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Persona e fondamenti dello Stato in Giorgio La Pira

Fabio Mazzocchio
Articolo pubblicato nella sezione “Libertà e democrazia nella cultura politico-giuridica italiana”

1. I cattolici democratici e la Costituente

Eletto nel giugno del 1946 all’Assemblea Costituente tra le fila della Democrazia cristiana, Giorgio La Pira (1904-1977) fu certamente tra le intelligenze più attive di quella fase dell’era post-fascista. Vicino a Dossetti, Fanfani e Lazzati, parte organica quindi del plotoncino dei cosiddetti “professorini”, fu apprezzato componente dalla Commissione dei Settantacinque chiamata a redigere il “testo base”, con il significativo incarico di relatore alla Prima Sottocommisione dedicata all’ambito dei “Diritti e doveri dei cittadini”.
Con il suo apporto fu tra i protagonisti concreti della stesura della nuova Carta costituzionale repubblicana, partecipando in modo sempre costruttivo alla dialettica interna al gruppo democristiano e al dibattito con gli altri gruppi assembleari (in particolare con i deputati della sinistra socialista e comunista).
La Pira è un esempio, tra i più illustri, del contributo dato dai cattolici italiani alla fase costituente dopo l’esperienza della lotta al Fascismo e della Resistenza (cfr. Campanini 1990, pp. 39-51). Come è stato spiegato dalla ricerca storica sul Movimento cattolico in Italia, l’apporto offerto dai costituenti democristiani, prima e durante la stesura della Carta fondamentale, fu determinante al pari del contributo fornito dalla cultura laica e da quella di ispirazione marxista (cfr. Malgeri 1989). Si trattò di un momento di unità nazionale di alto valore politico e simbolico. Il clima generale di quegli anni facilitò certamente il dialogo tra le varie tradizioni politiche. Probabilmente ciò che consentì l’ammorbidirsi delle posizioni del mondo cattolico fu dovuto, da un lato, al lento superamento dell’idea che la democrazia moderna fosse legata all’anticlericalismo laicista e alla spinta plurisecolare della secolarizzazione (cfr. Campanini 1990, p. 41) e, dall’altro, alla capacità di mediazione politica che i cattolici riuscirono a mettere in campo, forti della loro ispirazione e del sostegno ideale avuto dai celeberrimi radiomessaggi di Pio XII, che aprivano alla forma di governo democratica, in particolare quello del Natale 1944. Meno famoso rispetto a quello tenuto dal Papa nel 1942 - dal quale sostanzialmente prende avvio l’esperienza della DC di De Gasperi -, il radiomessaggio del ‘44 è un autentico invito alla costruzione di una società nuova ispirata ai principi democratici. Su questo sfondo la convergenza in Assemblea venne trovata su un certo numeri di principi fondamentali sostenuti da valori unitari di tipo repubblicano.
I cattolici risultarono essere maggioranza relativa alle votazioni del 2 giugno 1946, con 207 deputati sul totale di 556 membri. La loro presenza fu sin da subito decisiva e si rivelò di alto profilo sul piano della definizione del senso generale dello Stato, della sua architettura pluralistica e, nello stesso tempo, segnato dalla forte ispirazione personalistica e dall’idea di bene comune (cfr. Antonetti, De Siervo, Malgeri 2017). In questa chiave furono evitati sia lo scivolamento individualistico, sia l’assolutizzazione dello Stato in senso amministrativo o in chiave eticistica.
Centrale fu quindi il ruolo di alcune delle migliori intelligenze cattoliche di quegli anni; oltre ai già citati Dossetti e Fanfani, è utile ricordare la funzione svolta da De Gasperi e da un gruppo di intellettuali, prevalentemente di formazione giuridica, come Moro, Mortati, Taviani, o economica come Vanoni. Competenze e formazione che pochi altri gruppi potevano vantare. Quasi tutti provenienti dal mondo dell’Azione Cattolica e dalle realtà ad essa connesse, come la FUCI e il Movimento Laureati (cfr. Pombeni 1979). Palestre di formazione concreta alla Dottrina Sociale e alla libertà di pensiero durante il periodo fascista.
Esperienze che peraltro confluirono nel gruppo che diede vita al cosiddetto “Codice di Camaldoli”. Documento di natura programmatica che vide tra i protagonisti numerosi giovani intellettuali cattolici e illuminati prelati come Giovanni Battista Montini, il futuro Paolo VI, che a partire dagli anni Trenta aveva promosso una riflessione profonda sulle questioni politiche all’interno dell’esperienza delle Settimane Sociali dei cattolici italiani. Montini era stato assistente della FUCI dal 1925 e poi si impegnò, tra il 1932 e il 1933, nella fondazione del Movimento Laureati di Azione Cattolica, nonché dal 1934 delle Settimane Teologiche di Camaldoli.
Le figure più significative di questa giovane generazione di credenti elaborarono, attraverso questi percorsi, una visione dello Stato differente rispetto al corporativismo statalista del Fascismo e alternativo sia al liberalismo classico, sia al socialismo. Il momento fondamentale della realizzazione del “Codice di Camaldoli” avvenne nel luglio 1943, ma il documento vide la luce successivamente nell’aprile del 1945. La visione complessiva della politica e delle istituzioni era strutturalmente legata alla categoria di bene comune e al suo fondamento antropologico. Il documento di Camaldoli - in sintonia con il più avanzato magistero sociale della chiesa e con una sostanziale visione personalistica della politica - risultò essere un punto di riferimento anche per la fase costituente e un’autentica svolta per l’elaborazione dell’azione politica dei cattolici (cfr. Taviani 1984).
Sul piano filosofico-culturale va segnalata, negli stessi anni, la ricezione del Personalismo di Mounier e Maritain e l’acquisizione di un modello politico generale di tipo dialogico che ha nella ricomprensione della modernità uno snodo determinante. Aspetti che verranno ripresi e articolati anche durante la stagione che condurrà al Concilio Vaticano II. In connessione a questi avanzamenti va rilevato anche, attraverso l’influenza delle idee sturziane (cfr. Vasale 1988), l’abbandono del concetto di Stato cattolico in ragione di quello più complesso di Stato democratico.


2. La centralità della persona

Dentro questa cornice la figura di La Pira è tra le più apprezzate. Egli inizia un percorso di maturazione che passa attraverso la critica alla cultura totalitaria. Infatti a metà degli anni Trenta la


critica al regime fascista cominciò, allora, a prendere una forma compiuta, sia sotto il profilo politico-istituzionale che morale, per esplicitarsi in seno alla rivista "Principi", protagonista nel 1939-’40 di un’originale forma di resistenza pacifica e culturale al regime e di una decisa denuncia della svolta bellicista dell’Italia (De Giuseppe 2004, p. 107).


Nei primi anni Quaranta intensificò la sua attività pubblicistica scrivendo, in particolare, su «Bollettino di Studium», «Azione Fucina», «L’Osservatore romano». Nel 1941 sul numero 7 di «Studium» comparve il suo articolo Valore della persona umana che rappresenta una sorta di ponte tra il La Pira giurista accademico e il La Pira politico. Avvicinandosi così alle tesi di Maritain e del gruppo de “L’Esprit”. In questo modo svolse un ruolo propositivo all’interno del mondo cattolico e in favore di un distanziamento risoluto dal Fascismo (cfr. ivi, p. 14).
Nel primo dopoguerra egli consolidò la sua posizione di preminenza all’interno del gruppo dossettiano, anche attraverso la partecipazione alla rivista “Cronache sociali”, per mezzo della quale venivano proposti i principi comunitari del personalismo e una sostanziale ispirazione keynesiana sul piano degli intendimenti socio-economici. Sono anni d’intensa attività politica e di riflessione sul ruolo dei cristiani nella costruzione della polis democratica e per la rifondazione delle istituzioni. Sono di quel periodo i fondamentali testi Il valore della persona umana (1947) e Architettura di uno Stato democratico (1948).
Il personalismo politico comportò in La Pira, e in molti altri costituenti cattolici, l’impegno per un’idea dello Stato come strumento per il bene comune finalizzato alla promozione della persona. La centralità della persona nella progettazione della nascente democrazia doveva esser garantita al pari della sua centralità nella vita sociale (cfr. Campanini 1987). Inoltre, la base comunitarista era il presupposto del riconoscimento dei corpi intermedi e delle realtà associative quali elementi centrali e di articolazione plurale dello Stato stesso. In questo quadro va letta anche l’acquisizione dei diritti fondamentali che la Carta doveva suggellare in quanto naturali.
Tale ispirazione può benissimo esser colta osservando il Secondo comma dell’Articolo 3 del testo Costituzionale con il solenne richiamo al valore fondativo della persona, delle sue libertà e delle condizioni di sviluppo del proprio essere. In questo modo, e attraverso l’affermazione del valore-persona come cardine della nascente Repubblica, si teorizzava che l’intera architettura dello Stato avrebbe dovuto tendere allo sviluppo personale del cittadino, ricomprendendo altresì in questa chiave anche il tema dei diritti sociali, politici e civili.
Giorgio La Pira spiazzò quasi tutta l’Assemblea costituente quando, prima del voto finale della Carta, avanzò la proposta di inserire un Preambolo che faceva riferimento al nome di Dio, sia in chiave di ispirazione dell’atto finale che di garanzia della nuova Costituzione. Questo gesto sorprese molto anche il gruppo DC e non venne accolto per la perplessità generata negli ambienti laici, in particolare non passò inosservato l’autorevole diniego di Calamandrei. La proposta venne ritirata anche per l’effetto divisivo che avrebbe generato, con il conseguente possibile perturbarsi del faticoso equilibrio fino a quel punto realizzato tra le varie anime delle culture politiche in campo. Nonostante questa mancanza del riferimento esplicito a Dio, nella nostra Carta Costituzionale i valori provenienti dalla tradizione cristiana sono ben resi evidenti dall’ispirazione di molte parti, dagli atti preparatori all’Assemblea (cfr. D’Alessio 1979), nonché dall’articolazione concreta dell’intero dispositivo (cfr. Rossini 1980). Del resto il ruolo e l’opera di La Pira in Costituente, come di altri laici cristiani, è decisamente contrassegnato dalla sua appartenenza ecclesiale e da un’idea profetica dell’agire religioso che richiede al laico credente un impegno nel mondo non neutro, ma cristianamente orientato (cfr. Vigna, Zambruno 2008).
Significativa fu, dopo la metà degli anni Trenta, una certa interpretazione della “letteratura della crisi”, e di autori come Maritain, Spengler e Huizinga, mescolati alla conoscenza delle fonti tomiste. Attraverso questa griglia ermeneutica e la formazione giuridica e romanistica, La Pira riuscì in modo originale a proporre una visione dello Stato come corpo democratico centrato sul valore dell’uguaglianza e della libertà. Ma sarà soprattutto l’avvicinarsi al costituzionalismo francese e alle indicazioni di Mounier, circa la visione strumentale dello Stato come struttura di promozione dei valori comunitari e personalistici, attraverso la protezione delle libertà fondamentali, che permetterà al pensiero giuridico lapiriano di porsi in sintonia con le esperienze europee più avanzate (cfr. De Siervo 1979). Mounier aveva colto già nel segno con l’appello esposto ne Lettera aperta sulla democrazia. In quel testo l’autore francese esplicitava i motivi della sua opzione democratica:


noi non propendiamo verso la democrazia per motivi puramente e unicamente politici o storici, ma per motivi d’ordine spirituale e umano. [...] I principi politici della democrazia moderna, sovranità del popolo, uguaglianza, libertà individuale, per noi non sono degli assoluti. Passano al vaglio della nostra concezione dell’uomo, della persona e della comunità che la sviluppa e la completa (Mounier 1936, p. 272).


Il pensatore francese anteponeva così una precisa concezione dell’umano e della sua dignità ai principi tipici del liberalismo democratico, anzi cercò di rileggere e fondare questi principi su una definita immagine di uomo e della socialità che ne porta a compimento la vocazione più autentica.


3. L’architettonica dello Stato e la laicità

Ragionando sul modello di Stato da costruire e sulle sue caratterizzanti funzioni politiche, La Pira scrive: «ogni architetto sapiente fa così: si dà prima cura di conoscere le carenze dell'edificio crollato e costruisce il nuovo in modo che quelle carenze siano evitate. E non trascura neanche di mettere a profitto della nuova costruzione quanto di buono poteva pur trovarsi nelle costruzioni crollate» (La Pira 1978, p. 213). Nell’opera di ricostruzione dopo le macerie del Fascismo egli vede come necessario anzitutto recuperare quanto possibile del vecchio edificio e, nello stesso tempo, verificandone le evidenti e tragiche lacune evitare che queste si ripresentino, congegnando sul piano strutturale condizioni adeguate.
Una ricostruzione che parta quindi dagli errori del passato, dai motivi della crisi delle società di massa del XX secolo e, più in generale, della cultura europea. A ciò si unisce l’istanza lapiriana del procedere verso l’identificazione di valori fondativi accomunanti, muovendo da un agire politico che chiama i cristiani tutti alla ricostruzione della casa comune (cfr. La Pira 1979).
La nuova architettura dello Stato nel suo disegno sarà essenzialmente pluralista e personalista. Con le parole del giurista:


Quale sarà dunque l’architettura del nuovo edificio costituzionale? La prima risposta è questa: bisogna evitare il duplice scoglio: l'individualismo per un verso e lo statalismo per l'altro verso. [...] La formula - abbastanza felice - che indica questo tipo costituzionale nuovo e che ne definisce l'architettura è questa: tipo personalista e pluralista di edificio costituzionale (La Pira 1978, p. 212).


La Pira svolge così un’analisi sugli elementi essenziali della nuova tessitura istituzionale, articolando una riflessione sui fondamenti teorici del Personalismo, sulla connessione tra persona e corpo sociale e sul complessivo assetto giuridico che questa visione comporta. Partendo proprio dalla concezione cristiano-tomista della persona come unicità e relazione afferma che


la persona umana - id quod est perfectissimum in tota natura dice S. Tommaso - ha fini propri che non si esauriscono nei fini sociali e statali: trascendono tali fini che sono pur sempre temporali ed esterni perché la persona ha per fine supremo un fine interiore, spirituale ed eterno che consiste nella unione con Dio (in Dei visione consistit). Quindi la persona ha una autonomia (libertà) originaria per mezzo della quale essa si dirige verso il fine che le è proprio (ivi, p. 213).


L’identità profonda della persona non è fondata sull’autoconsistenza dell’io, o in ragione del solo legame con l’alterità assoluta di Dio, ma piuttosto si semantizza in chiave relazionale e costitutivamente sociale, pur permanendo il suo valore legato alla «dipendenza creaturale» (La Pira 2004, pp. 77-83). Riprendendo note formulazioni aristoteliche e maritainiane, con chiarezza La Pira scrive:


la persona non è asociale e tanto meno antisociale: essa anzi è naturalmente sociale: ciò significa che la personalità umana si svolge progressivamente in una serie di organismi – da quello familiare, a quello territoriale, di lavoro, di classe, politico, culturale, religioso – che la integrano e la elevano: la norma regolatrice di tali organismi è quella della solidarietà, della finalità comune: il che importa la subordinazione di ciascuno al bene di tutti (La Pira 1978, p. 213).


L’orizzonte è quello garantito da una radicale filosofia del bene comune. Una visione del politico e della comunità sociale in cui il fine della società non è il bene individuale, né la loro sommatoria. Il bene comune, infatti, è un fine e non solo il mezzo per la felicità dei singoli. Esso come unico fondamento personalistico dell’autorità e dei pubblici poteri, riguarda l’intero della società e non solamente lo Stato. Il suo contenuto non è definibile teoricamente, ma va determinato storicamente in relazione al massimo bene umano perseguibile in condizioni date. Per questo accompagna l’evoluzione della vita sociale (cfr. Possenti 1991). Il valore aggiunto del bene comune può essere anzitutto focalizzato proprio nella dimensione comunitaria che presuppone: essere-insieme è un valore che si addiziona non solo a quanto possiamo essere e realizzare da soli, ma anche a quanto possiamo realizzare-insieme, mettendo a sistema il nostro agire. Il bene comune in tal modo esprime la comunione stessa nel vivere con altri. Come ha indicato Maritain:


Il bene comune della città non è la semplice collezione dei beni privati, né il bene proprio di un tutto che (come la specie, per esempio, riguardo agli individui, o come l’alveare riguardo alle api) frutta a sé solo e a sé sacrifica le parti. È la buona vita umana della moltitudine, di una moltitudine di persone; è la loro comunione nel vivere bene; è dunque comune al tutto e alle parti, sulle quali si riversa e che devono trarre beneficio da lui (Maritain 1946, p. 31).


Una filosofia politica democratica così descritta si riconosce, dunque, dalla connessione inscindibile tra il valore indisponibile della dignità della persona, i diritti fondamentali, l’uguaglianza sostanziale, il primato della giustizia e della legge in un’ottica di solidale fratellanza della famiglia umana.


Quindi - continua La Pira -: il principio basilare “la società e lo Stato per la persona e non la persona per la società e lo Stato” si integra con l'altro: “la persona è subordinata al vero bene comune sociale e politico che è sempre, in ultima analisi, il bene integrale della persona”. Da questi principi deriva anche la conseguenza che gli organismi sociali attraverso i quali si svolge gradualmente la personalità umana - frutto combinato di una tendenza di natura e di libertà - non sono “organi” di una comunità assorbente: quella statale. Hanno, invece, ciascuno una propria finalità, una propria autonomia, un proprio svolgimento - e quindi un proprio statuto giuridico - che lo Stato deve riconoscere e presidiare (La Pira 1978, pp. 213-214).


Ciò premesso, secondo La Pira in opposizione ad ogni visione assolutista o statalista, non può che determinarsi una struttura “organica” o pluralista del corpo sociale: «significa che essa risulta da una pluralità coordinata, ma sempre originale, di organismi aventi, come si è detto, struttura propria, fini propri, propria autonomia, proprio diritto» (ivi, p. 214). In tal senso l’idea che sia lo Stato ad avere una dignità originaria e che non vi sia nulla di anteriore al diritto positivo viene decisamente rigettata. Nell’errata concezione del corpo sociale come articolazione del corpo politico l’unico fine generale è quello dettato dallo Stato, nulla ha ragion d’essere fuori di esso se non nella forma surrettizia della derivazione o dello sviluppo. Il collettivismo e lo Stato etico hegeliano non operano la determinante distinzione tra società, come aggregato plurale di persone libere, e Stato quale unità assorbente e sostanziale.


Invece la concezione pluralista distingue nettamente fra la società (cioè le varie società che gli uomini costituiscono pei loro fini diversi) e lo Stato, che è una società avente un fine proprio destinato non ad eliminare ma a tutelare - mediante il diritto positivo - e integrare i fini delle altre società. Unità di ordine, non unità sostanziale: ecco la concezione pluralista dello Stato: e ciò non solo rispetto ai singoli, ma anche rispetto alle altre comunità dal complesso ordinato delle quali quest'ordine risulta. Una costituzione proporzionata è quella che rispecchia in sé questa pluralità: vestito adatto al corpo sociale (ivi, p. 215).


Sul piano dell’architettura politico-istituzionale e dell’assetto giuridico la Costituzione dovrà anzitutto riconoscere e tutelare i diritti naturali della persona. L’anteriorità di questi diritti, rispetto ad ogni positivizzazione, li caratterizza altresì come inviolabili e universali. Tali diritti sono essenzialmente di due tipi per La Pira e provengono dai caratteri fondamentali dell’umano: la libertà e la socialità. Distingueremo in tal modo diritti di libertà e diritti di solidarietà o socialità. L’insieme articolato di questi diritti «costituisce il quadro integrale di questi diritti naturali essenziali dell'uomo. Ma da ciò deriva una conseguenza: i diritti che si radicano nella solidarietà, per sussistere, presuppongono l’esistenza di comunità che ne sono il sostegno» (ivi, p. 215). In questo modo, il futuro sindaco di Firenze ricomprende sia i classici diritti civili e politici, a base individuale o collettiva, ma anche e soprattutto i diritti centrati sulle relazioni sociali e sui legami che strutturano l’esperienza storica della persona umana.
La sintesi teorica e operativa a cui giunge è una visione complessivamente democratica dell’articolazione plurale del vivere sociale, fondata su un impianto radicalmente personalistico del progetto costituzionale:


il progetto di costituzione - scrive La Pira - si è preoccupato - quanto era possibile nelle condizioni politiche nelle quali esso è Stato redatto - di considerare la persona umana nella integralità dei suoi status e dei suoi diritti: cioè non solo in quanto essa è una realtà individuale (status libertatis, direbbero i romani), non solo in quanto essa è membro della collettività statale (status civitatis, in senso largo), ma anche in quanto essa è membro di tutte le altre comunità che sono essenziali al suo sviluppo e al suo perfezionamento [...]. Ecco la visione “pluralista”: essa nettamente si differenzia, per superarla, da quella individualista e da quella statalista (ivi, pp. 226-227).


Un’architettura unitaria dello Stato avrebbe però sempre dovuto rispettare, armonizzandola e integrandola, «la pluralità di cui la società consta» (ivi, p. 228). Unità plurale non totalità. Uno Stato democratico non individualistico, ma che diventa strumento per le articolazioni del corpo sociale e per il loro progresso.
Le proposte elaborate da La Pira però, anche per il legame con il magistero sociale della chiesa cattolica, furono oggetto di obiezioni sia da parte della sinistra, sia da parte dell’area liberale. Il confronto fu certamente teso in alcuni frangenti, ma alla fine si troverà in Assemblea un accordo, una sorta di compromesso costituzionale, tra i grandi partiti di massa sulla definizione degli articoli 2 e 3 della Carta. In quel luogo giuridico emergerà la sintesi tra scelte di stampo personalistico e comunitario, l’affermazione del principio di eguaglianza dinanzi alla legge, e il forte accento sociale relativo all’impegno dello Stato a favore della promozione umana, a partire dalla risoluzione delle disuguaglianze di fatto (cfr. De Siervo 1979, pp. 46-50).
Il contrasto più significativo tra i padri costituenti fu, invece, relativo al senso della laicità delle istituzioni. Per La Pira, in opposizione alle idee del leader storico dei socialisti Pietro Nenni, lo Stato laico non è lo Stato agnostico, ovvero uno «Stato che opera come se la persona umana non avesse una essenziale orientazione religiosa e come se le comunità religiose non fossero elementi essenziali del corpo sociale» (La Pira 1978, p. 229). Se lo Stato, secondo La Pira, è la veste giuridica della società esso non può misconoscerne l’istanza religiosa vigente. Sul piano antropologico la persona stessa ha una costitutiva tensione religiosa. Tali assunti però non condizionano la sostanza del pensiero democratico lapiriano. Egli, infatti, è contrario allo Stato confessionale, perché in contraddizione con il principio della libertà di coscienza. Ritiene però il concetto di laicità equivoco perché mette tra parentesi l’intima realtà spirituale dell’umano. Uno Stato laico stricto sensu non può esservi, esso non potrebbe prescindere del tutto dall’esperienza religiosa come essenziale carattere della persona a meno di evidenti forzature. Nel credo politico lapiriano la visione dello Stato è profondamente ispirata cristianamente, anche se non può definirsi come confessionale. Questi assunti si riverbereranno nel dibattito che accompagnò la stesura dell’art. 7 e, in parte, dell’art. 8 della Carta.
Il cristianesimo per La Pira rimane rivelazione, allo stesso tempo, religiosa e antropologica. «Quindi è umano ciò che è cristiano e ciò che è cristiano è anzitutto (prius tempore) umano» (ivi, p. 235). La debolezza “intrinseca” del laicismo illuminista e di quello marxista è, per l’autore, legata alla mancata identificazione della vera natura dell’umano esposta nei valori evangelici. L’architettura del nuovo Stato sarà costruita su basi solide se avverrà il riconoscimento di valori propriamente umani perché propriamente resi evidenti dal messaggio cristiano. In questi passaggi sembrano ritornare gli echi di alcune posizioni maritainiane che La Pira aveva assorbito nel lungo periodo di riflessione degli anni Trenta:


Lo Stato d’animo democratico – scriveva Maritain – non solo deriva dalla ispirazione evangelica, ma non può sussistere senza questa. Per conservare la fede nel progresso dell’umanità, nonostante tutte le tentazioni che ci porterebbero a disperare dell’uomo, offerteci dalla storia, e in particolare dalla storia contemporanea; per avere fede nella dignità della persona e della comune umanità, nei diritti umani e nella giustizia, cioè in valori essenzialmente spirituali; per avere, non solo in teoria ma anche in pratica, la nozione e il rispetto della dignità del popolo [...]; per sostenere e ravvivare il senso di uguaglianza senza cadere in un eugualitarismo livellatore; per rispettare l’autorità pur sapendo che coloro che la detengono sono soltanto uomini [...]; per credere alla santità del diritto e alla virtù sicura ma a lunga scadenza della giustizia politica, di fronte ai trionfi scandalosi della menzogna e della violenza; per avere fede nella libertà e fratellanza, per tutto ciò sono necessarie un’ispirazione eroica e una fede eroica che fortifichino e vivifichino la ragione, e che soltanto Gesù di Nazareth ha fatto scaturire nel mondo (Maritain 1943, pp. 51-52).


L’impegno di Giorgio La Pira per la costruzione del nuovo Stato democratico ebbe quindi una ben radicata ispirazione evangelica, la stessa che nei decenni successivi motivò il suo forte impegno per gli ultimi e la pace. Una certezza inscalfibile animò il suo impegno intellettuale e politico, l’idea che vi fosse al di là delle contraddizioni della storia e del vivere sociale una tendenza profonda verso l’unità, il bene e la pace (cfr. Possenti 2004). È la cosiddetta “storiografia del profondo” che legge la storia umana attraverso l’ermeneutica teologica del mistero che trascina il vivere verso l’armonia. Tale coscienza anticipata del futuro, a fondamento di ogni speranza, fa di La Pira certamente uno dei profeti del nostro tempo.


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