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Enrico Berlinguer: un altro comunismo

Marcello Montanari
Articolo pubblicato nella sezione “Libertà e democrazia nella cultura politico-giuridica italiana”

Nella Conferenza internazionale dei Partiti Comunisti, tenutasi a Mosca nel giugno 1969, Enrico Berlinguer (Sassari, 25 maggio 1922 - Padova, 12 giugno 1984), divenuto vice-segretario del partito al XII Congresso del PCI (Bologna, febbraio 1969), tiene un discorso in cui, analizzando la situazione internazionale e i rapporti esistenti tra i diversi partiti comunisti, fornisce una prima elaborazione di una teoria della politica come attività il cui obiettivo principale è la costruzione di un sistema di relazioni tra soggettività diverse. In quel discorso, pur condividendo le critiche rivolte dai sovietici al Partito comunista cinese, Berlinguer afferma che non può esistere un «modello unico» di socialismo e che il Pci seguirà una propria visione del socialismo nel rispetto dei principi democratici fissati dalla Costituzione italiana.


Noi – egli afferma – respingiamo il concetto che possa esservi un modello di società socialista unico e valido per tutte le situazioni. [...] Per quanto riguarda il nostro paese, noi lottiamo per avanzare al socialismo su una via democratica, che è una via di lotta di classe e di lotte di massa, anche molto aspre; [...] pensiamo che, nelle nostre condizioni, l’egemonia della classe operaia debba realizzarsi in uno schieramento di lotta, in un blocco di potere, in un sistema politico pluralistico e democratico (Berlinguer 1975, vol. I, pp. 42 e 43).


Berlinguer non si limita a riaffermare la validità della «via democratica al socialismo» e a distinguerla da quella rivoluzionaria attuata in Russia nel 1917. È lo stesso modello di società costruita intorno al Partito-Stato, che concentra nelle sue mani tutto il potere politico ed economico, ad essere messo in discussione. Ciò che egli tenta di delineare è un socialismo senza statalismo, pur nella consapevolezza che la lotta contro l’individualismo e contro il capitalismo liberista non può risolversi e consistere nella eliminazione di ogni forma di pluralismo politico e sociale.
In questo quadro la lotta all’imperialismo si configura come la lotta contro la divisione del mondo in blocchi contrapposti. È questa contrapposizione, secondo Berlinguer, a favorire l’assoggettamento dei popoli alle due grandi potenze economico-militari; a impedire loro di essere realmente indipendenti e eguali (cfr. ivi, p. 51). L’idea della Pace come obiettivo fondante la stessa azione politica, ovvero; il riconoscimento della eguaglianza e indipendenza dei popoli e della loro interdipendenza (pur preservandone le diversità culturali) è il principio teorico fondamentale che guida la strategia politica di Berlinguer. L’agire politico a questo deve servire: a salvaguardare l’autonomia politica dei popoli e la loro crescita civile.
Sono queste stesse ragioni a motivare il giudizio negativo sulla politica del Partito comunista cinese:


noi consideriamo profondamente erroneo che il Partito comunista cinese riconfermi la pretesa di dettare a tutti i paesi e a tutti i partiti, come unica via valida, la via che esso segue, proclamando il pensiero di Mao Tse-tung come il “marxismo-leninismo” dell’epoca contemporanea (ivi, p. 47).


Ciò che, dunque, più interessa a Berlinguer è il superamento della divisione del mondo e l’individuazione di un tipo di socialismo diverso da quello già realizzato (sia in Urss che in Cina). Sono questi i temi che attraversano i tre articoli su Riflessioni sull’Italia dopo i fatti del Cile, pubblicati su «Rinascita» tra il settembre e l’ottobre 1973.
Scritti dopo che è divenuto segretario del Pci al XIII Congresso del Pci, nel marzo 1972, in quegli articoli Berlinguer si preoccupa di tradurre in concreta strategia politica la sua visione di una ricomposizione del genere umano e di un superamento delle fratture politiche e culturali che attraversano le singole nazioni. In quegli articoli egli sostiene che, in Cile, il colpo di Stato di Pinochet contro il legittimo presidente Salvador Allende è stato possibile a causa della divisione del mondo in due blocchi contrapposti. È questa divisione a giustificare (anche se non legittima) l’intervento di una potenza militare in paesi ritenuti appartenenti alla propria zona d’influenza. Ed è tale divisione a rendere difficile il realizzarsi di una autentica Pace nel mondo.


La distensione e la coesistenza - egli afferma - non comportano di per sé, automaticamente, e in un periodo breve, il superamento della divisione del mondo in blocchi e zone di influenza, e quindi non precludono agli Usa la possibilità di interferire nei più vari modi, compresi quelli più sfacciati, nelle zone e nei paesi che essi vorrebbero acquisiti per sempre dentro la sfera del loro dominio diretto o indiretto (Berlinguer 1975, vol. II, p. 615).


Dunque, la coesistenza tra i blocchi non garantisce la Pace e non impedisce la frantumazione sociale e politica delle singole nazioni. Anzi, come attestano i fatti cileni e come nel 1968 aveva mostrato l’occupazione di Praga da parte dei sovietici, favorisce e legittima l’intervento delle grandi potenze nelle zone e nei paesi che esse vorrebbero sotto la loro diretta influenza. La divisione del mondo è la principale causa di guerre civili e del permanere di una conflittualità tra le potenze nucleari che costringe il genere umano a vivere sempre sull’orlo dell’abisso. Impedire questa catastrofe è la funzione che Berlinguer attribuisce all’azione politica. Occorre, perciò, superare le divisioni tra Occidente e Oriente per assicurare la pace e per costruire sistemi politici fondati su un comune sentire, sulla coscienza della esistenza di una ineliminabile e necessaria interdipendenza tra i popoli.


Il progredire della distensione e della coesistenza – osserva ancora Berlinguer – costituisce una condizione indispensabile per favorire il superamento della divisione del mondo in blocchi o zone d’influenza, per facilitare l’affermazione del diritto di ogni nazione alla propria indipendenza e quindi, in ultima analisi, per ridurre le possibilità dell’interferenza imperialistica nella vita di altri paesi. In pari tempo, camminare decisamente sulla strada della distensione e della coesistenza significa sollecitare i processi di sviluppo della democrazia e della libertà in tutti i paesi del mondo, quale che sia il loro regime sociale (ivi, pp. 615-616).


La crescita di forme di coesistenza e il riconoscimento della necessità di una interdipendenza politica e sociale costituiscono, dunque, le indispensabili premesse per lo sviluppo della democrazia in ogni singolo paese. È solo assicurando tali processi di pacificazione internazionale che è possibile superare le divisioni interne alle singole nazioni generate dalla «guerra fredda» e, per quanto riguarda l’Italia, ritrovare le ragioni di uno spirito «nazional-popolare» unitario, di un sentimento nazionale che ha trovato la sua espressione nella Costituzione e che affonda nella storia della lotta antifascista le proprie radici. Da qui la volontà del Partito comunista «di fare i conti con tutta la storia italiana, quindi anche con tutte le forze politiche (d’ispirazione socialista, cattolica o di altre ispirazioni democratiche) che erano presenti sulla scena del paese e che si battevano insieme a noi per la democrazia, per l’indipendenza del paese e per la sua unità» (ivi, p. 619).
Senonché, osserva ancora Berlinguer, se l’obiettivo è l’unificazione interna della nazione, allora, «l’unità dei partiti dei lavoratori e delle forze di sinistra non è condizione sufficiente per garantire la difesa e il progresso della democrazia ove a questa unità si contrapponga un blocco di partiti che si situano dal centro fino all’estrema destra» (ivi, p. 633). E, in seguito, preciserà ulteriormente tale concetto, osservando che è necessario vincere l’illusione di


credere nell’autosufficienza politica di un governo che [sia] espressione soltanto del finalmente raggiunto governo del 51% dei voti alla sinistra [...]. La nostra linea del “compromesso storico”, invece, mira a dare all’Italia quella nuova guida politica, che in tanto è solida e stabile, è rinnovatrice ed efficiente in quanto è l’espressione e il risultato di una nuova e più salda unità della grande maggioranza dei lavoratori e del popolo (ivi, p. 969).


La necessità di un «compromesso storico» tra le grandi culture democratiche presenti nella Nazione si giustifica, così, con la realizzazione di una unità nazionale in grado di contrastare, di opporsi alla stessa divisione del mondo. Solo attraverso un nuovo grande «compromesso storico» tra le forze che raccolgono e rappresentano la grande maggioranza del popolo italiano è possibile «aprire finalmente alla nazione una sicura via di sviluppo economico, di rinnovamento sociale e di progresso democratico» (ivi, pp. 638-639).
L’obiettivo che Berlinguer si pone è, dunque, quello di ricostruire l’unità della nazione italiana. Egli si rende conto che superare la contrapposizione tra comunisti e democristiani, tra riformatori e moderati, in un paese della NATO, può rappresentare una iniziativa politica assai dissonante con gli interessi delle due grandi potenze militari, nonché un modello politico per altre nazioni. Tuttavia, egli è consapevole che questa è l’unica via da seguire per contrastare la divisione del mondo e costruire la Pace. Questa era, in effetti, la finalità principale del «compromesso storico»: fornire un primo esempio di riunificazione dei popoli, divisi anche al loro interno dalla guerra fredda, e indicare un modo per impedire i conflitti militari e per avviare il progresso civile dei singoli paesi. Il «compromesso storico» indicava la via per superare l’ordine mondiale fondato sulla «guerra fredda» e per evitare il ripetersi di eventi come quelli cileni; per creare un clima politico in cui le lotte sociali non potessero essere ricondotte allo scontro tra le due maggiori potenze militari. Esso, in definitiva, suggeriva la via da percorrere per giungere a un reciproco riconoscimento delle forze in campo e forniva gli strumenti e il quadro politico per la piena realizzazione di quei valori di libertà e di giustizia sociale che, posti alla base della Repubblica italiana con la Costituzione, assumevano come principale finalità dell’agire politico il pieno sviluppo della persona umana. Perciò, intendeva consolidare il pluralismo politico e culturale e costruire un forte sentire comune, in grado, cioè, di assicurare la piena autonomia politica della nazione e di escludere qualsiasi tipo di ingerenze di potenze “imperialistiche”. E, nello stesso tempo, escludeva qualsiasi ipotesi di costruzione di un Partito-Stato; ipotesi che, invece, l’ideologia sovietica assumeva come unica forma possibile di socialismo. Il modello sovietico di socialismo, d’altra parte, aveva trovato proprio nella logica della contrapposizione politico-militare tra i due blocchi le ragioni per una sua legittimazione. La sua forma totalitaria e la crescita esponenziale degli apparati militari, nonché la stessa militarizzazione della vita sociale, finivano con il trovare la propria giustificazione nella necessità di dover difendere quella autonomia nazionale e quel sistema produttivo che, realizzati nello spirito dei valori egualitari affermatisi con la rivoluzione del ’17, avevano trasformato la Russia zarista - economicamente assai debole e prevalentemente contadina - in un moderno Stato industriale.
La DC e i conservatori - osserva ancora Berlinguer in quegli articoli - hanno interrotto il cammino di unificazione del popolo italiano, iniziato con la lotta antifascista. Quel cammino va ripreso e portato a compimento. Occorre portare a termine quel processo di unificazione culturale della nazione italiana. Occorre costruire uno spirito nazionale, unitario e democratico, per contrastare la divisione del mondo. E, a tal fine, occorre sollecitare le forze democratiche cattoliche a cooperare a un lavoro di costruzione di quelle forme di vita politica e sociale (leggi, istituzioni, apparati dello Stato e strutture sociali: sanità, istruzione, ecc.), che possono garantire una «vita in comune». Una vita in cui siano assicurati - per usare espressioni dell’aristotelismo umanistico - il bene agere, il bene vivere e il felicem vivere.
Il «compromesso storico» è, dunque, pensato da Berlinguer come il formarsi di un «sentire comune» e di un «pensare insieme» che non può esaurirsi in una formula di governo. Esso era la proposizione di una visione e di una nuova pratica della politica come ricerca delle forme e dei modi per realizzare una intesa tra le forze democratiche (al di là dello specifico ruolo di governo o di opposizione che i singoli partiti avrebbero via via potuto assumere), per assicurare la crescita della nazione. Una visione e una pratica che doveva caratterizzare un’intera fase storica.
È evidente che, individuando questo percorso, Berlinguer intendeva anche insistere sulla necessità di una radicale revisione dell’ideologia comunista. Perciò, in una intervista televisiva del dicembre 1981, dopo aver condannato lo stato d’assedio proclamato in Polonia dal Partito comunista al potere e gli arresti e la repressione di ogni forma di dissenso, potrà affermare che:


ciò che è avvenuto in Polonia ci induce a considerare che effettivamente la capacità propulsiva di rinnovamento delle società, o almeno di alcune società, che si sono create nell’Est europeo, è venuta esaurendosi. Parlo di una spinta propulsiva che si è manifestata per lunghi periodi, che ha la sua data d’inizio nella Rivoluzione socialista d’ottobre, il più grande evento rivoluzionario della nostra epoca, e che ha dato luogo poi a una serie di eventi e di lotte per l’emancipazione nonché a una serie di conquiste.


E aggiungerà: «è necessario che avanzi un nuovo socialismo nell’ovest dell’Europa, nell’Europa occidentale, il quale sia inscindibilmente legato e fondato sui valori e sui principi di libertà e di democrazia» (Berlinguer 2014, pp. 272-273).
Sono affermazioni che ancora una volta portano il Pci a condannare l’azione politica dell’URSS. Ma esse non si limitano a questo, né si risolvono in una semplice constatazione storica (ovvero, nel riconoscere che «non è più immaginabile una rivoluzione in Occidente simile a quella sovietica del ’17»). Esse implicano il riconoscimento della fine dell’ideologia leninista - centrata sulla conquista e occupazione dello Stato da parte del partito della classe operaia - e, quindi, la necessità di ripensare i fondamenti teorici e la stessa storia del movimento comunista italiano e internazionale. E tuttavia, nella visione di Berlinguer, ciò non comportava una liquidazione dell’intera tradizione comunista (o, di una sua «rottamazione», come si dirà in seguito), perché egli invitava a un lavoro teorico e politico assai più complesso e difficile: invitava a ritrovare, al di là dell’esperienza sovietica, le ragioni culturali e storiche che avevano portato alla formazione del movimento comunista. Si trattava di ritornare alle radici di quel movimento, a quei princìpi che le scelte compiute per affermare e consolidare il potere di un Partito-Stato avevano finito con il nascondere e perdere.
Da qui il tentativo di avviare - insieme agli altri partiti comunisti europei - una riflessione per separare la cultura e la strategia politica del comunismo europeo da quello sovietico. Il tentativo di ricostruire una identità etico-politica in grado di dialogare con le forze moderate e di elaborare con esse le soluzioni delle questioni sociali e dei diritti umani (dalla lotta alla povertà alla crescita civile e culturale) che la società capitalistica tornava ciclicamente a suscitare. Da qui anche la necessità di un’apertura verso quelle grandi socialdemocrazie europee (e, in particolare, verso quella tedesca e quella svedese) che avevano saputo mantenere una politica di difesa della democrazia e dei diritti sociali e che, pur accettando le regole dello sviluppo capitalistico, avevano cercato di circoscrivere e togliere quella logica distruttiva di risorse umane e materiali, che, invece, il cosiddetto libero mercato non cessava di rigenerare continuamente e di giustificare .
È sicuramente nella prospettiva del «compromesso storico» (senza avere la pretesa di risolvere l’insieme dei problemi che esso sollevava) che si inseriva il tema della formazione di un governo di «solidarietà nazionale» che, di fatto, liquidava ogni ipotesi di costruzione di una «alternativa democratica» da contrapporre al «potere democristiano». E, in verità, tale linea avrebbe implicato una ulteriore spaccatura della Nazione e un acutizzarsi delle ragioni della «guerra fredda». Avrebbe implicato una ripetizione degli errori commessi in Cile e la pura accettazione della politica internazionale sovietica, nonché la conseguente riattualizzazione del marxismo-leninismo. Il «compromesso storico» e l’«eurocomunismo», invece, intendevano liquidare la logica amico-nemico. Volevano essere le espressioni politico-strategiche di una revisione radicale dei principi del marxismo classista sovietico, senza che ciò implicasse l’abbandono di una visione progressiva (= di ulteriore democratizzazione) della democrazia. La strategia berlingueriana, di fatto, racchiudeva in sé una idea della democrazia come sistema di regole e di strutture istituzionali il cui fine fondamentale è la crescita civile e culturale dei cittadini; un’idea della democrazia come strumento per la diffusione della conoscenza dei meccanismi di governo e, quindi, come forma e metodo per accrescere le capacità di auto-governo dei cittadini.
In questa prospettiva, la formazione di un governo di «solidarietà nazionale» era vista da Berlinguer solo come l’avvio di una nuova fase della vita democratica. Il governo di solidarietà nazionale non poteva avere la pretesa di affrontare e risolvere tutte le questioni e le istanze sollevate dal compromesso storico, ma poteva costituire la prima tappa di un processo di costruzione di una realtà nazionale in cui la persona umana e la sua crescita civile e intellettuale fossero poste al centro del lavoro politico dei partiti. Solo così i partiti avrebbero assolto a quella funzione “pedagogica” (ovvero: di formazione del senso civile o dello spirito comunitario della Nazione) cui la stessa Costituzione li chiamava.
Sennonché, l’assassinio di Aldo Moro (maggio 1978) e la caduta di ogni possibile interlocutore nella socialdemocrazia europea, e negli stessi partiti comunisti occidentali, pongono fine non solo alla possibilità di un governo di solidarietà nazionale, ma anche ad ogni ipotesi di superamento della divisione del mondo in blocchi contrapposti. Il processo che avrebbe dovuto condurre al compromesso storico viene interrotto. Di fatto, il Pci si ritrova isolato ed escluso dall’area di governo. Mentre il PSI, che aveva criticato quella linea considerandola moderata e «consociativa», si ritrova nella posizione di poter condizionare ogni scelta politica della DC. Berlinguer è costretto ad arretrare su una visione conflittuale della politica, a riproporre la logica amico-nemico e a prendere in considerazione una strategia di «alternativa democratica».
Questo arretrare non comportava, comunque, un totale abbandono della precedente prospettiva politica, ma una sua ridefinizione di fronte al venir meno di interlocutori credibili. Berlinguer vede il venir meno delle radici democratiche e popolari dei partiti che avevano partecipato alla lotta antifascista e si preoccupa di recuperare e riproporre le ragioni che avevano portato alla costituzione della democrazia italiana e di ricercare le forme di un tipo di socialismo assai diverso da quello sovietico: un tipo di socialismo costruito sulla visione di una democrazia progressiva e pluralista. Il che motivava la sua riflessione intorno al ruolo che i partiti politici devono assolvere entro il sistema democratico, per rafforzarlo e farlo crescere.
È proprio il suo intervento più radicale e «alternativo» a testimoniare questi suoi intenti.
Nell’intervista a Eugenio Scalfari, pubblicata su «La Repubblica» del 28 luglio 1981, Berlinguer afferma:


I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientele, scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune. La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su questo modello, e non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile e l’iniziativa: sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un “boss” e dei “sottoboss” (ivi, p. 237).


E così prosegue: «I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal governo. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai-TV, alcuni grandi giornali» (ivi, p.238).
Quella di Berlinguer non è una condanna moralistica dei partiti. Non è sua intenzione criticare e colpire la «partitocrazia». Ciò che lo preoccupa è l’allontanarsi dei partiti dalle loro radici democratiche. I partiti non costituiscono più la «trama privata della società civile» e, soprattutto, non sono più i portatori di culture che strutturano, unificano, formano e orientano il popolo-nazione. La loro «corruzione» è qui. E in questa loro mutazione essi tradiscono lo spirito della Costituzione. Non si preoccupano più di salvaguardare e educare la persona umana, di trasformare gli individui da sudditi in cittadini. E Berlinguer non utilizza la categoria della «partitocrazia». Non è il sistema dei partiti che egli intende criticare, ma piuttosto l’abbandono da parte dei partiti democratici delle funzioni di orientamento e di educazione politica che essi devono svolgere nell’organizzare e rappresentare le diverse anime del popolo. E quando sostiene che i partiti hanno occupato lo Stato, ancora una volta, egli intende sottolineare che le funzioni e i compiti che uno Stato democratico deve assolvere sono quelli che attengono alla unificazione della Nazione; alla formazione di un popolo spiritualmente e socialmente unito. L’occupazione dello Stato da parte dei partiti rende, invece, lo Stato strumento di una sola parte della nazione. Lo Stato non è più universale ma «di parte» e, perciò, destinato a riprodurre conflitti al suo interno e guerre tra i popoli. Denunciare «questione morale» (da molti volgarmente ridotta al tema della corruzione dei singoli politici) significava, in verità, sollevare problemi di riorganizzazione delle funzioni dei partiti e di riforma dello Stato.
Anche nella intervista a Scalfari ciò che Berlinguer - ancora una volta sulla linea di Togliatti - torna a riproporre è, dunque, l’idea di una democrazia strutturata, cioè: costituita da «corpi intermedi»; di una democrazia che è progressiva in quanto si preoccupa di formare, educare i cittadini, ovvero: di renderli consapevoli della realtà che li circonda, fornendo loro i necessari strumenti conoscitivi. In breve, egli torna a opporre la funzione e il valore delle culture democratiche tradizionali (dal cattolicesimo sociale al comunismo), che ambivano a organizzare la vita sociale attraverso «corpi intermedi», alle culture individualiste e liberiste che si venivano affermando. E riteneva che fossero proprio queste culture a originare la «corruzione» della vita democratica, nella misura in cui erano portatrici di una concezione dell’individuo come presupposto assoluto e irrelato della vita sociale e, quindi, fautrici della assoluta preminenza degli interessi privati su quelli collettivi.
Berlinguer vede chiaramente che, mentre l’Occidente (con Reagan e la Thatcher) si avvita entro un liberismo che decostruisce la tradizione antifascista di una «democrazia organizzata» e si avvia verso una crisi etico-politica, diviene indispensabile (anche se utopistico) riproporre l’idea di una democrazia in grado di ricostruire un «comune sentire» e di dare vita a forme diffuse e organizzate di partecipazione alla vita politica. Sennonché, questo ambizioso disegno politico di rifondazione della democrazia si verrà scontrando con le dure dinamiche di un mondo ormai dominato da logiche mercantili e conflittuali, esibendo, così, la tragica distanza dell’«ideale» dal «reale».
V’è, nell’ultimo Berlinguer (ma è un limite dell’intero Pci), una non compiuta comprensione della natura della modificazione morfologica della società dettata dalla informatizzazione dei processi produttivi. Modificazione che chiudeva la «breccia» tra capitale finanziario e sistema dei saperi che si era aperta a partire dalla metà degli anni Sessanta. Se, infatti, in quegli anni si era venuta registrando una separazione-contrapposizione tra l’organizzazione capitalistica della produzione e il sistema dei saperi (non solo dei saperi umanistici ma soprattutto di quegli scientifici), perché venivano s-valorizzati e sotto-utilizzati, ora la rivoluzione informatica apre nuovi spazi all’utilizzo di quei saperi, li valorizza e offre loro nuove funzioni dirigenti. Si realizza, così, una ricomposizione tra capitale e lavoro intellettuale. Il che risulterà evidente quando nel 1980, di fronte alla volontà della Fiat di mettere in cassa integrazione migliaia di operai, Berlinguer e il Pci si schiereranno con nettezza a difesa degli interessi della classe operaia, ma dovranno fronteggiare l’opposizione dei quadri tecnici della stessa Fiat, che, a loro volta, organizzeranno una manifestazione contro lo sciopero operaio. Nella marcia dei 40.000 tecnici della Fiat si rappresenterà emblematicamente l’avvenuta ricomposizione del rapporto capitale-saperi, e si evidenzieranno l’isolamento del Pci e tutti i limiti di una strategia costruita sull’idea dell’alternativa democratica. È un momento estremamente significativo, perché testimonia i ritardi della elaborazione teorica e strategica del Pci. La manifestazione dei tecnici della Fiat attestava la crescente difficoltà del Pci e dei movimenti democratici di incidere negli orientamenti della ricerca scientifica e nella formazione civile della Nazione. Il limite dell’azione di Berlinguer non stava nell’essersi recato davanti ai cancelli della Fiat, ma nel non essersi interrogato sul perché i tecnici non fossero anch’essi davanti a quei cancelli.
Non c’è da stupirsi, perciò, se nelle conclusioni alla VIII Conferenza operaia del Pci (Torino, 2-4 luglio 1982), nel respingere gli attacchi della Confindustria alla scala mobile, Berlinguer sottovaluti la radicalità delle trasformazioni capitalistiche del sistema produttivo e la capacità dei ceti conservatori di ridisegnare la morfologia sociale e di far accettare come «interessi generali» i loro «interessi particolari».


Oggi – egli sostiene in quell’occasione – si tende a cambiare i rapporti sociali, ad accrescere il peso politico della parte più conservatrice e reazionaria del padronato, il suo arbitrio, fino ad avere un governo pienamente allineato sulla sua strategia e al servizio dei suoi obiettivi di classe, un governo, per intenderci, alla Thatcher. Vogliono questo i Merloni e i Romiti. E sarebbe questa la classe dirigente di cui ha bisogno il paese? Può essere questo l’interesse, non dico della grande maggioranza degli italiani, ma della maggioranza delle stesse imprese? No, questa è miopia, politica ed economica. Questa è incapacità di esprimere interessi generali (ivi, p. 283).


Aggrapparsi alla forza del movimento operaio e riproporre la centralità del lavoro era necessario, ma non sufficiente. Perché, nella misura in cui la mutazione della morfologia sociale incideva sugli orientamenti culturali e sugli ideali del popolo e della stessa classe operaia, era l’intera Nazione che mutava il suo modo di sentire. Mutava il «senso comune». Prevaleva l’individualismo e la logica mercantile. Prevaleva tutto ciò contro cui Berlinguer (e con lui tutte le culture democratiche) aveva combattuto. Qui, forse, è il tratto più tragico della sua figura politica: l’aver immaginato un nuovo e più intenso modo di pensare la «solidarietà nazionale» (il vivere in una comunità solidale) e il dialogo tra culture diverse, ma l’essersi ritrovato a fronteggiare la cultura del narcisismo, dell’individualismo e della crescente conflittualità tra le nazioni. Il modo stesso in cui giunge a compimento la sua vita esprime tale tragicità. Come ha scritto Massimo D’Alema,


la battaglia di Berlinguer contro lo spirito del tempo, la fedeltà ai suoi ideali, ne hanno fatto una figura in grado di comunicare un messaggio di speranza, di coerenza, reso ancora più forte dal fatto che egli portò il suo impegno, la sua dedizione fino all’ultimo sacrificio. Il fatto che sia “morto in battaglia” lo rende eterno. E quella immagine di Berlinguer che barcolla sul palco, e tuttavia vuole finire il suo comizio, è un’immagine terribile ma anche straordinaria (D’Alema 2022, p. XXIII).


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