cosmopolis rivista di filosofia e politica
Cosmopolis menu cosmopolis rivista di filosofia e teoria politica

Aldo Moro: l’uomo e il progetto politico

Paolo Nepi
Articolo pubblicato nella sezione “Libertà e democrazia nella cultura politico-giuridica italiana”

1. Premessa

La figura politica di Aldo Moro occupa, nella politica italiana che va dalla fine della seconda guerra mondiale alla fine degli anni Settanta, un ruolo centrale, paragonabile a quelle di De Gasperi, Togliatti, Malagodi, Andreotti, Nenni, Berlinguer, La Malfa, Fanfani, per limitarsi ad alcuni nomi più noti alla pubblica opinione. La sua tragica morte, l’8 maggio 1978, segna la fine di un progetto politico, che tendeva a dare al sistema politico italiano i caratteri di una democrazia dell’alternanza. Negli anni Novanta il progetto fu ripreso con l’introduzione del sistema maggioritario. Ma la vicenda di Tangentopoli, avendo nel frattempo cambiato notevolmente i soggetti politici, vale a dire i partiti, non corrispondeva più al disegno che aveva in mente Aldo Moro.
Nelle intenzioni di Moro il progetto che doveva svolgersi in due tempi. Il primo caratterizzato dal “compromesso storico”, ovvero da una forma di progressivo inserimento del Partito comunista italiano nell’alveo delle democrazie occidentali. In un secondo momento si sarebbe aperto, anche per l’Italia, il percorso di un confronto politico connesso al necessario ricambio di classi politiche e di formule di governo. Fu questo progetto politico, per il riconoscimento che dava al Partito comunista, a suscitare molti sospetti interni ed esterni all’Italia, costituendo il motivo della sua violenta eliminazione ad opera delle Brigate Rosse. Le quali, secondo un’interpretazione che si fece strada immediatamente, rappresentarono solo il braccio armato da una mente esterna, non esclusa la partecipazione di attori internazionali.
Gli studiosi sono divisi circa l’esistenza, in Moro, di un vero e proprio pensiero politico, dotato, come per esempio si può dire di Luigi Sturzo, di una sua compiutezza e organicità. Proverbiali sono però alcune formule politiche da lui elaborate senza la pretesa di costituire una categoria della politica, quanto di indicare una direzione di marcia. Tra le più note vi è certamente l’espressione “convergenze parallele”. Questa espressione gli venne attribuita in occasione dello spostamento dell’asse politico che aveva retto i governi italiani fino al 1960. Si passò infatti in quel periodo dal centrismo al centrosinistra, con l’alleanza tra la Democrazia cristiana e il Partito socialista. Si tratta evidentemente di un ossimoro, che rivela una grande capacità di mediare tra contraddittori, e che se anche non fu coniata per la prima volta da Moro, finì per diventare un paradigma per indicare in generale la sua politica. In realtà una parte del mondo cattolico era piuttosto restia nei confronti del Partito socialista, che si era presentato, con il Partito comunista, alle elezioni del 1948 con la sigla del Fronte popolare, e con un programma politico con alcune forti accentuazioni laiciste. A questo scopo la formula intendeva affermare che si trattava comunque di due forze che, pur convergendo su alcuni punti di programma, mantenevano una loro rispettiva identità.
In ogni caso, anche se non sorretta da un pensiero organico e sistematico, l’azione politica di Moro è sempre guidata da un’idea alta della funzione sociale della politica, che deve essere in grado di orientare, con la virtù della prudenza, i processi storici, con i connessi cambiamenti, sia quelli di ordine culturale che quelli che innervano le dinamiche economiche e le trasformazioni sociali. Un esempio di ciò lo si può trovare nelle sue riflessioni sulla condizione giovanile, sulla scuola e l’Università, sulla “questione meridionale” come questione nazionale, sul ruolo della donna nella società del futuro... E soprattutto, dopo il ’68, sulla crisi irreversibile del partito popolare di massa, in seguito alla crisi delle ideologie politiche che avevano guidato la politica, sia in Italia che altrove, fino agli inizi degli anni Settanta.


2. La formazione

Come per molti altri esponenti della Democrazia Cristiana, la formazione culturale di Aldo Moro risente molto della sua provenienza dal mondo cattolico, in particolare dalla sua attiva partecipazione all’associazionismo cattolico. Fu presidente nazionale della FUCI (Federazione universitaria cattolica italiana) dal 1939 al 1942, anche per l’intervento dell’allora assistente Giovan Battista Montini, eletto Papa nel 1963 con il nome di Paolo VI. Era nota la loro amicizia. Molta risonanza ebbe, durante la prigionia di Moro nel covo dei brigatisti, il suo accorato appello agli “uomini delle Brigate Rosse”.
Conseguita la maturità classica al Liceo Archita di Taranto, si iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Bari. Al termine di un brillante percorso di studi, conseguì la laurea il 13 novembre 1938 con una tesi su La capacità giuridica penale, sotto la guida del professor Biagio Petrocelli. All’età di appena trentacinque anni era già professore ordinario di Diritto penale, prima all’Università di Bari e successivamente alla Sapienza di Roma.
Nella formazione di Aldo Moro, intesa nel suo insieme come formazione umana, culturale e morale, un’importanza fondamentale riveste però, come abbiamo detto, la sua partecipazione all’associazionismo cattolico. Da studente universitario partecipò attivamente ai circoli della FUCI, e dopo la laurea alle varie iniziative del Movimento Laureati di Azione Cattolica. Si trovò, come molti altri cattolici del tempo, a fare i conti con il fascismo, con la sua ideologia totalizzante, incompatibile con la libertà della coscienza, che aveva imparato a considerare un inalienabile diritto umano.
In questo percorso di formazione, che procedeva parallelo a quello scientifico, un ruolo fondamentale lo rivestì Giovanni Battista Montini, futuro Papa Paolo VI, che ebbe un’influenza negli ambienti della FUCI e dei Laureati cattolici. Pur senza arrivare a posizioni di aperta opposizione al regime fascista, nei vari circoli cattolici frequentati da Aldo Moro si respirava un clima culturale diverso, che si ispirava al personalismo di Jacques Maritain e Emmanuel Mounier. Soprattutto il concetto maritainiano di “umanesimo integrale” divenne per Moro una linea guida anche per la sua futura azione politica. Maritain divenne il punto di riferimento culturale di un tomismo, che rappresentava la cultura ufficiale della Chiesa anche in campo sociale e politico, in grado di fare i conti con la modernità, superando le chiusure di un certo tomismo antimoderno. Fondamentale, in questo quadro, l’idea che l’uomo è parte della comunità politica, ma non secondo tutto se stesso, avendo anche una vocazione che va oltre la storia.


3. Laicità della politica

Aldo Moro ebbe, come d’altronde molti altri politici democratico-cristiani, eredi del popolarismo di Luigi Sturzo, un forte impulso etico alla sua azione pubblica, nella consapevolezza tuttavia di dover evitare il cortocircuito tra fede e politica. “La fede unisce, la politica divide”. Questo principio sturziano gli fece da guida, e di conseguenza, attraverso le complesse vicende dell’esperienza politica, Moro maturò una sua concezione della laicità della politica, che potremmo chiamare “laicità temperata”. Una laicità che si fonda sul “date a Cesare quello che è di Cesare...”, ma che evita di cadere nel relativismo assoluto, a causa del suo ancoraggio ad una tavola di valori morali che vanno sempre salvaguardati.
Di questo dette prova all’indomani del Referendum per l’abolizione della legge su divorzio (1974), in cui la maggioranza degli italiani, tra cui molti cattolici e perfino alcuni preti, votarono per il”no”, e pertanto per il mantenimento della legge. Per una parte del mondo cattolico, soprattutto per un importante settore della gerarchia, fu una sorta di choc. Si prendeva atto che il processo di secolarizzazione aveva prodotto ormai conseguenze irreversibili sul costume e sulla cultura.
Alla riunione del Consiglio nazionale della DC tenutosi qualche mese dopo il Referendum, Moro, rispetto ad alcuni interventi in cui si esprimevano forti preoccupazioni sulla deriva laicista in cui stava precipitando l’Italia, applicò quel concetto di “laicità temperata” di cui abbiamo sopra parlato. Disse che occorreva accettare democraticamente il risultato del Referendum e trarne le debite conclusioni. Ovvero che tutti coloro che credono nel valore della famiglia, sia dal punto di vista religioso che sociale, devono impegnarsi a sostenerla sul piano della formazione di una coscienza matura e del suo riconoscimento come insostituibile cellula a presidio del bene comune. I cattolici, ebbe a dire con un coraggio che non piacque a tutti, sono chiamati più a testimoniare la loro fede nella società che a cercare di imporla attraverso le leggi.


4. L’impegno politico

La “vocazione” politica di Moro, la cui ispirazione ideale rimanda alla militanza associativa di cui si è detto, si consolida nel convulso clima che si viene a creare alla conclusione del secondo conflitto mondiale. Gli anni del fascismo, privi di ogni espressione di pluralismo, avevano distrutto tutte le forme della partecipazione democratica presenti nello Stato italiano dopo il raggiungimento dell’unità. Si trattava dunque di ricostruire i partiti politici, a partire dalle tradizioni ideali e ideologiche presenti nella società italiana.
I cattolici si trovarono ad affrontare questo momento avendo alle spalle l’esperienza del Partito popolare di Luigi Sturzo. Guidati dalla lucida e responsabile intelligenza politica di De Gasperi, costruirono un partito, la Democrazia Cristiana, che occupò a lungo il centro dello schieramento politico, confinando alla sua destra i nostalgici del regime fascista, e alla sinistra le forze socialcomuniste.
Aldo Moro si presentò come candidato, nelle liste della DC, alle elezioni per l’Assemblea costituente, che si tennero il 2 giugno 1946 assieme al referendum per la scelta tra monarchia e repubblica. Ottenne 27801 voti (cfr. Formigoni 2016, p. 119).
Partecipò ai lavori dell’Assemblea a tutti i livelli. Fece parte della “Commissione dei 75”, chiamata ad elaborare il testo che poi sarebbe stato discusso e votato in Parlamento. Ebbe modo, in questa circostanza, di conoscere e collaborare con personalità quali La Pira e Dossetti, rispetto ai quali Moro aveva una visione politica che potremmo definire più laica, ma con i quali condivideva la necessità di dare al nascente Stato un’impalcatura istituzionale fondata sulla solidità del diritto e non sulla forza del potere.
In particolare partecipò ai lavori della prima Sottocommissione chiamata a dibattere su “Diritti e Doveri dei cittadini”. Prese parte anche ai lavori del “Comitato dei 18”, che elaborò la stesura finale del testo costituzionale da presentare in aula per la discussione e l’approvazione definitiva. In questa occasione ebbe modo di confrontarsi con alcuni degli uomini politici più autorevoli del tempo. Fu da tutti apprezzato per la solidità dei suoi interventi e per la sua attitudine al dialogo e alla mediazione (cfr. Campanini 1992, p. 41). Lo stesso Palmiro Togliatti, molto critico nei confronti della politica democristiana, manifestò sempre grande rispetto e stima nei suoi confronti.


5. Moro alla Costituente

Poco più che trentenne, Moro partecipò dunque ai lavori dell’Assemblea costituente, dimostrando una maturità di pensiero e una capacità di dialogo e mediazione che lo fecero diventare un protagonista e un interlocutore fondamentale di tutte le componenti culturali e politiche (cfr. Pisicchio 2012). In quest’occasione ritroviamo i punti fondamentali del suo percorso formativo, sia per quanto riguarda la sua competenza sul diritto penale, sia per quanto riguarda la sua formazione cristiana vissuta attraverso la partecipazione all’associazionismo cattolico da vero protagonista.
L'Assemblea Costituente, per un efficiente svolgimento del lavoro, deliberò la nomina di una Commissione per la Costituzione, nota come “Commissione dei 75”. Alla Commissione fu conferito l'incarico di redigere una prima bozza di un progetto di Costituzione, che sarebbe stato successivamente portato in Assemblea Plenaria. A sua volta la “Commissione dei 75”, per la più efficiente organizzazione dei suoi compiti, pensò di suddividere la materia costituzionale in tre argomenti da affidare a tre Sottocommissioni. La prima Sottocommissione, della quale fece parte Moro, si occupò dei “Diritti e Doveri dei cittadini”. Dalla lettura degli atti il suo contributo risulta determinante, sia per il numero degli interventi che per il loro peso.
I lavori della prima Sottocommissione iniziarono con la discussione intorno alla finalità e alla forma che avrebbe dovuto caratterizzare la Costituzione repubblicana. Moro prese attivamente parte a tale discussione, sostenendo che, dopo l’esperienza del fascismo, caratterizzata da un invadente statalismo nemico delle libertà personali, si doveva iniziare proprio dal tema dei diritti inalienabili degli uomini e dei cittadini. «La solenne dichiarazione dei diritti - scrisse sul giornale del suo partito - definiti come inalienabili e sacri, risponde in questa situazione ad un’esigenza di ordine, potremmo dire, storico e ad una funzione pedagogica che rientra nelle finalità di una Costituzione, la quale chiude un agitato periodo di storia e ne apre un altro (...)» (Formigoni 2016, p. 124).
Sulla formulazione dell’art. 1, che apre il testo definendo i tratti essenziali della nascente repubblica, rispetto alla proposta di Togliatti, che proponeva di stabilirne il fondamento sulla classe lavoratrice, Moro, assieme ad altri costituzionalisti, contribuì alla formula attuale, meno caratterizzata ideologicamente: “L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro”.
Anche sull’artico 2, dedicato alla definizione dei diritti fondamentali dell’uomo, si registrano vari suoi interventi, sia in Sottomissione che in seduta plenaria, che risultarono determinanti ai fini della sua attuale formulazione. La Costituzione afferma che alcuni essenziali diritti sono inviolabili, nel senso che appartengono all’essere umano per natura e non per concessione. In questo articolo si avverte la presenza della cultura personalistica e della dottrina sociale cristiana, essenziali per comprendere la visione politica di Moro. In questa prospettiva l’uomo non è concepito come una monade individuale, ma come membro di una comunità organizzata nel pluralismo delle sue articolazioni. Si tratta di una posizione che intende evitare due pericolose ideologie, quella individualistico borghese, fondata sul primato del singolo, e quella totalitaria, che mette la persona a servizio dello Stato.
Rilevante l’apporto di Moro anche alla formulazione dell’art. 3. Si ritrovano a questo riguardo alcune linee della sua formazione culturale su alcuni filoni a cui abbiamo accennato sopra: la dottrina sociale della Chiesa, san Tommaso, Maritain e il personalismo. L’art. 3 disegna infatti una società in cui tutti i cittadini sono portatori degli stessi diritti, che dunque appartengono alla persona umana e che le istituzioni riconoscono e garantiscono, senza quelle distinzioni di razza, di sesso e religione che impediscono la realizzazione di una pacifica convivenza. Si afferma però, nel secondo comma, che la parità dei diritti, per non rimanere un’astratta dichiarazione di principio, richiede che vengano rimossi gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono di fatto il loro effettivo riconoscimento.
Un intenso dibattito si svolse, nella Sottocommisione, in merito al ruolo dello Stato nell’economia. Si voleva certamente abbandonare l’interventismo fascista, che in forma diversa ricompariva in alcune posizioni della sinistra, senza tuttavia finire in una forma di liberismo selvaggio. A questo riguardo risultò determinante la sua capacità di mediazione nella definizione dell’art. 41:


l’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali.


Assieme a Giuseppe Dossetti, Moro intese con tale formula prospettare un equilibrato rapporto tra pubblico e privato nella delicata gestione della vita economica, avendo come guida due concetti fondamentali: la dignità della persona umana, che si esprime anche attraverso la sua libertà di iniziativa economica, e il bene comune come ideale regolativo di qualsiasi attività. Si potrebbe parlare, al riguardo, di una sorta di “terza via” tra l’interventismo di sinistra e il liberismo di cui si facevano interpreti i costituzionalisti di area liberale.
Sia nella Sottocommmissione, ma soprattutto in Assemblea plenaria, Moro intervenne ripetutamente in merito alla questione religiosa. In Italia, anche per la sua storia, e soprattutto per i sentimenti religiosi della maggior parte del popolo italiano, si trattava evidentemente, a quel tempo, dei rapporti tra lo Stato e la chiesa cattolica. Contrariamente ad alcuni costituenti laici, Moro sostenne la necessità di affermare l’originarietà dell’ordinamento ecclesiastico, che pertanto si deve riconoscere indipendente e sovrano nelle materie di carattere religioso. Questo ai fini di garantire l’autonomia della Chiesa rispetto a possibili invadenze dello Stato. Difese anche, rispetto ad alcuni che non volevano che si introducessero in Costituzione, in quanto troppo legati all’esperienza fascista, il riferimento ai Patti Lateranensi. Sostenne infatti che i Patti non rappresentavano contenuti fascisti, e che costituivano in ogni caso una tappa importante nella pacificazione tra Stato e Chiesa, dopo le turbolente vicende risorgimentali. Sostenne inoltre che la via concordataria era lo strumento più adeguato per regolare materie di interesse comune tra Stato e Chiesa, quali la famiglia e l’educazione.
In molti altri articoli della Costituzione si può riscontrare il contributo determinante di Aldo Moro. Possiamo al riguardo citare almeno l’articolo 21, dedicato alla libertà di manifestare il proprio pensiero attraverso i mezzi di comunicazione. Anche in questo caso egli fece valere tutta la sua proverbiale capacità di mediazione. La libertà di espressione, riconosciuta come diritto inerente alla dignità personale, venne tuttavia condizionata alla sua conformità alla regola morale del “buon costume”. Si intendeva in questo modo mettere un freno alla stampa pornografica, per tutelare soprattutto i minorenni.


6. Conclusione

La tragica morte di Aldo Moro rappresenta, nell’Italia della fine del secolo scorso, l’emblema della crisi profonda della politica e della democrazia. Durante i cinquantaquattro giorni della sua prigionia, la politica italiana manifestò tutta la sua fragilità, dalla quale non è riuscita a riprendersi nei decenni successivi, contrassegnati da un retorico richiamo ad una Seconda Repubblica che avrebbe inverato la prima, e che invece sembra averne continuato i difetti, accresciuti da una classe politica che non è stata capace di esprimere figure all’altezza dei padri costituenti.
Se dunque si può parlare di un’eredità di Moro per la politica italiana, questa la si può trovare ancora nei suoi contributi alla redazione del testo costituzionale, nella sua attività politica successiva e nel suo alto senso delle istituzioni, manifestato nei molti incarichi che ha ricoperto. Basterà ricordare che Aldo Moro è stato Presidente del Consiglio dei Ministri per un periodo complessivo maggiore di cinque anni. Una sorta di primato che condivide con Alcide De Gasperi, Giulio Andreotti e Silvio Berlusconi.


Bibliografia

Bobbio N. (1982), Diritto e Stato, negli scritti giovanili, in Cultura e politica nell’esperienza di Aldo Moro, a cura di P. Scaramozzino, Giuffré, Milano.
Campanini G. (1992), Aldo Moro. Cultura e impegno politico, Studium, Roma.
Formigoni G. (2016), Aldo Moro. Lo statista e il suo dramma, il Mulino, Bologna.
Guerzoni C. (2008), Aldo Moro, Sellerio, Palermo.
Loiodice A., Pisicchio P. (1984, a cura di), Moro costituente. Principi e libertà, Edizioni scientifiche italiane, Napoli.
Moro R. (2008), Aldo Moro negli anni della FUCI, Studium, Roma.
Pisicchio P. (2012), Pluralismo e personalismo nella Costituzione italiana. Il contributo di Aldo Moro, Cacucci, Bari.
Rossini G. (1982), Aldo Moro. Scritti e discorsi (1940-1947), Cinque Lune, Roma.
Scoppola P. (1980), Gli anni della Costituente fra politica e storia, il Mulino, Bologna.
F. Traniello F. (1990), Partito e società nel pensiero di Aldo Moro, in Id., Da Gioberti a Moro. Percorsi di una cultura politica, Franco Angeli, Milano.



E-mail:



torna su