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Giuseppe Lazzati: una politica per la «città dell’uomo»

Luciano Caimi
Articolo pubblicato nella sezione “Libertà e democrazia nella cultura politico-giuridica italiana”

Politico «suo malgrado»

L’accostamento di Giuseppe Lazzati (Milano, 22 giugno 1909 - 18 maggio 1986) alla politica è avvenuto per gradi e sulla spinta di eventi eccezionali che, «suo malgrado», lo indussero a cimentarsi in quell’ambito. Da giovane, infatti, egli aveva maturato idee precise anche sul proprio impegno professionale, sentendosi orientato verso il mondo degli studi, della scuola e dell’educazione. La laurea in Letteratura cristiana antica, conseguita nell’ottobre 1931 presso la Facoltà di Lettere dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, la collaborazione alla cattedra del titolare di quell’insegnamento e, di lì a breve (1934), l’incarico di presidente diocesano della Gioventù di Azione Cattolica ambrosiana, per mano dell’arcivescovo, card. Alfredo Ildefonso Schuster, erano tutti passi ed esperienze coerenti con le sue aspirazioni.
Conviene ricordare che durante il pontificato di Pio XI (1922-’39) la Chiesa aveva assunto come riferimento teologico l’idea della Regalità di Cristo, da cui scaturiva l’impegno pastorale per instaurare la signoria di Lui sui «cuori», unitamente allo sforzo per favorire un modello di società coerente con i valori cristiani (in tal senso, il papa ricorreva all’espressione: «Regno sociale di Cristo»). L’Azione Cattolica costituiva organismo finalizzato ad assicurare la «partecipazione dei laici all’apostolato gerarchico».
Il modo di pensare del giovane Lazzati era interno a quella visione di cattolicesimo militante. Ma, a differenza di chi sosteneva posizioni di “riconquista” cattolica, non andando troppo per il sottile anche in merito ad alleanze fra “trono” (nel caso specifico, il regime fascista) e “altare”, egli era fermo su due punti qualificanti: primo, il convincimento per cui il Regno di Dio (o di Cristo) riguardava innanzitutto la coscienza dell’uomo, sollecitata da un processo continuo di conversione dalla logica mondana a quella evangelica; secondo, la persuasione della distinzione fra le sfere religiosa e politica, che lo tutelava dalla posizione anti-moderna di restaurazione della «societas christiana».
Gli studi patristici, entro i quali si delineò ben presto il suo interesse per l’A Diogneto, con il richiamo alla «paradossale cittadinanza» dei cristiani, da un lato, e la lettura (1937) del Maritain di Humanisme intégral, con il rimando all’idea di una «nuova cristianità» democratica, dall’altro, rappresentarono riferimenti teologico-pastorali e filosofico-sociali fondamentali per lo sviluppo del proprio pensiero in ordine al rapporto fra fede/Chiesa e storia/potere politico.
Dinanzi al precipitare degli eventi in Europa (1939-’40), con le invasioni naziste di Stati sovrani (Cecoslovacchia, Polonia), l’avvio del conflitto mondiale e l’entrata in guerra dell’Italia, Lazzati, come altri cattolici pensosi, non tardò a rendersi conto della necessità di riflettere seriamente sulle vicende in corso e sul futuro del Paese. A tale proposito, aderì al gruppo di studio animato da colleghi dell’Università Cattolica, che fra il 1941 e la primavera del 1943 si riunì con ritmo settimanale in casa del professor Umberto Padovani. Fra i partecipanti figuravano Amintore Fanfani, Giorgio La Pira, Giuseppe Dossetti, Antonio Amorth, Gustavo Bontadini, Sofia Vanni Rovighi, don Carlo Colombo. Impulso alla loro riflessione venne anche dai Radiomessaggi natalizi di Pio XII durante la guerra, che auspicavano un nuovo ordine mondiale, fondato sul diritto, il rispetto per la persona, la giustizia, la pace.
Richiamato sotto le armi nel luglio 1943, Lazzati si trovò nel vortice dei drammatici eventi succedutisi fra il 25 del mese (caduta del governo Mussolini) e l’8 settembre (armistizio con gli Anglo-americani sbarcati nelle regioni del Sud). A quel punto - com’è noto -, la penisola risultava spaccata in due tronconi: il Meridione in mano al Governo regio e alle Forze alleate, il Centro-Nord ai nazi-fascisti, con l’istituzione della Repubblica Sociale Italiana. Resistenza, bombardamenti aerei sulle città, repressioni e stragi di civili ad opera di nazisti e repubblichini segnarono in modo indelebilmente drammatico il biennio 1943-’45.
Così Lazzati ricordava i momenti di una decisione irrevocabile, che, alla stregua di molti altri commilitoni, lo avrebbe esposto a patimenti e umiliazioni indicibili:


Il mattino del 9 settembre del 1943, agli ufficiali radunati in Merano nella caserma 5° Alpini, un ufficiale chiedeva ad uno per uno, se sceglievano di essere fedeli al giuramento di fedeltà fatto al regio Esercito oppure aderire alle ricostituende formazioni fasciste. Il sì della scelta a suo tempo compiuta volle essere grido di libertà: e, per noi, caricati sui camion cominciò la deportazione di Lager in Lager.


Lazzati rimase nei campi di detenzione tedeschi sino all’agosto 1945. Iniziò la sua via crucis nella ex fortezza polacca di Deblin-Irena, passando poi in diversi altri Lager. Quello che egli fece per sostenere i compagni di sventura in quelle terribili condizioni ha del prodigioso. Promosse momenti di preghiera e incontri su temi religiosi, partecipò a dibattiti politico-culturali con esponenti di vario orientamento ideologico, animò riflessioni sui problemi educativi, scrisse vari opuscoli per i giovani di Azione Cattolica, svolse un vero e proprio ruolo di guida spirituale verso parecchi internati. Quest’attivismo gli procurò l’accusa di sobillatore, con inevitabili provvedimenti restrittivi. A seguito dell’interessamento di padre Gemelli, rettore della Cattolica, avrebbe avuto la possibilità, in quanto docente dell’ateneo, di rientrare in patria: la rifiutò eroicamente, per condividere sino in fondo la sorte dei compagni di sventura. Il ritorno a casa avvenne il 31 agosto 1945.
Dinanzi alle rovine della guerra e alla tragedia dei totalitarismi, in Lazzati s’irrobustì un convincimento: l’edificazione di una civiltà e di un’Italia «nuove» non si sarebbero mai avute, prescindendo, nella vita familiare, nei campi socio-politico, economico, istituzionale, culturale e educativo, dal riferimento alla figura di Cristo e ai valori da Lui proposti. Affidava queste riflessioni, maturate e in parte stese in prigionia, alle pagine de Il fondamento di ogni ricostruzione, volumetto uscito nel 1947 presso Vita e Pensiero, l’Editrice dell’Università Cattolica.
Scampato alla durissima prova del Lager, Lazzati pensava di potersi dedicare senza distrazioni alla ricerca, all’insegnamento universitario, al servizio nella GIAC. Ma non avvenne così. Su pressante invito dell’amico Dossetti fu indotto, infatti, a considerare l’opportunità, date le circostanze eccezionali, di rendersi disponibile per la politica attiva. Dopo attenta riflessione e consultazione dello stesso card. Schuster, decise di aderire alla sollecitazione rivoltagli. L’esperienza, incominciata nel 1946 come consigliere al Comune di Milano, proseguì con l’elezione all’Assemblea Costituente. Membro, poi, del Consiglio nazionale della Democrazia Cristiana, fu eletto in Parlamento nel 1948. Concluse la sua “avventura” politica nel 1953, al termine del mandato di legislatura.
Negli anni della Costituente, Lazzati concorse alla promozione di «Civitas Humana», l’associazione di cultura politica legata a Dossetti. Fu per lui un’esperienza fondamentale anche per l’elaborazione del proprio pensiero politico. Da credente inserito nel cuore della vita ecclesiale, comprese ben presto la necessità di chiarire fine, contenuti e metodo per un corretto operato laicale in ambito socio-civile. La distinzione fra Azione cattolica e azione politica, proposta con questo titolo in un celebre articolo del novembre 1948 su «Cronache sociali» (la rivista di «Civitas Humana»), che tanti sospetti gli attirò dal fronte intransigente-conservatore, costituì un passaggio nodale. Sulla scorta del classico schema teologico di «natura» e «soprannatura», Lazzati precisava la distinzione fra le finalità della prima forma operativa (la «santificazione» degli uomini tramite l’attività apostolico-pastorale, svolta dalla Chiesa nel suo insieme) e quelle della seconda (l’edificazione del «bene comune», per una convivenza democratica). Finalità da perseguire, nei due ambiti, con metodi e strumenti propri. Era limpida affermazione di un pensiero, via via ripreso entro un processo di riflessione «a spirale», elevandosi su sé stesso «in modo continuo e progressivo». Ciò avrebbe condotto Lazzati a una sempre meglio definita idea della laicità della sfera pubblica, nella quale il cattolico si cimenta, tenendo sì conto delle indicazioni magisteriali, ma rischiando in proprio, secondo un principio di autonomia decisionale.
Nel successivo articolo Valore dell’impegno politico, su «Studium» (periodico dei «Laureati Cattolici»), del dicembre 1948, egli definiva il magistero sociale della Chiesa come una «luminosa costellazione» cui riferirsi, con la consapevolezza però che «il lavoro politico» in senso proprio incomincia nel punto in cui «finiscono» il discorso magisteriale e il suo orientamento etico-spirituale [...]. Vi era qui un’allusione implicita alla “mediazione alta” dei valori - nozione in seguito approfondita -, che l’attività politica deve operare, tenuto conto della situazione storicamente data.
Dagli scritti di Lazzati dell’immediato dopoguerra emergeva, fra l’altro, l’urgenza di educare politicamente i cattolici, rendendoli intanto consapevoli di doversi guardare dalla suddetta confusione dei piani d’azione. Quest’opera formativa interessava la generalità dei credenti, con particolare attenzione però al mondo giovanile. A conferma di ciò ricordo l’impegno del Nostro nei Gruppi Servire. Proiezione di «Civitas Humana», intendevano aggregare giovani provenienti dalle associazioni ecclesiali, per prepararli ad essere fermento socio-politico entro gli abituali contesti di vita.
Negli anni della Costituente e dell’impegno parlamentare, Lazzati andò sempre più calandosi nelle vesti di educatore civile, consapevole, fra l’altro, che la dimensione democratica doveva divenire parte integrante di un progetto educativo cristianamente orientato. Significativo, in proposito, il suo intervento, su «Educazione e democrazia», nel settembre 1947, al primo Congresso nazionale dell’UCIIM, la nuova associazione degli insegnanti cattolici di scuola secondaria. Così osservava:


Affinché una democrazia autentica possa instaurarsi e sussistere nell’urto delle correnti e nel tragico divenire nella storia è indispensabile che tutto il popolo sia permeato dello spirito democratico; altrimenti può sempre accadere quanto è successo nell’Italia del ventennio trascorso nella quale una democrazia meramente formale non ebbe forza di resistere alla pressione antidemocratica.


Lazzati per primo conosceva le difficoltà del compito. In ogni caso, insisteva affinché la pur indispensabile «democrazia formale», come «gioco delle maggioranze e delle minoranze rispettose dei reciproci diritti e della convivenza di tutti», fosse «potenziata in una democrazia sostanziale, frutto dell’educazione». Era qui evocata una prospettiva di consolidamento democratico-sociale del sistema-Paese, con al centro la funzione educativa. Quest’ultima, dunque, doveva concorrere all’edificazione di una democrazia «reale e operante», non retoricamente declamatoria (cfr. Lazzati 1947, pp. 2-3).
Di analogo tenore erano altri interventi dell’epoca. Basti ricordare la relazione «Educare alla democrazia» (Siracusa, marzo 1951), al convegno degli studenti universitari cattolici (FUCI). Lazzati prese le mosse da alcuni chiarimenti relativi al fine della concezione democratica (garantire la piena crescita del cittadino, titolare di diritti/doveri inviolabili) e alle sue leggi regolative (integrazione del singolo e delle «società parziali» nella più vasta comunità politica, avvaloramento dei talenti individuali per il «bene comune», «autocostruzione dal basso» della compagine societaria, rispetto del principio di uguaglianza giuridica, tutela del pluralismo socio-culturale), per svilupparne, poi, le implicanze educative. Di particolare rilievo il punto in cui richiamava l’esigenza d’introdurre i giovani al valore del «pluralismo costituzionale» e della relativa tolleranza, basata sul rispetto dell’altrui opinione (cfr. Lazzati 1951, p. 4).


«Pensare politicamente»

Concluso l’impegno parlamentare, Lazzati poté riprendere il lavoro universitario, anche se gli incarichi, in diocesi (dove godette della fiducia dell’arcivescovo Montini, che gli affidò la direzione del quotidiano «L’Italia», 1961-’64) e non solo, si moltiplicarono, sottraendo molto tempo alla primaria attività accademica. A quel punto, per lui, risultava sempre più evidente che il problema dei cattolici nel contesto socio-politico s’intrecciava con quello della maturità del laicato, cioè di un soggetto ecclesiale consapevole della propria identità e missione nel mondo (cfr. Lazzati 1962). In proposito, egli era convinto della primaria necessità di un ripensamento ecclesiologico, atto a definire lo statuto del fedele laico e, di conseguenza, il suo ruolo nella Chiesa e nella società.
Negli anni Cinquanta il tema interessava da vicino lo stesso campo teologico. Celebre, in tal senso, il volume di p. Congar: Jalons pour une théologie du laïcat (1954). Vi si definiva il laico cristiano come un credente per il quale le «cose» ‒ ossia l’insieme delle «realtà temporali» (studio, lavoro, politica, economia ecc.) ‒ esistono «in sé stesse»: hanno, cioè, fini e «autonomia» specifici; pertanto sono meritevoli d’idonea cura, fuori da qualsivoglia forma di strumentalizzazione (anche di natura religiosa).
Lazzati, pur procedendo con un proprio sviluppo argomentativo, conveniva, nella sostanza, con quella visione. Da qui l’insistenza sul fatto che i fedeli laici, partecipi a pieno titolo della vita della Chiesa, erano chiamati a prolungarne l’azione santificatrice per la «rinnovazione del mondo». Ciò implicava, come presupposto, una vita teologale, alimentata da preghiera e sacramenti, ma, nel medesimo tempo, l’attitudine a considerare le «realtà temporali» e a operare in esse nel rispetto delle finalità loro proprie. Pertanto, l’azione «rinnovatrice», in senso spirituale, del mondo andava armonizzata, non confusa con quella specificamente secolare.
Fra le riflessioni del professore in materia di laicato figura il saggio del 1958 sulla «consecratio mundi». Anch’egli, nella scia di Pio XII, che aveva impiegato tale espressione tecnica al II Congresso mondiale per l’apostolato dei laici (5 ottobre 1957), era indotto a considerare l’“azione” in oggetto come specificamente laicale. Ben presto, però, la formula fu abbandonata, poiché dava l’impressione di costringere le «realtà temporali» in un improprio orizzonte religioso/sacrale (cfr. Lazzati 1962, pp. 37-70).
In tema di laici e di realtà temporali (fra le quali, la politica), il Concilio Ecumenico Vaticano II, a Lazzati, parve condurre a piena maturazione idee e convincimenti sui quali pure lui si era affaticato. Suo cavallo di battaglia nell’indefessa attività di «catechesi conciliare» svolta in tutta Italia era l’illustrazione del n. 31 della Costituzione dogmatica Lumen gentium, che recita: «Per loro vocazione è proprio dei laici cercare il Regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio». Questo passo gli sembrava precisare e sancire, con l’autorevolezza unica di un Concilio, l’idea da lui stesso sostenuta a proposito d’identità e ruolo specifico del fedele laico nella storia, premessa indispensabile anche per un corretto esercizio dell’azione propriamente politica.
A supporto di tale prospettiva stavano poi alcuni affondi tematici e metodologici dell’altra Costituzione conciliare, la Gaudium et spes, che Lazzati, rallegrandosene, vedeva confermare intuizioni di precursori del Concilio spesso incompresi dalla stessa gerarchia. L’idea di una Chiesa aperta alla condivisione di «gioie e speranze», «tristezze e angosce» degli uomini e delle donne del proprio tempo, rappresentava una prospettiva avvincente, oltre antagonismi astiosi con il mondo moderno e mire temporalistiche del passato. Ciò significava, fra l’altro, riconoscere il valore dello spirito dialogico, del pluralismo culturale, dell’autonomia legittima delle «realtà temporali», della laicità delle istituzioni pubbliche: tutti motivi in stretta colleganza anche con la problematica politica, intorno ai quali il professore sarebbe tornato a più riprese nel post-Concilio, nonostante l’aggravio delle responsabilità professionali. Su tutte la nomina a rettore dell’Università Cattolica (giugno 1968), nella fase calda della contestazione studentesca.
L’incarico rettorale, ininterrottamente confermato sino al 1983, contribuì a irrobustire il rilievo pubblico della figura di Giuseppe Lazzati. In particolare, la sua autorevolezza crebbe considerevolmente nel mondo cattolico. Da ricordare almeno due esperienze che lo videro protagonista: innanzitutto, quella di vicepresidente (insieme con mons. Luigi Maderna e p. Bartolomeo Sorge) del Convegno ecclesiale «Evangelizzazione e promozione umana» (Roma, ottobre-novembre 1976), che tanto significò per un modello di Chiesa coerente con il Magistero conciliare e, conseguentemente, in dialogo aperto con una società dai contorni sempre più secolarizzati (sintomatico l’esito dello stesso referendum sul divorzio, 1974); secondariamente, l’intuizione e la gestione del XLVII Corso di aggiornamento culturale dell’Università Cattolica (Verona, settembre 1977) sulla laicità, tema tenacemente voluto dal rettore, per la complessità dei profili in esso racchiusi (storici, filosofico-teologici, ecclesiali, giuridico-istituzionali e politici), che significavano molto per una corretta postura dei cristiani nella storia.
Al dire di Lazzati, un punto era chiaro: bisognava lasciarsi alle spalle ogni nostalgia di cristianità pre-moderna e investire invece su una seria opera di evangelizzazione, accompagnata da rinnovato impegno educativo. In quel contesto, secondo lui, si poteva parlare di «ora dei laici», giacché ad essi spettava un duplice e congiunto compito, non trasferibile ad altri “soggetti” ecclesiali: testimoniare il Vangelo nei luoghi “feriali” della vita e «animare cristianamente» dall’interno ogni «realtà temporale», politica compresa, così da porla a effettivo servizio dell’uomo. Ma per riuscirvi, di nuovo, occorreva un laicato consapevole del compito.
Due erano le «stelle polari» assunte da Lazzati come riferimento - beninteso, insieme con la Parola di Dio -: la Costituzione e il Concilio. La Costituzione, innanzitutto, fondamento della «casa comune» della nostra convivenza, che abbisognava di appropriati interventi legislativi e di coerente azione politica, per far progredire il modello di democrazia «sostanziale» e non meramente «formale» in essa delineato. Da qui alcuni sferzanti interventi fra anni Settanta e Ottanta nei confronti della nostra classe politica, incominciando da quella d’ispirazione cattolica, perlopiù raccolta nelle file della Democrazia Cristiana. Proprio la DC gli sembrava un partito scarico, privo della necessaria progettualità e capacità propulsiva per reggere le sfide di una società in profonda trasformazione. A monte stava, secondo lui, anche un deficit di cultura politica, ossia di ponderata attitudine a saper «pensare politicamente», per dirla con una sua tipica espressione. Il caso si aggravava perché questa carenza, evidente in molti politici cattolici, era, a fortiori, ravvisabile nella generalità del laicato.
Concluso il mandato elettorale (giugno 1983), Lazzati, ormai libero da responsabilità istituzionali, avvertì il dovere di applicarsi in una ripresa e messa a punto organica del proprio pensiero politico, che - come già detto - nel suo modo di argomentare aveva un inscindibile aggancio con la questione del fedele laico e della sua responsabilità storica. Ne uscì una trilogia (1984-’86), imperniata sull’idea dell’edificazione di una «città dell’uomo a misura d’uomo», nel quadro di una «nuova maturità del laicato».
La Città dell’uomo. Costruire, da cristiani, la città dell’uomo a misura d’uomo, titolo del primo libretto (1984), definiva il senso e il fine della politica, in un’ottica di modernità democratica, fedele ai principi/valori costituzionali (notoriamente permeati anche dall’ispirazione personalistico-cristiana). Un servizio, quello politico, teso a delineare e ad attuare, con la necessaria gradualità storica, un modello di società e di convivenza civile, che, rispetto ai vari profili chiamati in causa (istituzionale, socio-culturale, economico ecc.), doveva proporsi di favorire la promozione integrale di ogni cittadino, comprensiva di diritti e doveri, in un quadro di socialità compartecipe, orientata al «bene comune». Nella visione lazzatiana, l’edificazione della «città dell’uomo» implicava una complessa e articolata opera architettonica, dove tutti, seppur a diverso titolo e con differenti responsabilità (istituzioni, enti e soggetti privati, singoli cittadini), dovevano sentirsi protagonisti. Fuori da ingenue oleografie, Lazzati sapeva, per diretta esperienza, che la politica è confronto duro, a volte conflitto aspro. Ma in regime democratico la conflittualità andava governata, alla ricerca di punti di mediazione, in grado di contemperare gli interessi di parte con quelli generali della collettività. Improvvisazione, populismi, facilonerie, trasformismi erano tutti stili e atteggiamenti agli antipodi del modo lazzatiano d’intendere e praticare la politica. Per il professore, essa restava attività nobile (Paolo VI l’aveva definita la forma più alta di carità), ancorché difficile; bisognosa, pertanto, di preparazione, studio dei problemi, moderazione, rigore, senza aver paura di dire ai cittadini la verità, quand’anche scomoda.
Acquisito che ogni cittadino, pur a vari livelli, è chiamato a collaborare all’edificazione della «città dell’uomo» (magari incominciando dal diretto interessamento della medesima e dal dovere di pagare le tasse, proporzionalmente al proprio reddito), Lazzati, nella seconda parte del libretto in esame, approfondiva il significato del concorrere «da cristiani» a quell’opera plurale (cioè propria di tutti i cittadini, benché differenti per cultura, ideologia, religione ecc.). Il discorso riprendeva, aggiornandole, riflessioni teologiche ed ecclesiologiche svolte nell’arco di diversi decenni. Dall’imprescindibile responsabilità storica del cristiano (con specifico riguardo alla figura del laico), il ragionamento si allargava al rapporto Chiesa - mondo (scandito dalla distinzione delle due entità, ma con la prima consapevole di essere coinnestata nella seconda), per approdare al diniego di ogni ipotesi integristica, cioè di pretesa identificazione della «città dell’uomo» con una «città cristiana». Il credente - osservava l’autore - opera, con appropriatezza e competenza, nella città di tutti, qui da noi sempre più pluralistica e secolarizzata, coltivando il senso di una corretta laicità, che implica, in primis, il già menzionato riconoscimento dell’autonomia istituzionale, ma nel medesimo tempo recandovi, con la coerenza del comportamento, fattiva testimonianza della propria fede e dei valori ad essa intrinseci. Restava in ogni caso confermato che il piano dell’«evangelizzazione diretta» non andava confuso con quello delle attività secolari (lavoro, opera socio-politica ecc.).
Il secondo libretto della trilogia, Laicità e impegno cristiano nelle realtà secolari (1985), approfondiva aspetti metodologici riguardanti tale impegno, con specifica attenzione alla componente politica.
La maritainiana espressione «unità dei distinti» figurava in evidenza. Questo criterio, applicato all’operare del laico cristiano, stava a significare, in estrema sintesi, l’esigenza di fedeltà alla «doppia cittadinanza», già a suo tempo segnalata dall’A Diogneto: quella della Chiesa, ambito istitutivo della vita di fede e delle sue variegate forme espressivo-celebrative; quella della «città secolare», luogo delle diversificate attività “feriali” del cittadino-credente. Due ordini distinti ma non separati di appartenenza, che dovevano trovare composizione equilibrata nell’unità della persona e della sua coscienza.
L’idea di mediazione, dalla dimensione teologica a quella dell’agire concreto, costituiva un secondo criterio metodologico, con le relative implicanze in campo politico. Intendeva esprimere, per il cristiano operante nelle realtà temporali e in ambiti secolarizzati, la necessità di “legare”, ossia “fare incontrare” il proprio quadro valoriale con contesti ideologico-culturali alternativi. Ricordiamo, per inciso, che negli anni di uscita del testo ferveva in ambito ecclesiale la polemica fra la cosiddetta «cultura della presenza», interpretata dal movimento di Comunione e Liberazione, e la «cultura della mediazione», in certo senso propria della stessa Azione Cattolica (alla quale s’intestava, fra l’altro, la non sempre bene intesa «scelta religiosa»). Ora, in quest’ordine di considerazioni, anche per Lazzati, la pretesa di un’assoluta “non negoziabilità” dei valori spirituali, oltre a manifestare una propensione integristica, si rivelava improduttiva sul piano pratico, esito, del resto, documentato dalle vicende parlamentari, soprattutto a proposito di tematiche eticamente sensibili (divorzio, poi aborto). Sicché, per stare al piano legislativo, la “mediazione alta” del valore cristiano, cioè al livello più elevato possibile in un preciso contesto e momento storico, restava l’unica soluzione realisticamente percorribile.
Da qui il conseguente passaggio a un terzo criterio metodologico dell’agire politico suggerito da Lazzati: quello del dialogo. In una situazione di pluralismo sempre più frammentato, l’arte dialogica si rivelava indispensabile. Richiedeva però specifiche qualità nel dialogante, in assenza delle quali diventava impossibile raggiungere qualche intesa. In proposito, l’autore nominava: la chiarezza della posizione di partenza, la pazienza nel condurre il confronto, la fiducia nel proprio interlocutore, la mitezza delle parole e degli stili relazionali, la prudenza pedagogica (che induceva a tenere conto delle condizioni etico-psicologiche della persona con cui s’interloquiva).
Queste ultime considerazioni fanno capire come Lazzati non sottacesse mai l’importanza delle qualità umane, culturali, spirituali del cristiano operante in politica. Un complesso di doti e competenze configgenti con l’improvvisazione e l’esteriorità; bisognoso, al contrario, di cura formativa, in senso generale e specifico. Insomma, il laico cristiano impegnato in campo politico doveva essere, per il nostro autore, persona matura e unificata in sé stessa, salda nei suoi principi ma capace di dialogo, dedita generosamente e senza fini secondi all’edificazione di una «città dell’uomo a misura d’uomo», dove tutti, credenti e non credenti, potessero vivere in pace, nel reciproco rispetto e nella mutua collaborazione. Questo il convincimento e il messaggio di Giuseppe Lazzati, da rileggersi anche alla luce dell’ultimo volumetto della citata trilogia, Per una nuova maturità del laicato (1986), uscito poco prima della sua dipartita. Un messaggio - annotiamo - di palpitante attualità.


Bibliografia citata nel testo

Lazzati G. (1984), La città dell’uomo. Costruire, da cristiani, la città dell’uomo a misura d’uomo, AVE, Roma (2019, nuova ed., con titolo ridotto: Costruire da cristiani la città dell’uomo).
- (1962), Maturità del laicato, La Scuola, Brescia.
- (1951), (appunti dalla relazione di), Educare alla democrazia, in «Ricerca», 8.
- (1947), Educazione e democrazia, in «La Scuola e l’Uomo», 9.


Antologie di testi di G. Lazzati

Botti G. C. (2008, a cura di), Riscoprire la democrazia. Scritti quotidiani di un cristiano laico (1984-1986), con la prefazione di G.C. Botti, In dialogo, Milano.
Formigoni G. (2009), Laici cristiani nella città dell’uomo. Scritti ecclesiali e politici 1945-1986, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano).
Caimi L. (2021), Politicamente. Costruire per la “città”, a cura di L. Caimi, AVE, Roma.


Testi su G. Lazzati

Malpensa M., Parola A. (2005), Lazzati. Una sentinella nella notte (1909-1986), il Mulino, Bologna.
Pizzolato L. F. (2007, a cura di), Fede e cultura in Giuseppe Lazzati, Vita e Pensiero, Milano.



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