può affermare che Einaudi difende l’economia di mercato per tre generi di ragioni: 1. economiche: il mercato assicura una migliore allocazione delle risorse; 2. politiche: senza il mercato non si può avere una vera democrazia e i diritti e le libertà individuali diventerebbero solo proclami; 3. etiche: il mercato è il migliore strumento per difendere l’individuo con le sue libertà e per promuovere il suo elevamento morale e materiale.


5. Contro lo statalismo

Sulla base di queste considerazioni, Einaudi critica duramente quelle politiche stataliste, di destra o di sinistra, che hanno affidato ad un massiccio intervento dello Stato nell’economia (e non solo in economia) il compito di realizzare finalità di natura sociale. L’invadenza dello Stato è vista da Einaudi come la più pericolosa minaccia per le libertà individuale. Essa diventa fattore di insicurezza per gli individui, per «l’impossibilità di fare previsioni e calcoli per l’avvenire», poiché «nessuno sa se quel che fa ed è oggi gradito dall’alto, lo sarà ancora e otterrà il giusto compenso domani» (Einaudi 1943-44, p. 32).
Più in particolare, lo statalismo inquina pericolosamente il principio della concorrenza, riducendo fortemente o addirittura eliminando il potere dei consumatori di premiare o sanzionare le proposte imprenditoriali. Soprattutto nei regimi di pianificazione economica, ciò che conta non è più il


sapere procacciarsi il favore del pubblico, ma quello del superiore. Invece di qualità di lotta, di emulazione, di invenzione (di merci o servizi nuovi o migliori o più a buon mercato), si sviluppano e trionfano le qualità più basse e spregevoli dell’animo umano: l’intrigo, la calunnia, la maldicenza, l’emulazione (ivi, pp. 32-33).


Ne consegue che «la corruzione e il favoritismo vengono sostituiti al merito e alla libera scelta da parte di coloro che comprano i servizi altrui» (ivi, p. 33). Tutto ciò genera un altro prevedibile e paradossale effetto perverso. Benché nate con l’intento di assicurare una maggiore giustizia sociale, le politiche statalistiche conseguono un risultato opposto: penalizzano le piccole e medie imprese, per la evidente ragione che esse sono quelle meno attrezzate per superare una concorrenza legata alla corruzione e al favoritismo. In sostanza, il massiccio intervento dello Stato nell’economia altera pericolosamente i due meccanismi fondamentali rappresentati dal profitto e dal fallimento, generando non solo diseconomicità nella allocazione delle risorse, ma anche sconvolgendo i meccanismi dei meriti individuali. Contro le intenzioni dei suoi propugnatori, lo statalismo, in sostanza, produce una evidente ingiustizia sociale.


6. Il liberale è contro i monopoli

Conoscitore come pochi dei classici del liberalismo e specialmente della tradizione empirista inglese, Einaudi è consapevole che l’economia di mercato, e più in generale, l’ordine sociale, è frutto di un processo evolutivo che non si può certo pianificare dall’alto. E tuttavia questa prospettiva non gli impedisce di assegnare un ruolo tutt’altro che marginale allo Stato. In linea con la tradizione dell’“Ordoliberalismo” e dell’”economia sociale di mercato” (e in particolare sintonia con W. Röpke, con il quale ha avuto un confronto e una profonda convergenza intellettuale), Einaudi assegna allo Stato una funzione strategica per la difesa delle libertà e per il buon funzionamento dell’economia di mercato. Einaudi individua tre compiti fondamentali a cui deve assolvere uno Stato liberale: 1. fissare regole che, da un lato, impediscano all’economia di mercato di degenerare e, dall’altro, le consentano di produrre efficienza economica e solidarietà sociale, nonché di essere un baluardo per la democrazia politica; 2. garantire un livello minimo di vita a tutti i cittadini; 3. assicurare il rispetto della legge, al fine di proteggere e promuovere le libertà individuali e di garantire un idoneo habitat giuridico-istituzionale per l’economia di mercato (Einaudi 1942, pp. 55 ss).
Convinto che il principio di competizione sia il dispositivo in grado di mobilitare la maggior quantità possibile di conoscenze e rappresenti la migliore soluzione per potenziare la capacità di problem solving di una comunità, per Einaudi lo Stato deve difendere l’economia di mercato, oltre che dai nemici esterni (i pianificatori), anche da quelli che subdolamente la minacciano dall’interno: 1. rimuovendo gli ostacoli, spesso creati dallo stesso potere politico, che impediscono il funzionamento della libera concorrenza e 2. «ponendo limiti a quelle forze, chiamiamole naturali, le quali per virtù propria ostacolerebbero l’operare pieno della libera concorrenza» (Einaudi 1941, p. 167).
Il più importante di questi compiti è certamente quello di combattere i monopoli, i quali, riducendo il potere di scelta dei consumatori, annullando l’incentivo all’innovazione rappresentato dalla concorrenza e imponendo i prezzi dei beni e servizi, sono «il nemico numero uno dell’economia libera», nonché fonte di «disuguaglianze sociali», consentendo di realizzare profitti che in realtà sono «un ladrocinio commesso ai danni della collettività» (Einaudi 1944, pp. 34-35). Dunque, l’eliminazione per quanto possibile dei monopoli deve essere «uno dei principali scopi della legislazione di uno Stato, i cui dirigenti si preoccupino del benessere dei più e non intendano curare gli interessi dei meno» (ivi, p. 35).
Ma i monopoli minacciano non solo gli interessi dell’individuo-consumatore, ma anche i diritti dell’individuo-cittadino. Le libertà civili e politiche sono «un fatto strettamente connesso con la struttura economica della società»; e ciò perché dare all’uomo «la sicurezza della vita materiale, la libertà dal bisogno» è la condizione a che egli sia «veramente libero nella vita civile e politica, davvero uguale agli altri uomini e libero dall’obbligo di ubbidire ad essi nella scelta dei governanti, nella manifestazione del pensiero e delle credenze» (Einaudi 1948, pp. 198-199). Ciò significa, afferma Einaudi in polemica con Croce, che «la libertà economica è la condizione necessaria della libertà politica» (ivi, p. 198). Stabilendo un “privilegio esclusivo” sui mezzi di produzione, il monopolio riduce quindi anche le libertà civili e politiche dei singoli, diventando incompatibile con l’ordine liberale.


Vi sono due estremi - spiega Einaudi - nei quali sembra difficile concepire l’esercizio effettivo, pratico della libertà: all’un estremo tutta la ricchezza essendo posseduta da un solo colossale monopolista privato; all’altro estremo dalla collettività. I due estremi si chiamano comunemente monopolismo e collettivismo: e ambedue sono fatali alla libertà (ivi, p. 199).


Dunque, la «lotta contro le ingiustizie e le disuguaglianze ha il nome della lotta contro il monopolio», il quale «sta alla radice della sopraffazione dei forti contro i deboli, e delle punte di ricchezza stravaganti e immeritate». Inoltre, i monopoli tendono a


uniformizzare e conformizzare le azioni, le deliberazioni, il pensiero degli uomini, a distruggere la gioia di vivere, che è gioia di creare, che è sensazione di aver compiuto un dovere, che è anelito verso la libertà, che è desiderio di vivere in una società di uomini ugualmente liberi di compiere la propria missione (Einaudi 1937, p. 144).


Quanto, invece, all’eliminazione dei “monopoli naturali”, il compito dello Stato è forse ancora più difficile, perché essi non sono istituiti da una legge, ma si sono affermati sulla base di “necessità economiche” (si pensi a molti servizi pubblici). Per Einaudi, nemico come pochi di ogni ideologismo, non ci sono soluzioni precostituite, ma c’è soltanto un principio da affermare, caso per caso e con gradualità: evitare di sostituire un monopolio pubblico con uno privato e invece introdurre anche in questi settori forme limitate di concorrenza, adottando gli opportuni provvedimenti per evitare che la competizione non danneggi la qualità delle prestazioni e non renda questi servizi di pubblica utilità economicamente inaccessibili per i più svantaggiati (cfr. Einaudi 1944, pp. 69-72).
Strettamente legata alla lotta contro i monopoli, per Einaudi è la battaglia per la libertà di associazione sindacale. Nella dinamica della concorrenza, imprenditori da un lato e operai dall’altro devono esseri liberi di associarsi, affinché sia più proficua la competizione tra i differenti interessi che si confrontano nella società. Einaudi vede infatti la concorrenza come un principio generale per comporre gli interessi sociali e per trovare nuove soluzioni, e dunque essa può dispiegare la sua funzione quasi di collante dell’ordine sociale a condizione che siano garantite tutte le libertà, compresa quella di associazione. E ciò perché


il mercato libero presuppone contraenti conoscitori delle quantità domandate ed offerte, capaci di entrare e uscire, ossia di offrire e di ritirare l’offerta della propria mano d’opera, e invece l’operaio od anche l’imprenditore singolo spesso non conosce il mercato, e per lo più è costretto ad accettare salari o prezzi inferiori al normale. Le leghe operaie non contraddicono dunque allo schema della concorrenza; ma sono uno strumento perfezionato della piena più perfetta attuazione di quello schema (Einaudi 1941, p. 166).


Mediante le associazioni di interessi, in altri termini, i soggetti della competizione tendono a ridurre le asimmetrie conoscitive per risolvere al meglio i loro problemi. Ne risulterà quindi una concorrenza più efficace nell’esplorazione dell’ignoto, a condizione, evidentemente, che si evitino monopoli della rappresentanza sindacale (operaia e imprenditoriale), i quali sarebbero in contraddizione con la logica della competizione.


7. L’abolizione del valore legale del titolo di studio

Tra i monopoli più dannosi per il progresso civile di una comunità, Einaudi non esita a collocare anche il monopolio statale dell’istruzione, il quale soffre dei mali comuni a tutti i monopoli: basso tasso di innovazione e scarso pluralismo (culturale, didattico e pedagogico). Esso si configura come un sistema pachidermico che, in assenza di competizione, non è in grado di rinnovarsi in linea con le sempre nuove esigenze del mondo del lavoro. In polemica con i suoi critici che lo avevano accusato di essere contro la scuola statale, Einaudi ha ripetutamente replicato che l’unico modo per salvare questo importante patrimonio è quello di sottometterlo al principio di concorrenza. «Senza concorrenza o possibilità di concorrenza fra istituti statali e istituti privati - scrive nelle Prediche inutili - non vi è sicurezza che l’insegnamento sia ottimo. Importa che esistano rivalità, emulazione, concorrenza affinché perizia, ingegno e carattere siano stimolati al bene», mentre invece, «il monopolio, anche dello stato, è sinonimo di stasi, di pigrizia mentale, di prepotere» (Einaudi 1959c, pp. 2-24).
Uno degli strumenti per garantire una parità di trattamento tra scuole statali e scuole private è rappresentato, per Einaudi, dall’abolizione del valore legale del titolo di studio, affinché sul mercato del lavoro, e più in generale nella competizione sociale, siano premiate le reali competenze. In questo modo la scuola e i contenuti che essa fornisce agli studenti diventeranno fattori più importanti del semplice possesso del titolo. La scelta della scuola da un lato, e la sua offerta formativa dall’altro, sarebbero in questo modo i fattori determinati del percorso formativo, i quali potranno essere migliorati solo mediante la concorrenza. È dunque per il suo bene che alla scuola di Stato deve essere «tolto il privilegio di fabbricare diplomi e di obbligare di fatto le scuole private a fabbricarli nella medesima maniera. Monopolio, uniformità, conformismo sono cause di decadenza e di mortificazione. La scuola di stato si salva e progredisce nella libertà» (Einaudi 1957, p. 150).
Einaudi è ben conscio che per rimuovere gli impedimenti alla più estesa concorrenza («monopoli, oligopoli, dazi doganali, contingentamenti, inibizione della concorrenza da parte dei nuovi venuti, brevetti e privative di ogni genere, favore negli appalti, imposte di fabbricazione, enti semipubblici forzosi, concessioni pubbliche di licenze»; ivi, p. 166) non basta solo abolire quelle leggi e quei provvedimenti che ne sono alla base, in quanto tali decisioni spesso «debbono la loro origine a forze economiche e politiche, le quali, se sono state tanto potenti da ottenere la promulgazione di quelle leggi, saranno abbastanza forti da impedirne l’abrogazione» (ivi, p. 167). Questo fondamentale obiettivo liberale può essere conseguito, invece, solo mediante «una lunga, faticosa, difficile, contrastata opera di educazione economica, sociale e politica, rivolta a persuadere il cittadino, ossia i ceti, i gruppi sociali e politici i quali agiscono sul legislatore, che una certa politica è più confacente all’interesse dei più dei viventi e delle generazioni venture» (ibidem). Occorre dunque una strategia culturale di ampio respiro, che mostri al più vasto pubblico che è nell’interesse di tutti, soprattutto dei più deboli, combattere i monopoli, gli oligopoli e qualsiasi forma di rendita protetta, ed estendere, con le opportune garanzie, la logica della concorrenza al maggior numero possibile di settori.


8. Economia di mercato e solidarietà

Per assolvere pienamente alla sua funzione di motore del progresso umano, la logica della concorrenza, nella filosofia liberale einaudiana, esige che gli individui siano messi in condizione di competere. Tra le strategie di difesa e potenziamento della concorrenza vi è quindi anche l’intervento dello Stato a sostegno dei meno abbienti.
Esule in Svizzera, nel 1944 Einaudi scrive le Lezioni di politica sociale, opera matura di un economista liberale attento al problema della solidarietà, ma anche di un intellettuale consapevole che le vicende storiche dell’ultimo ventennio trovavano nella lacerazione del tessuto sociale una delle cause più importanti. E allora, nella sua concezione pluralista e dinamica della società, incentrata sul principio di competizione, trova posto una impegnata riflessione sul tema della solidarietà sociale, nella convinzione che proprio dalle grandi disuguaglianze sociali e da una diffusa indigenza potesse venire una pericolosa minaccia per l’ordine liberale.
La “legislazione sociale” di uno Stato liberale, a giudizio di Einaudi, deve avere come obiettivo strategico quello di «avvicinare, entro i limiti del possibile i punti di partenza» degli individui (Einaudi 1944, pp. 75-76), affermando «il principio generale che in una società sana l’uomo dovrebbe poter contare sul minimo necessario per la vita» (ivi, p. 79). Un minimo che non induca i singoli all’ozio, che «non sia un punto di arrivo ma di partenza; una assicurazione data a tutti gli uomini perché tutti possano sviluppare le loro attitudini» (ivi, p. 80). Lo Stato liberale non solo deve garantire l’uguaglianza giuridica dei cittadini, ma deve anche intervenire per migliorare le chances dei più svantaggiati, stando ben attento ad evitare di perseguire il pericoloso miraggio di una impossibile uguaglianza sostanziale tra tutti gli individui, i cui esiti diventerebbero incompatibili con i principi liberali. Imposte progressive, tasse di successione sulle grandi eredità, assicurazioni contro gli infortuni, assegni familiari per i figli, pensioni di vecchiaia, servizi pubblici gratuiti, sussidi per i disoccupati, sono i principali strumenti della politica sociale che, ad avviso di Einaudi, deve garantire uno Stato liberale (ivi, pp.70 ss, pp. 283 ss).
I liberali, dunque, sono anch’essi a favore un certo grado di intervento dello Stato, tanto che per identificarli, scrive Einaudi in Liberismo e comunismo, «bisognerebbe inventare un altro nome» rispetto a quello di «liberisti», «tanto il loro atteggiamento mentale è lontano dal laisser-faire, laisser-passer» (Einaudi 1941, p. 68). In polemica con coloro che teorizzavano l’autosufficienza del mercato rispetto allo Stato, Einaudi, in una lettera a Ernesto Rossi del 1943, non esita a scrivere: «finirò per scrivere un articolo per dire che io non sono liberista [...]. La differenza non è tra liberista e interventista; ma fra interventismo e interventismo» (Einaudi, Rossi 1988, p. 122). L’intervento dello Stato a sostegno dei meno abbienti non solo non è incompatibile con la logica della concorrenza, ma serve proprio a potenziarla, perché, garantendo un sostegno economico a coloro che sono svantaggiati, esso amplia la platea dei soggetti in grado di competere e quindi di arricchire con le proprie risorse conoscitive e materiali l’ordine concorrenziale, il quale - in questo modo - potenzierà la propria capacità di problem solving.


9. Liberalismo e socialismo

Se tra liberalismo e comunismo vi è un «abisso [...] invalicabile» (Einaudi 1956, p. 240), in quanto il comunismo elimina libertà individuali, libera concorrenza e proprietà privata, tra liberalismo e socialismo democratico, ad avviso di Einaudi, vi è una differenza di grado, a seconda dei casi più o meno significativa (Einaudi 1944, pp. 203 ss). «Liberali e socialisti - si legge nelle Prediche inutili - sono concordi nel sentire il rispetto per la persona umana» (Einaudi 1956, p. 209). Essi concordano sul fatto che «l’uomo deve essere libero di pensare, di parlare, di credere, senza alcuna limitazione; sono parimenti persuasi che la verità si conquista discutendola e negandola, sono convinti che solo la maggioranza ha diritto di passare dalla discussione alla deliberazione» (ibidem). Liberali e socialisti sono anche convinti che «tutti sono uomini e hanno diritto a tutta quella libertà di opinare e di operare, la quale non neghi l’ugual diritto di tutti gli altri uomini» (ibidem).
Ma, oltre che sul principio di libertà, liberali e socialisti possono fare un significativo tratto di strada comune anche sul principio di uguaglianza: sono d’accordo sull’eguaglianza giuridica dei cittadini e sull’impossibilità e irrealizzabilità di una «eguaglianza assoluta o aritmetica» (ibidem). E concordano anche sulla necessità di interventi statali per ridurre eccessive disuguaglianze, mediante strumenti di politica sociale. Ciò su cui si dividono non sono i «principi», ma i «limiti» e le «applicazioni» delle politiche di intervento (ibidem). Ad esempio, spiega Einaudi, i socialisti «oltrepassano il punto critico della progressività delle imposte», perché, sulla base di una idea «manifestamente sbagliata», pensano che «il vero problema sia quello della distribuzione della ricchezza, e non più, come in passato, della sua produzione» (ivi, p. 216). Così pure sui sussidi: «i liberali sono più attenti ai meriti e agli sforzi della persona e sono propensi a tenersi stretti nell’ammontare dei sussidi, laddove i socialisti, meglio misericordiosi verso gli incolpevoli, sono pronti a maggiori larghezze» (ivi, p. 213).
In sostanza,


l’uomo liberale vuole porre le norme, osservando le quali risparmiatori, proprietari, imprenditori, lavoratori possono liberamente operare; laddove l’uomo socialista vuole soprattutto dare un indirizzo, una direttiva all’opera dei risparmiatori, proprietari, imprenditori e lavoratori anzidetti. Il liberale pone la cornice, traccia i limiti dell’operare economico; il socialista indica o ordina le maniere dell’operare (ivi, p. 218).


Il socialismo statalista, puntualizza Einaudi, «cristallizza», mentre il liberalismo è «elastico»: «il dirigismo favorisce gli interessi costituiti, il liberalismo minaccia i beati possidenti ed incoraggia gli uomini nuovi» (ivi, p. 221). La soluzione dirigistica «appare agevole e pronta. Partono gli ordini dai capi politici e devono essere eseguiti» (ivi, p. 222), mentre invece


il metodo liberale è certamente duro e penoso, ed è sempre provvisorio, perché le norme poste dalla legge sono il frutto dell’esperienza e devono essere rivedute a ogni esperienza nuova: esso è oggettivo, imparziale; pone regole di scelta, non sceglie. Non favorisce nessuno e fa prevalere quelli che meglio sanno scegliere la via del successo, entro i limiti dei vincoli uguali per tutti (ibidem).


Nonostante queste differenze, che possono essere anche molto accentuate, quello tra liberalismo e socialismo democratico è «un contrasto fecondo e creatore» (ivi, p. 239), perché in esso si esprime quel confronto tra idee che è alla base del progresso sociale.


L’optimum - osserva Einaudi - non si raggiunge nella pace forzata della tirannia totalitaria; si tocca nella lotta continua fra i due ideali, nessuno dei quali può essere sopraffatto senza danno comune. Solo nella lotta, solo nel perenne tentare e sperimentare, solo attraverso vittorie e insuccessi, una società, una nazione, prospera. Quando la lotta ha fine, si ha la morte sociale e gli uomini viventi hanno perduto la ragione medesima del vivere (ivi, pp. 242-243).


In conclusione, la vera linea di demarcazione tra liberali e socialisti non è «fra chi vuole e chi non vuole l’intervento dello Stato nelle cose economiche; ma tra chi vuole un certo tipo di intervento e chi vuole un altro tipo» (Einaudi 1959e, p. 398). Per cui afferma Einaudi, grande cultore del pensiero di Adam Smith:


va confutata ancora una volta la grossolana favola che il liberalismo sia sinonimo di assenza dello Stato o di assoluto lasciar fare o lasciar passare e che il socialismo sia la stessa cosa dello stato proprietario e gestore dei mezzi di produzione. Che i liberali siano fautori dello Stato assente, che Adam Smith sia il campione assoluto del lasciar fare e lasciar passare sono bugie che nessuno studioso ricorda; ma, per essere grosse, sono ripetute dalla più parte dei politici, abituati a dire “superata” l’idea liberale; non hanno letto mai nessuno dei libri sacri del liberalismo e non sanno in che cosa esso consista. Che i socialisti, conclude Einaudi, vogliano dare allo Stato la gestione compiuta dei mezzi di produzione è dettame talvolta scritto nei manifesti elettorali, ma ripugnante ai socialisti che aborrono dalla tirannia dello stato onnipotente, e tali sono tutti i socialisti (Einaudi 1956, p. 217).


10. Lo stato di diritto: l’habitat della competizione

Il «principio di libertà» e il «principio di competizione» possono generare solidarietà solo nel rispetto del «principio di legalità». La concorrenza economica e politica, e più in generale la «lotta» per la difesa dei vari interessi, possono essere al servizio del progresso umano solo se si svolgono nell’ambito di uno Stato di diritto, il quale difenda con la massima inflessibilità le libertà e i diritti soprattutto dall’«onnipotenza dello Stato» e dalla «prepotenza dei privati» (Einaudi 1942-43, p. 47). «Nel regime liberale - afferma Einaudi - la legge pone i vincoli all’operare degli uomini; ed i vincoli possono essere numerosissimi e sono destinati a diventare tanto più numerosi quanto più complicata diventa la struttura economica» (Einaudi 1941, p. 172). E l’esperienza «dei millenni e dei secoli dimostra l‘eccellenza del metodo della cornice», cioè di regole che lasciano un margine di azione agli individui, che sono liberi di agire nell’ambito dei confini stabiliti dalla legge (Einaudi 1956, p. 220). Lo Stato di diritto, fa osservare Einaudi nel Memorandum, è tale perché vi è «l’impero della legge» (Einaudi 1943-44, p. 45), che stabilisce vincoli «uguali per tutti, oggettivamente fissati e non arbitrari» (Einaudi 1941, p. 220). Il cittadino, quindi, «deve ubbidienza alla legge; ma a nessun altro fuori che alla legge» (Einaudi 1943-44, p. 45), la quale deve essere «una norma nota e chiara, che non può essere mutata per arbitrio di nessun uomo, sia esso il primo dello Stato» (ibidem). E può essere cambiata non ad libitum, ma solo quando oggettivamente «non risponde alle esigenze degli uomini» (ibidem), cioè quando la sua revisione va a «vantaggio del Paese» (ibidem). È nel rispetto di queste «condizioni essenziali» che si configura il «liberalismo concreto» (ibidem).
Ma affinché la legge assolva a pieno alla sua funzione di regola del gioco sociale è necessario che essa venga fatta rispettare da «magistrati ordinari, indipendenti dal governo e posti al di fuori e al di sopra dei favori del governo» (Einaudi 1941, p. 172). Un Paese, incalza Einaudi,


nel quale i giudici non siano e non si sentano davvero indipendenti, i quali non siano chiamati a giudicare in nome della pura giustizia, se occorre, anche contro le pretese dello Stato, è un Paese senza legge, pronto a piegare il capo dinanzi al primo demagogo venuto, al tiranno, al nemico (Einaudi 1943-44, pp. 48-49).


Il presidio maggiore della libertà dei cittadini in Inghilterra, non esita ad affermare Einaudi, è l’indipendenza dalla magistratura. La celebre risposta al mugnaio di Sans-Souci a Federico II, il quale voleva le sue terre: «”ci sono i giudici a Berlino!”, è la prova che quella prussiana era una società sana; e la sua resistenza a Napoleone ne fu la prova» (ibidem).
Un liberale, dunque, chiede ai magistrati che


facciano osservare contro chiunque, ricco, potente o povero, la legge quale essa vige, approvata dal Parlamento o dal Re e condannino chiunque la violi o pretenda di farsi legge del proprio arbitrio. E ciò facciano nonostante le raccomandazioni e le pressioni dei potenti, dei governi, dei prefetti, dei ministri, dei giornalisti e dei demagoghi (ivi, p. 49).


Certo, non si fa illusioni Einaudi, «questa non è evidentemente una via regia o dritta o rapida o sicura verso il benessere, verso la felicità, verso il bene. Anzi, tutto il contrario. È una via lunga, ad andate e ritorni, piena di trabocchetti e di imboscate, faticosa ed incerta» (Einaudi 1941, p. 172). E ciò perché


gli uomini devono fare esperimenti a loro rischio, debbono peccare e fare penitenza per rendersi degni del paradiso; perché essi non si educano quando qualcuno si incarica di decidere per conto loro e a loro nome quel che debbono fare o non fare, ma debbono educarsi da sé e rendersi moralmente capaci di prendere decisioni sotto la propria responsabilità (Einaudi 1943-44, p. 172).


11. Un liberale anglosassone erede di Cavour

Luigi Einaudi fu un profondo conoscitore del pensiero economico anglosassone e un grande ammiratore prima di Adam Smith e poi di John Stuart Mill. Dalla frequentazione dei classici del pensiero economico aveva maturato la convinzione che l’economia come scienza abbia una sua autonomia, legata alla ricerca di leggi, le quali, agli occhi del pragmatista Einaudi, traevano la loro forza dal fatto di superare indenni rigorosi controlli logici ed empirici. Ma da economista appassionato lettore proprio di Adam Smith, Einaudi sa bene che autonomia della scienza economica non vuol dire che essa sia autosufficiente e che si possa fare a meno della politica e dell’etica per governare i processi economici. Egli è ben conscio che le teorie economiche non sono in grado di fondare i giudizi di valore, ma possono “solo” aiutare a compiere scelte morali e politiche, indagando condizioni ed esiti delle decisioni. L’economista, ad esempio, può evidenziare quali sono le conseguenze della libertà individuale, ma la scelta della libertà e dei suoi effetti in termini di progresso materiale e spirituale è una ineliminabile opzione etico-politica.
Da questa concezione fallibilista e antifondazionista della scienza economica, Einaudi trae la convinzione dell’impossibilità di separare le scelte politiche dalle conoscenze economiche, in quanto la politica si nutre di ideali, i quali, per non essere vuoti e demagogici dottrinarismi, devono sempre essere legati alla conoscenza dei mezzi per attuarli.


Come possiamo immaginare un politico che sia veramente grande [...], il quale sia privo di un ideale? E come si può avere un ideale e volerlo attuare, se non si conoscono i bisogni e le aspirazioni del popolo che si è chiamati a governare e se non si sappiano scegliere i mezzi atti a raggiungere quell’ideale? (ivi, p. 98)


La proclamazione dei fini senza una reale conoscenza dei mezzi, spiega ancora Einaudi, «è irreale e deve essere nettamente respinta. Lo studio dei mezzi, cui dovrebbe oggettivamente ed esclusivamente occuparsi l’economista, è inseparabile dallo studio dei fini. I mezzi di libertà sono incompatibili con i fini illiberali» (ivi, p. 99).
Contro le ideologie e i dogmatismi di ogni tipo che propongono decisioni senza conoscenza, cioè scelte dettate dall’ideologia e non orientate ai problemi, Einaudi riafferma una rinnovata alleanza tra politica ed economia, tra una politica luogo di grandi e nobili scelte ideali e una scienza economica laboratorio di conoscenze indispensabili per evitare che le scelte politiche siano effettuate ad “occhi chiusi”. Occorre dunque, come scriverà in una delle sue più famose prediche inutili, «conoscere per deliberare» (Einaudi 1959b, pp. 3-14), perché proprio la conoscenza avrebbe naturalmente dissolto molti “pseudoproblemi” generati dall’ideologia. Da questa sua convinzione nasceva una profonda avversione a Giovanni Giolitti, ad avviso di Einaudi esempio di politico senza ideali e privo delle più elementari conoscenze economiche, e una grande stima per Cavour, che considerava uno dei vertici del liberalismo italiano, per la sua tempra morale, per aver svolto una grande missione a favore del popolo italiano e per la sua indubbia competenza economica (Einaudi 1943-44, pp. 85 ss).


12. L’idea di Europa

Luigi Einaudi un fine teorico dell’integrazione Europea. I suoi saggi, a partire dagli anni Venti, possono essere considerati tra i più lucidi contributi alla definizione dell’idea di unità europea. In particolare il contributo di Einaudi si inserisce nell’alveo degli autori che hanno promosso la teoria federale dello Stato (cfr. Einaudi 2004; Santagostino 2015; Forte 2009). Per questa ragione, dettati da esigenze di sintesi, prenderemo in considerazione un saggio di Einaudi nel quale è presente l’eco delle riflessioni tanto di Lionel Robbins (Robbins 1948) quanto di Friedrich August von Hayek (Hayek 2016). L’economista si inserisce in questa riflessione, assumendo come elemento problematico la ricerca di un modo originale di leggere il corso della storia, che possiamo definire extra-nazionale ed extra-istituzionale. Egli prende in esame la possibilità di affrontare il problema dell’unità europea, partendo dall’osservazione di alcune linee generali dell’agire umano, in un particolare momento storico: le due guerre mondiali, ed in una particolare porzione del mondo, l’Europa (cfr. Albertini 1963, pp. 184-185).
L’analisi di Einaudi circa l’interpretazione del corso della storia europea fra le due guerre mondiali sembrerebbe risentire di quella particolare visione del federalismo che non ammette alcuna sottomissione o subordinazione a nessuna particolare concezione o filosofia politica. Il federalismo si definisce in modo autonomo, mediante 1. una propria struttura giuridico-istituzionale: la teoria dello Stato federale; 2. una propria base storico-sociale: il cosmopolitismo; 3. un proprio valore: la pace.
Il saggio di Einaudi al quale faremo riferimento si intitola Il riferimento storico del problema e consiste in un discorso pronunciato il 29 luglio 1947 presso l’Assemblea Costituente in occasione della discussione sulla ratifica del trattato di pace. Einaudi, già Governatore della Banca d’Italia, nel saggio in questione, intendeva esprimere alcune considerazioni che, per la loro portata storica, andavano al di là dell’urgente dibattito politico, il quale poneva all’ordine del giorno un tema estremamente delicato per le conseguenze che un eventuale irrigidimento della posizione italiana sul riassetto politico dell’Europa avrebbe potuto provocare, all’indomani della drammatica e fallimentare esperienza della seconda guerra mondiale. Einaudi, in quella circostanza, si oppose a Benedetto Croce che chiedeva di respingere la ratifica del trattato di pace.
Al centro della riflessione di Einaudi c’era una critica profonda all’operato svolto dalla Società delle Nazioni. Il Nostro intravedeva nel ruolo svolto da questa istituzione una fondamentale lacuna che egli rintracciava nell’incapacità di superare la rigida divisione dell’Europa in Stati sovrani nazionali: «Il vizio era chiaro: la Società delle nazioni era una lega di stati indipendenti, ognuno dei quali serbava intatti un esercito proprio, un regime doganale autonomo ed una rappresentanza sovrana sia presso gli altri stati sia presso la lega medesima» (Einaudi 1947, p. 6423).
Tale evidente debolezza della Società delle Nazioni, rispetto alle singole sovranità nazionali, fecero dell’organizzazione una lega di Stati indipendenti, esattamente quella formula istituzionale sopranazionale deprecata da Kant e contro la quale si batterono Hamilton ed i federalisti unionisti (ibidem).
La proposta di Einaudi si può riassumere tutta in un’espressione: gli Stati Uniti d’Europa. A tal proposito, egli affermava che un simile progetto si sarebbe potuto realizzare impugnando o la spada di Dio o quella di Satana. Nel recente passato, Satana si era chiamato Hitler, l’Attila moderno, tuttavia il suo progetto di unificazione mediante la forza bruta è fallito miseramente, lasciando dietro di sé una sterminata scia di orrore. Se il folle progetto del dittatore è fallito, afferma Einaudi, lo si deve soprattutto all’ideale cristiano, che ha nutrito la civiltà europea ed ha consentito che si sviluppasse tra i popoli una profonda fede nella libertà, la quale, in ultima analisi, rappresenta il contributo più originale che, nel campo della filosofia sociale, il cristianesimo ha offerto alla cultura occidentale (cfr. Tomatis 2011). Per il liberale Einaudi, infatti, tale resistenza al «grido inumano... verso ideali bestiali di razza, di sangue, di dominazione di uomini eletti», sgorgava da una particolare radice ideale: il cristianesimo, ossia dal «dal libero perfezionamento individuale e dall’elevazione autonoma di ogni uomo verso Dio» (Einaudi 1947, p. 6424).
Se l’aver impugnato nel passato la spada di Satana ha prodotto i disastri che conosciamo, non ci resta, afferma Einaudi, che impugnare la spada di Dio: «Invece della idea di dominazione colla forza bruta, l’idea eterna della volontaria cooperazione per il bene comune» (ibidem).
Einaudi è convinto che all’indomani della seconda drammatica calamità artificiale che ha sconvolto il mondo intero, distruggendo l’intera Europa, l’Italia, più che rivendicare diritti sui territori sottratti con il trattato di pace, dovrebbe mostrare ai Paesi fratelli dell’Europa una capacità d’iniziativa volta alla costituzione degli Stati Uniti d’Europa, attraverso quella che egli chiama la predicazione della “buona novella”: l’idea della libertà contro l’intolleranza, della cooperazione contro la forza bruta. L’Italia che sognava Einaudi era un’Italia che fuggisse la tentazione dell’isolazionismo o del neutralismo guerrafondaio e si facesse promotrice di un’Europa aperta a tutti. Un’Europa dove, non ciascuno Stato, bensì ciascun individuo potesse far valere i propri personali, contrastanti ideali. Eccoci giunti alla sostanza del problema: non la realizzazione di una confederazione di Stati europei, bensì l’edificazione del popolo federale europeo (cfr. Albertini 1963, p. 185).
L’ideale federalista di Einaudi trova una pratica realizzazione nell’applicazione della teoria hamiltoniana dello Stato federale. Dunque, un parlamento dove siano rappresentati, in una camera elettiva, direttamente i popoli europei, attraverso il metodo dell’elezione dei rappresentanti di ciascuno Stato, in proporzione ai suoi abitanti; e un’altra camera dove i rappresentanti di ciascuno Stato siano eletti in numero uguale. Ecco, dunque, l’ideale per il quale Einaudi intende spendersi, l’unico a suo dire per il quale valga la pena di lavorare, poiché il solo capace di realizzare un’unità rispettosa dell’autentica indipendenza dei singoli Stati. Indipendenza che non risiede nell’arbitrario uso delle armi né nelle barriere doganali che restringono il commercio, bensì nella scuola, nelle arti, nei costumi e nelle istituzioni culturali, ossia, in tutto ciò che contribuisce all’edificazione di uno spirito pacifico, di tolleranza e di reciproco arricchimento tra i popoli.
Einaudi conclude il saggio chiedendosi se informare tutta la propria condotta alla libertà non sia un’utopia; se l’ideale della libertà spirituale degli uomini, l’elevazione di ogni uomo verso il divino e la cooperazione tra i popoli non siano soltanto buone intenzioni che non si verificheranno mai. Ebbene, anche qualora tutto ciò fosse vero, egli è convinto che ormai la scelta è obbligata, non abbiamo alternative. Possiamo scegliere soltanto fra utopia e morte, fra l’utopia e la legge della giungla:


Perché non dovremmo anche noi far trionfare in Europa gli ideali immortali, i quali hanno fatto l’Italia unita e si chiamano libertà spirituale degli uomini, elevazione di ogni uomo verso il divino, cooperazione tra i popoli, rinuncia alle pompe inutili, tra cui massima la pompa nefasta del mito della sovranità assoluta? (Einaudi 1947, p. 6426).


Conclusione

Quando, con la dittatura fascista ormai iniziata, dovette scegliere un pensatore da presentare come simbolo per tutti coloro che si battevano contro il regime, Einaudi non esitò a indicare John Stuart Mill. E nell’introduzione all’edizione italiana di On Liberty, pubblicata da Piero Gobetti nel 1924, contro «il conformismo assoluto del vangelo nazionalista imposto dal fascismo», riaffermò «l’importanza suprema per l’uomo e per la società di una grande varietà di tipi e di caratteri e di una piena libertà data alla natura umana di espandersi in innumerevoli e contrastanti direzioni», e concludeva: «Sillabo, conformismo, concordia, leggi repressive degli abusi della stampa sono sinonimi ed indici di decadenza civile. Lotte di parte, critica, non conformismo, libertà di stampa preannunziano le epoche di ascensione dei popoli e degli stati» (Einaudi 1943-44, p. 80).
Agli inizi della funesta avventura totalitaria dell’Italia, ispirandosi a Mill, Einaudi si batte per un liberalismo inteso come concezione complessiva della società. Un liberalismo che concepisce la società (oltre che il mercato) come un “ordine spontaneo”, ma che allo stesso tempo, come nella migliore delle tradizioni dell’”economia sociale di mercato”, assegna allo Stato un ruolo decisivo per orientare l’economia di mercato verso principi di solidarietà e per difendere lo spazio invalicabile dentro il quale può radicarsi la libertà civile e può esprimersi la coscienza individuale (cfr. Silvestri 2008, 29 ss.). Libertà che, sulla scorta di Mill, Einaudi concepisce come la conditio sine qua non di quella discussione critica e di quel kantiano “antagonismo tra idee”, che è alla base del progresso sociale, conoscitivo e anche morale dell’umanità.


Se fossi capace - scrive Einaudi nel 1922 - vorrei scrivere un inno, irruente e avvincente [...], alla discordia, alla lotta, alla disunione degli spiriti. Perché dovrebbe essere un ideale pensare ed agire nello stesso modo? [...] Il bello, il perfetto non è l’uniformità, non è l’unità, ma la varietà, il contrasto [...]. L’aspirazione all’unità, all’impero di uno solo, è una vana chimera, è l’aspirazione di chi ha un’idea, di chi persegue un ideale di vita e vorrebbe che gli altri, che tutti avessero la stessa idea e anelassero verso il medesimo ideale. Egli una sola cosa non vede: che la bellezza del suo ideale deriva dal contrasto in cui esso si trova con gli altri ideali [...]. Se tutti lo accettassero il suo ideale sarebbe morto. Un’idea, un modo di vita, che tutti accolgono, non vale più nulla [...]. L’idea nasce dal contrasto. Se nessuno vi dice che avete torto, voi non sapete più di possedere la verità. Il giorno della vittoria dell’unico ideale di vita, la lotta ricomincerebbe, perché è assurdo che gli uomini si contentino del nulla (Einaudi 1922, p. 114).


* Questo testo riprende in buona parte il saggio di Di Nuoscio E. (2013), Il liberalismo di Luigi Einaudi, in Ph. Nemo, J. Petitot (a cura di), Storia del liberalismo in Europa, tr. it. Rubbettino, Soveria Mannelli.


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