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Giuseppe Dossetti: un percorso biografico tra democrazia e libertà

Paolo Trionfini
Articolo pubblicato nella sezione “Libertà e democrazia nella cultura politico-giuridica italiana”

Pur nel costante desiderio di completa e unanime pacificazione nazionale, che ha sempre ispirato tutta la mia vita e che tuttora fermamente mi ispira, tuttavia non posso non rilevare che attualmente i propositi delle destre (destre palesi e occulte) non concernono soltanto il programma del futuro governo, ma mirerebbero ad una modificazione frettolosa e inconsulta del patto fondamentale del nostro popolo, nei suoi presupposti supremi in nessun modo modificabili. Tali presupposti non sono solo civilmente vitali ma anche, a mio avviso, spiritualmente inderogabili per un cristiano: per chi, come me – per pluridecennale scelta di vita e per età molto avanzata – si sente sempre più al di fuori di ogni parte e distaccato da ogni sentimento mondano e fisso alla Realtà ultraterrena (Dossetti 1995b, p. 121)


Con queste parole, don Giuseppe Dossetti scriveva a Walter Vitali, sindaco di Bologna, che lo aveva invitato per le celebrazioni dell’anniversario della Liberazione, ma l’aggravamento delle condizioni di salute lo portarono al ricovero ospedaliero, che gli impedì, per l’appunto, di rispondere al «cortese invito» del primo cittadino di Palazzo d’Accursio. Anche in quell’occasione il monaco non scrisse parole banali per difendere* la Costituzione della Repubblica italiana, che egli stesso aveva contribuito a redigere. Non si trattava evidentemente di una presa di posizione personale, né tanto meno di un asserragliamento di un padre fondatore del nuovo Stato nel “fortino” sotto assedio, ma della volontà lucida di stringere un rinnovato «patto» con il popolo italiano, come quello scritto cinquant’anni prima, per dare ancora futuro alla Costituzione, che affondava le proprie radici in una democrazia piena.
È noto che questa mancata uscita pubblica lo portò a fondare i comitati in difesa della Costituzione, che furono lanciati, con numerose adesioni, in una battaglia per evitare la revisione della legge fondamentale dello Stato italiano, e che lo impegnarono fino alla morte.
Pochi giorni dopo, il monaco, invitato a commemorare Giuseppe Lazzati nel decimo anniversario della morte, come spesso accade in simili circostanze, nelle quali si finisce per parlare anche di se stessi, dopo aver sviluppato un quadro preoccupato della situazione italiana, proiettata nella «notte» – è l’immagine biblica del profeta Isaia dalla quale parte – dell’occidente, non mancò di chiamare in causa anche «lo sviamento e la perdita di senso dei cattolici impegnati in politica, che non possono adempiere il loro compito proprio di riordinare le realtà temporali in modo conforme all’evangelo, per la mancanza di vero spirito di disinteresse e soprattutto di una cultura modernamente adeguata; e quindi una attribuzione di plusvalore a una presenza per se stessa, anziché a una vera ed efficace opera di mediazione».
In realtà, l’abbandono del silenzio, che si era imposto con la vocazione religiosa, era già avvenuto nel 1986, quando gli fu conferito l’Archiginnasio d’Oro da parte del comune di Bologna. Nell’occasione pronunciò un discorso di carattere sicuramente autobiografico ma non certamente autocentrato, che aveva come filo conduttore – a rileggerlo oggi – due assi basilari che avevano pervaso la sua vita: democrazia e libertà. È proprio attorno a queste categorie che proveremo a ripercorrerne la parabola biografica, che non solo simbolicamente, nelle date che la racchiudono, attraversano tutto il «secolo breve», per riprendere la concettualizzazione periodizzante di Eric Hobsbawm.
Dossetti nacque solo per caso a Genova, per motivi di lavoro del padre, il 13 febbraio 1913 da Luigi, il quale era farmacista e da Ines Ligabue, la quale diede ai figli una forte impronta religiosa. Dopo il trasferimento nello stesso anno a Cavriago, dove il padre era riuscito ad acquistare una farmacia, la famiglia si allargò con la nascita di Ermanno nel 1915. Dossetti frequentò il Liceo classico a Reggio Emilia, conseguendo brillantemente la maturità nel 1930 e iscrivendosi alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Bologna. Nel contempo, partecipò al «caravanserraglio», come è stato definito, di San Rocco nella città del Tricolore, diretto dall’assistente diocesano della Gioventù cattolica maschile don Dino Torreggiani, il quale reinterpretò la tradizionale, ma rinnovata, esperienza dell’Azione cattolica in un oratorio aperto e attento alle fasce sociali più povere, chiedendo ai giovani che lo frequentavano una profonda ascesi e un impegno sociale pronunciato, in un mix originale nel quale il futuro costituente si immedesimò profondamente. Se forse è enfatizzato - come ricordò nel discorso dell’Archiginnasio -l’«irriducibile antifascismo» che lo avrebbe connotato, la proposta lanciata dal prete reggiano era alternativa alle suadenti sirene del regime. Un altro incontro che ne avrebbe segnato la vita fu l’accostamento alla Bibbia, attraverso mons. Leone Tondelli, studioso di vaglia della Scrittura, in un’epoca nella quale il testo sacro era sconsigliato ai laici, tanto più se giovani. Dopo la laurea con lode che avrebbe voluto conseguire con una tesi seguita da Arturo Carlo Jemolo, ma che dovette “convertire”, a causa del suo trasferimento, con Cesare Magni su La violenza nel matrimonio canonico. Svolgimento storico e disciplina vigente, il giovane reggiano perfezionò gli studi all’Università Cattolica di Milano, nella quale divenne assistente volontario della cattedra di Diritto canonico retta da Vincenzo Del Giudice. Fu comunque nell’ateneo fondato da padre Agostino Gemelli che entrò nel sodalizio dei Missionari della regalità di Nostro Signore Gesù Cristo, i cui membri laici emettevano i voti di speciale consacrazione di povertà, castità e obbedienza. Quando l’esperienza andò in crisi alla fine degli anni ‘30, tuttavia, egli seguì Lazzati, il quale avrebbe fondato quello che sarebbe diventato nel 1952 l’Istituto secolare di diritto diocesano dei Milites Christi Regis, per divergenze sulla stessa concezione dell’apostolato, e che sarebbe stato riconosciuto nel 1963 di diritto pontificio.
Fu comunque, durante la II Guerra mondiale, che partecipò agli incontri riservati nell’abitazione di Umberto Padovani, docente di Filosofia all’ateneo del sacro cuore, con un gruppo di giovani professori, tra i quali, oltre a Lazzati, Antonio Amorth, Gustavo Bontadini, Amintore Fanfani, Sofia Vanni Rovighi e saltuariamente Giorgio La Pira, sulle prospettive che si sarebbero aperte per il mondo cattolico al termine della prova bellica. Il confronto più rilevante fu sull’interpretazione del radiomessaggio natalizio del 1942 di Pio XII, nel quale cominciò a formarsi il gruppo dei «professorini», che avrebbe avuto un un ruolo rilevante dopo la guerra.
Ottenuta la libera docenza grazie anche a tre studi, uno dei quali uscito a firma del rettore francescano, che fu presentato a papa Pacelli e che fu poi alla base della costituzione apostolica Provida Mater Ecclesia per il riconoscimento degli istituti secolari, prima della promulgazione del motu proprio Primo feliciter, con il quale il papa ribadiva più dettagliatamente il testo precedente, nel 1942 fu incaricato del corso di Diritto ecclesiastico all’Università di Modena, dove percorse la carriera accademica fino a diventare professore ordinario nello stesso ateneo nel 1947. I cruciali anni ’40 divennero decisivi anche per le sue scelte, che si affinarono nell’immedesimazione con la storia. Nel 1943, dopo aver tenuto alcune lezioni a un gruppo di studenti universitari cattolici di Modena che si apprestavano a compiere la scelta della Resistenza, Dossetti entrò insieme al fratello dapprima nel Comitato di liberazione nazionale di Cavriago, poi assunse la presidenza dell’organismo provinciale, infine salì in montagna per coordinare le formazioni militari, seppur mantenendosi fedele alla scelta di non usare le armi. Nel corso della lotta partigiana, fu un imprescindibile punto di riferimento per qualificare in senso politico la Resistenza cattolica, soprattutto per le titubanze non solo culturali – don Domenico Orlandini «Carlo» era capo delle Fiamme Verdi reggiane – del clero, per il quale mise a punto una circolare, in vista della «ricostruzione morale prima ancora che economica e politica della Nazione», nell’ormai non lontana fine del conflitto. Il documento, firmato «Benigno», uno dei nomi di copertura assunti durante la guerra di liberazione, precisava una limpida distinzione di derivazione maritainiana tra «le due attività, quella politica esclusiva del Partito e quella spirituale propria della Gerarchia e delle organizzazioni operanti alle sue dirette dipendenze (attività che sono e che debbono assolutamente restare distinte e svolte da soggetti diversi)», ma chiedeva nello stesso tempo «una certa coordinazione e una certa concordanza di scopi». Non va poi trascurato il fatto che il presidente del Comitato di liberazione di Reggio Emilia già da questa stagione, chiedendo «fiducia» ai parroci, avesse una coscienza certo non comune «di fronte ad una situazione universale e locale, per tanti aspetti innegabilmente tragica» (Dossetti 1995a, p. 19).
Dopo la liberazione di Reggio Emilia, Dossetti fu confermato alla presidenza del Cln provinciale e, proprio per questo incarico, fu nominato alla Consulta, nella quale non riuscì ad apportare un valido contributo ma si fece le ossa per i futuri impegni politici, che iniziarono, invero, poco dopo con l’elezione nel Consiglio nazionale della Democrazia cristiana, di cui divenne subito vice-segretario. Trasferitosi a Roma, l’esponente reggiano si batté a favore della scelta repubblicana, contestando l’agnosticismo sul quale Alcide De Gasperi voleva mantenere il partito, non per motivi personali ma per intercettare il consenso anche dell’elettorato monarchico. Il 2 giugno 1946 fu eletto all’Assemblea costituente, nella quale offrì un apporto fondamentale, insieme ai «professorini», nella commissione dei 75 e nella prima sottocommissione sui diritti e i doveri, dove era presente «il meglio» della cultura giuridica italiana e i deputati più rilevanti dei partiti. A lui si debbono, tra le altre risultanze, nelle «convergenze e intese che «travalicano» gli «schieramenti» il contributo per un più netto impianto personalistico nei diritti di cittadinanza, i limiti del potere dello Stato, il compromesso sul fondamento «sul lavoro» della Repubblica, la preminenza dei partiti nell’attività della politica e soprattutto la mediazione al rialzo, rispetto alle pressioni del Vaticano, per l’inserimento del Concordato del 1929 in quello che sarebbe divenuto, nel testo finale, l’articolo 7 della Costituzione. A questo proposito, il deputato reggiano, nel «riconoscimento dell’originarietà dell’ordinamento giuridico della Chiesa», secondo la formulazione alla quale si era approdati dopo il rilancio di Togliatti, individuò - nell’intervento capitale del 21 marzo 1947 in assemblea plenari - uno spazio percorribile per riuscire a chiudere sul punto, fuoriuscendo dal «dilemma laicismo o confessionalismo». Nella chiamata a raccolta per «infondere il meglio di noi, la pienezza integrale della nostra coscienza», Dossetti, poi, indicava anche il traguardo al quale tendere dal «nostro sforzo», perché - non a caso richiamò un episodio vissuto della Resistenza che, per quanto limitato, nei valori che presupponeva indicava un collegamento più ampio - risultasse «una Costituzione che dia veramente un volto nuovo al nostro Stato, che assicuri a tutti gli italiani una democrazia effettiva, integrale, non solo apparente e formale, ma veramente sostanziale, una democrazia finalmente umana» (Dossetti 1994a, p. 297). Anche se non riuscì appieno a realizzare il disegno, il giovane professore universitario non solo riuscì ad ottenere un risultato non disprezzabile, inquadrando le relazioni della Chiesa con gli Stati sul piano dell’ordinamento internazionale, ma fu tra i maggiori artefici del «compromesso» - nel senso etimologico - costituzionale tra le culture politiche presenti nell’assise. Del resto, il «professorino» credeva nell’unità profonda delle grandi forze popolari, indipendentemente dal ruolo occupato nelle contingenze politiche, che si riallacciava all’esperienza della Resistenza, la quale non poteva essere un evento occasionale, ma era l’atto fondativo del nuovo Stato democratico.
Il nesso tra guerra di liberazione e Costituzione fu sottolineato anche successivamente dall’allora monaco, rievocando il fondamento storico della Carta, che si riallacciava, per tutti i deputati, al vissuto del conflitto mondiale:


Anche il più sprovveduto o il più ideologizzato dei Costituenti – disse il 16 settembre 1994, concludendo il I incontro nazionale dei comitati – non poteva non sentire alle sue spalle l’evento globale della guerra testé conclusa. Non poteva, anche se lo avesse cercato di proposito in ogni modo, dimenticare le decine di milioni di morti, i mutamenti radicali della mappa del mondo, la trasformazione quasi totale dei costumi di vita, il tramonto delle grandi culture europee, l’affermarsi del marxismo in varie regioni del mondo, i fermenti reali di novità in campo religioso, la necessità impellente della ricostruzione economica e sociale all’interno e tra le nazioni, l’urgere di una nuova solidarietà e l’aspirazione al bando della guerra (Dossetti 1994b, p. 72).


Nei mesi passati a Roma, il deputato non dimenticò la circoscrizione che lo aveva eletto, continuando a impegnarsi alla vita del partito anche a livello locale. Per quanto censurasse fermamente le uccisioni sommarie - nel novembre del 1947 scrisse l’articolo non privo di sarcasmo Il traditore sono io - del dopoguerra, che proseguirono comunque fino all’estate del 1946, chiedeva di non trincerarsi dietro all’anticomunismo di maniera da parte del mondo cattolico, ma di svolgere a livello politico una funzione positiva, nella logica della collaborazione, che in ogni caso non doveva fare perno sui Comitati di liberazione nazionale.
Nell’indefesso lavoro svolto all’Assemblea costituente, Dossetti cementò le relazioni con La Pira, Lazzati e Fanfani, che vivevano in quella che scherzosamente era stata ribattezzata la “comunità del porcellino”, allargandole anche ad altri deputati come Aldo Moro, che lo spinsero a fondare «Civitas humana», un’associazione che, ricollegandosi al calco degli istituti secolari, senza, tuttavia, obbligare ai voti, aveva di mira la «formazione della classe dirigente cattolica», per riprendere il titolo di un’imprescindibile ricerca di Renato Moro, applicandola a un passaggio differente.
L’intuizione lo indusse poi a formare una corrente politica all’interno del partito, orientata a sinistra, con la quale condusse una battaglia che inevitabilmente fu in contrasto dialettico con la maggioranza degasperiana, anche per il lancio del quindicinale «Cronache sociali», che divenne la cassa di risonanza del gruppo, ma anche uno spazio aperto per un dialogo a distanza con esponenti di altri filoni culturali.
Sollecitato direttamente dalla Segreteria di Stato della Santa Sede a candidarsi per lo scudo crociato, nonostante le sue intenzioni di non ripresentarsi, fu eletto nel primo parlamento repubblicano che vide la Dc ottenere un successo clamoroso. Dopo il responso delle urne del voto del 18 aprile 1948, che egli lesse non in termini trionfalistici, come avvenne in larga parte nel mondo cattolico, ma come - non senza significato progettò un «quaderno» speciale di «Cronache sociali», che tuttavia non uscì per «pressioni indicibili» degli ambienti ecclesiastici - «la speranza germinale di una nuova vita democratica», Dossetti accentuò le critiche contro la gestione del partito ma anche contro le scelte governative, in particolare sulla linea economica portata avanti da Giuseppe Pella, che, per quanto si ricollegasse agli indirizzi liberisti di Luigi Einaudi, ne offriva una versione più rigida, e sull’adesione al Patto Atlantico, che lo vide prima prendere le distanze e poi in aula votare a favore.
Di fronte a questo dilemma, Dossetti, dopo il confronto interno al partito, volle scrivere direttamente a De Gasperi, dichiarandogli la stima personale, che, tuttavia, non precludeva a uno scambio franco:


Devi credermi se ti dico che corrisponderebbe molto di più ai miei desideri e al mio istinto rinunziare a qualche piccola, e per lo più vana protesta, pormi in una linea di piena e cordiale conformità. Ma, temo, sarebbe la via dell’istinto e non quella del dovere. Soprattutto se ciò fosse ottenuto a un prezzo che non mi pare di poter pagare: quello della rinunzia ad una misura e a un senso di responsabilità, che su di un piano di tanto più modesto del tuo tuttavia hanno una loro precisa consistenza per me in quanto deputato e soprattutto in quanto membro del supremo organo del Partito. Perciò l’altra sera mentre come uomo ero commosso e quasi travolto dalle tue parole, come consigliere nazionale del Partito mi sembra di non poter proprio consentire in tutto: non tanto sul merito della questione discussa quanto sul metodo della sua impostazione e sulla definizione delle rispettive responsabilità (Dossetti 1995a, pp. 226-227).


Al Congresso della Dc di Venezia nel 1949, la sfida al presidente del Consiglio si fece aperta, tanto che lo statista trentino chiese all’esponente della «seconda generazione» di mettersi «alla stanga» per esercitare la funzione di «pungolo». Al Consiglio nazionale dell’aprile 1950, il leader reggiano tornò a rivestire l’incarico di vice-segretario del partito, stimolando effettivamente il governo - è indicativo l’articolo di La Pira, L’attesa della povera gente, pubblicato su «Cronache sociali», per comprendere l’afflato della corrente - a compiere una svolta nella politica economica e sociale. Il «sussulto riformatore», infatti, fu assunto dall’esecutivo, nel periodo più fecondo dell’età del centrismo. In seguito a una ripresa ancora più accesa del confronto interno nell’estate del 1951, Dossetti convocò per due incontri successivi a Rossena gli esponenti della corrente, alla fine dei quali comunicò loro la «mia sola manifestazione di volontà di ritirarmi del tutto dalla vita politica» (Galavotti 2011, p. 563). In seguito a questa scelta, si dimise dal Consiglio nazionale e dalla Direzione del partito, a cui seguì la scelta di lasciare il Parlamento nell’estate del 1952.
In autunno, a Bologna, dove poco prima si era insediato come arcivescovo Giacomo Lercaro, diede vita a un centro di documentazione, raccogliendo e coinvolgendo giovani ricercatori, i quali con il supporto di importanti studiosi si dedicarono allo studio dei concili nella storia della Chiesa. Nel 1956, su sollecitazione del cardinale di Bologna, si candidò per le elezioni amministrative, contendendo la città “rossa” al sindaco comunista uscente Giuseppe Dozza. La sfida fu impostata sul Libro bianco su Bologna, un’analisi attenta dello sviluppo del capoluogo, per impostare una proposta riformistica più convinta, rispetto a quella seguita dal Pci, che, a suo dire, aveva seguito un approccio moderato. La sconfitta lo fece ancora più convinto che i credenti, al di là del voto politico, erano una «minoranza», in un momento storico che vedeva la fine della cristianità. Come ebbe a dire nella seduta del Consiglio comunale del 30 luglio 1956, il capogruppo della Dc, candidatosi, comunque, per Palazzo d’Accursio come indipendente, puntualizzò l’atteggiamento che lo avrebbe contraddistinto, che non rimandava ad alcuna forma di integrismo: «Quindi proprio assolutamente io non voglio condizionare nessuno né imporre niente a nessuno. La nostra presenza qui, in fondo, non è principalmente una presenza politica, è essenzialmente una presenza spirituale e quindi deve essere sempre contenuta entro i limiti anzidetti di una doverosa umiltà» (Dossetti 2004, p. 35). Alla fine del 1956, Dossetti, il quale già dall’anno precedente aveva fondato la comunità monastica della Piccola famiglia dell’Annunziata, abbandonò il ruolo di docente universitario, che aveva comunque sempre svolto. Fu il preludio al secondo e definitivo “ritiro” dall’attività politica, per quanto l’esperienza bolognese, come egli l’aveva intesa, fosse stata di carattere amministrativo.
In coincidenza quasi simbolica, poco dopo la sua ordinazione sacerdotale, Giovanni XXIII annunciò l’intenzione di indire un Concilio ecumenico, che non sarebbe stato la chiusura del Vaticano I, forzatamente interrotto nel 1870, ma una nuova assise. Dossetti, che animò diversi incontri con i principali teologi europei per preparare l’evento, orientò anche i ricercatori del Centro di documentazione, che nel 1961 si trasformò nell’Istituto per le scienze religiose, a lavorare alla raccolta sistematica dei decreti dei concili della storia della Chiesa, producendo un corposo volume, che fu donato a papa Roncalli alla vigilia dell’apertura del Vaticano II.
Con questo bagaglio, fu chiamato a maggior ragione dal cardinal Lercaro come perito personale, incarico che gli consentì di partecipare dall’esterno all’assise. Dopo l’avvento alla cattedra di Pietro di Paolo VI, che decise di continuare il Concilio, gli fu chiesto di preparare un regolamento dei lavori, che fu presentato al papa per l’approvazione. L’esperienza della macchina assembleare maturata alla Costituente portò Dossetti a formulare la proposta di una “cabina di regia” costituita da quattro moderatori, tra i quali Lercaro, con segretario lo stesso monaco bolognese, che fu attivata da papa Montini a partire dalla seconda sessione e che fu il grimaldello per sbloccare i lavori, che erano stati fino ad allora incerti e contrastanti. L’apporto di quella che fu definita l’«officina bolognese» si fece ancora più incisivo per l’approvazione del corpus di costituzioni, decreti e dichiarazioni del Vaticano II, ad opera di una maggioranza che si andò sempre più irrobustendosi. Nonostante il protagonismo dietro le quinte, Dossetti, anche per l’accelerazione per arrivare a chiudere l’assise conciliare secondo il volere di Paolo VI, non fu pienamente soddisfatto dei risultati.
Rientrato a Bologna alla chiusura del Vaticano II, Dossetti fu nominato provicario della diocesi petroniana nel 1967, con l’intenzione di indicarlo come suo successore da parte di Lercaro, il quale lo mise alla guida del coordinamento dei dieci gruppi di studio, promossi per la riforma della Chiesa locale, in un’«interpretazione accrescitiva» del Concilio. Il 6 gennaio 1968 l’arcivescovo di Bologna, in occasione della prima giornata della pace istituita da Paolo VI, tenne un discorso di dura condanna dei bombardamenti americani in Vietnam del Nord, che fu vista malamente in Vaticano, impegnato in una difficile mediazione per far cessare il conflitto nel sud-est asiatico. L’uscita indusse la Santa Sede alla “rimozione” dell’arcivescovo e conseguentemente Dossetti lasciò gli incarichi affidatigli, per dedicarsi totalmente alla vita monastica. Nel 1972 il religioso si stabilì a Gerico, nei territori palestinesi occupati, insieme ad alcuni fratelli della comunità. Nel «nascondimento», tuttavia, non rinunciò a leggere la storia, soprattutto in questa tormentata regione, arrivando a pensare che Israele esercitasse una «funzione catalizzatrice di ogni contrasto fra cristiani e musulmani» (Giuseppe Dossetti e il Medio Oriente, «Egeria», 6 (2017), 11, p. 44), che il radicalismo islamico si inasprisse e che la presenza cristiana nella Terra Santa fosse a rischio.
Nel febbraio del 1986, gli fu conferito l’Archiginnasio d’oro da parte del comune di Bologna e nel discorso che pronunciò nell’occasione riannodò i fili del suo percorso biografico, che poteva rileggere con maggiore distacco, ma non senza partecipazione. Per questo atteggiamento, che lo contraddistinse sempre, nel 1994, dopo la vittoria di Silvio Berlusconi alle elezioni seguite al collasso della cosiddetta “prima Repubblica”, il monaco riprese a intervenire anche su questioni politiche, vedendo le minacce di una revisione della Costituzione che gli appariva, come già ricordato nel prendere le mosse in questo contributo, pericolosa. La promozione sull’intero territorio nazionale di numerose iniziative in questo senso da parte dei circoli lo impegnò instancabilmente fino alla morte, che avvenne il 15 dicembre 1996 a Monteveglio, dove già si era ritirato la prima volta nel 1969, nei luoghi che nel 1944 erano stati teatro dell’eccidio nazista, tra l’altro ricostruiti nel lungo periodo e nell’evento in un denso saggio introduttivo al volume del sacerdote bolognese don Luciano Gherardi, Le querce di Monte Sole.


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