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Ugo La Malfa: la “polemica a sinistra”

Sauro Mattarelli
Articolo pubblicato nella sezione “Libertà e democrazia nella cultura politico-giuridica italiana”

1. Un percorso “euroatlantico”


La guerra avrebbe dovuto significare, in un’Europa più avveduta, il miserevole fallimento di tutte le ideologie nazionalistiche. (...) L’industria europea necessita d’una sistemazione europea nell’ambito degli Stati Uniti d’Europa, e tutto ciò non può essere che opera della borghesia. Intenda la borghesia europea, ancora divisa e incerta, il grande significato dell’organizzazione economica americana e della trasformazione dei mercati coloniali. Un’Europa unita di fronte al mondo varrà più del prestigio tradizionale dell’Inghilterra e della Francia, o dei vaghi desideri dei popoli bisognosi di ricchezza (La Malfa 1988, pp. 10-11).


Così Ugo La Malfa nel 1926 sul “Mondo” del 29 giugno. All’epoca era appena ventitreenne. Era nato a Palermo nel 1903 e, dopo che ottenne il diploma in un istituto tecnico, la famiglia gli permise di studiare giurisprudenza a Ca’ Foscari con molti sacrifici. La sua formazione iniziò dunque tra gli immensi problemi del Meridione d’Italia e l’incontro con la cultura del primo dopoguerra, segnata dal confronto fra le grandi figure di Benedetto Croce e Giovanni Gentile, mentre i nazionalismi irrompevano sulla scena europea. La Malfa riuscì comunque a intrattenere tenacemente, anche fuori dalle aule universitarie, preziosi rapporti con maestri e amici: da Gino Luzzatto a Silvio Trentin, a Gaetano Salvemini. La concezione europeista si radicò così in lui sia come rigetto del nazionalismo, sia per puro processo formativo e divenne parte integrante e imprescindibile del suo continuo interrogarsi sul ruolo dell’Italia nel mondo occidentale. Quando pubblicò queste pagine, a causa delle aggressioni fasciste erano scomparsi da pochi mesi due personaggi destinati a influenzare profondamente il suo pensiero politico e sociale: Piero Gobetti e Giovanni Amendola. Egli, nel frattempo, aveva aderito, giovanissimo, alla “Unione Nazionale”, una compagine antifascista a cui aveva dato impulso proprio Giovanni Amendola, e a cui fecero riferimento figure come Luigi Einaudi, Carlo Sforza, Nello Rosselli, Ivanoe Bonomi, Luigi Salvatorelli, Meuccio Ruini, Giulio Alessio.
Per il suo aperto antifascismo La Malfa sconterà, nel 1928, anche alcuni mesi di carcere. Nonostante ciò, il giovane intellettuale, nel 1930, riuscì ad entrare nell’istituto dell’Enciclopedia Treccani, diretta da Giovanni Gentile e considerata tempio del regime mussoliniano. All’epoca però al suo interno la “visione immanentistica” consentiva una qualche convivenza tra filosofi, come Ugo Spirito e studiosi di ispirazione crociana e perfino comunista. Tre anni dopo questa esperienza, chiamato da Raffaele Mattioli, approderà alla Banca Commerciale dove incontrerà Giovanni Malagodi, figlio di un noto esponente antifascista e, più tardi, uomini come Enrico Cuccia e Cesare Merzagora. È in questo ambiente che ha l’opportunità di studiare Keynes, il New Deal, il laburismo e, in generale, i fermenti intellettuali del mondo anglosassone e dell’alta finanza internazionale. Contemporaneamente coltivava i contatti con gli antifascisti gobettiani ed amendoliani, molti dei quali rifugiati all’estero, con Bruno Visentini, Ferruccio Parri, Carlo Ludovico Ragghianti, Guido Calogero... e rafforzava soprattutto il sodalizio con Adolfo Tino e Carlo Sforza per cercare, fin dai primi anni Quaranta, di indirizzare l’opinione pubblica occidentale verso un futuro repubblicano per l’Italia e, nel contempo, per dar vita a un partito moderno che avrebbe trovato forma nel Partito d’Azione.
I sette punti programmatici elaborati dal movimento di La Malfa e Tino tra il 1941 e il 1942 per circolare clandestinamente in Italia, e specialmente all’estero, sono stati così sintetizzati da Sergio Telmon:

  1. Regime democratico e repubblicano;
  2. decentramento, regioni, intervento statale per le aree depresse;
  3. nazionalizzazione dei complessi monopolistici o di rilevante interesse collettivo;
  4. riforma agraria articolata;
  5. responsabilità e partecipazione dei sindacati nel processo economico;
  6. piena libertà di credenze e di culto, e separazione del potere civile da quello religioso;
  7. federazione europea di liberi paesi democratici nel quadro di una più vasta collaborazione mondiale (Telmon 1971, p. 41).

Trasformato il movimento in partito politico, si scelse il nome, Partito d’Azione, che evocava chiari richiami risorgimentali, mazziniani, cattaneani, secondo la rielaborazione rosselliana, puntualizzati anche nel giornale che sorgerà, su loro iniziativa, nel gennaio del 1943: “Italia libera”. Ma il percorso risentiva pure degli influssi keynesiani e della cultura anglosassone, soprattutto laddove si prevedeva il coinvolgimento dei sindacati nella programmazione del processo economico, l’intervento statale, il decentramento, la modernizzazione. Saranno questi i riferimenti saldi del pensiero lamalfiano.
Costretto a riparare a Londra per sfuggire all’arresto, nel 1944, dopo la liberazione di Roma, La Malfa partecipò alla prima riunione non clandestina del CLN, con Pietro Badoglio, Benedetto Croce, Palmiro Togliatti, Ivanoe Bonomi, Meuccio Ruini, Pietro Nenni, Mauro Scoccimarro, Sergio Feonaltea, Alcide De Gasperi... La breve ma intensa vita del Partito d’Azione, che disseminerà nuovi fermenti in quasi tutte le forze politiche dell’Arco costituzionale, lo indusse a una profonda riflessione che culminerà con l’avvicinamento al Partito repubblicano italiano, all’interno del quale inizierà una opera di modernizzazione che lo condusse alla guida di quella forza politica nel 1960, dopo un asperrimo scontro con Randolfo Pacciardi, che rappresentava l’area più “tradizionalista”.
Durante i primi anni della ricostruzione, l’impegno di La Malfa fu febbrile su vari versanti. Nel 1947 era stato chiamato a rappresentare l’Italia al Fondo Monetario di Bretton Woods, poi diventò membro effettivo dell’Assemblea permanente europea a Strasburgo e, a metà degli anni Cinquanta, lo troviamo tra i partecipanti agli incontri del club Bilderberg, riservati, come noto, a illustri esponenti politici e a insider dell’alta finanza mondiale. Come ministro del Commercio estero, nel primo, sesto e settimo gabinetto De Gasperi, pur fedele all’adesione italiana al piano Marshall, si prodigò per predisporre il paese alle più ampie aperture, fino a stringere accordi commerciali con l’URSS: la missione imperativa - spiegò - è di «cercare la via della ricostruzione nel rispetto degli obblighi di tutto il paese.» L’accordo con i Russi anticipava perfino le strategie francesi. Si configurava, scriverà nel 1949, come «un accordo da popolo a popolo», senza nessun cedimento sul piano della collocazione internazionale euroatlantica, ma con l’ambizione di costruire un lungo periodo di pace e di sviluppo per tutto il pianeta (La Malfa 1988, pp. 472-473).


2. Anni Sessanta: politica dei redditi e “Nota aggiuntiva”. Il dibattito per una nuova sinistra

È su queste basi che ebbe inizio la lenta preparazione alla svolta politica di centro sinistra. Un lavoro su più fronti: interno, in continuo dialogo, non privo di lacerazioni e polemiche, con i potenziali alleati, con le opposizioni, con le forze sindacali, con i rappresentanti della grande industria e dell’universo bancario. All’esterno, per mantenere chiaramente salda la collocazione “atlantica” del paese, con le relative alleanze militari in un’epoca segnata dalla Guerra fredda.
Il modello politico di riferimento, come si diceva, era ispirato dalle esperienze del mondo anglosassone, ma andava declinato in una realtà italiana segnata da una storia peculiare, dal recente conseguimento dell’indipendenza e dell’unità nazionale, dall’uscita da una dittatura e da un cambio istituzionale dopo una catastrofica sconfitta bellica. Il divario Nord-Sud, gravi squilibri settoriali contraddistinguevano inoltre una economia profondamente diversa da quella delle nazioni del Nord-Europa.
Nell’Italia del dopo ricostruzione un clima di euforia sembrò comunque contagiare tutte le forze politiche. La Malfa e i suoi principali interlocutori politici, da Aldo Moro ad Amintore Fanfani, ricevuto il placet di Kennedy, richiamavano invece ripetutamente all’attenzione generale la debolezza strutturale dell’economia italiana, specie se non si fosse posta sotto controllo la spesa pubblica, soprattutto la sua parte corrente. Di qui gli appelli ripetuti, fino a fargli guadagnare il nomignolo di “Cassandra”, per declinare una scala di priorità nelle scelte di spesa, ed eliminare, nell’osservanza della Costituzione, gli stanziamenti senza copertura, evitando le richieste frammentarie e corporative che minacciavano la stabilità monetaria e l’equilibrio di bilancio, rendendo impossibile ogni tipo di programmazione economica. Fu questa la filosofia ispiratrice della Nota aggiuntiva del 1962: «Le riforme - scrisse - richiedono ingenti capitali di investimento e non possono essere realizzate in presenza di spinte rivendicazionistiche non coordinate e di una costante, suicida dilatazione della spesa pubblica corrente.» (La Malfa 1971, p. 31). Non solo: per attuare la riforma del meccanismo di sviluppo su cui sembrava concordare l’intera sinistra, sarebbe indispensabile, sostenne con forza La Malfa nel confronto svoltosi a Ravenna il 13 dicembre del 1965 con Pietro Ingrao e moderato da Eugenio Scalfari, «avere presenti tutti i fattori che determinano l’andamento di tale meccanismo, ciò che è reso possibile dalla programmazione economica purché ad essa si accompagni, come elemento integrativo fondamentale, una politica dei redditi.» (La Malfa 1966, p. 56). Il richiamo alle forze sindacali, fin dai primi anni Sessanta, era proprio finalizzato a definire una politica dei redditi tesa a «spostare dalla sfera dei consumi privati a quella degli investimenti e dei consumi sociali una più ampia aliquota di redditi» (La Malfa 1971, p. 46), nella convinzione che la recessione economica e le spinte inflazionistiche avrebbero danneggiato innanzitutto i lavoratori più deboli, i disoccupati, i territori marginali. Il rischio appariva più marcato se si teneva conto dello scenario internazionale, improntato su un liberismo non sempre facilmente controllabile dalle politiche statali.
Rammaricato per la risposta negativa ottenuta da parte del sindacato della CGIL, ricordò polemicamente che era vero che «privilegio era quello del detentore del capitale nei confronti del lavoratore» ma «condizione oggettiva di privilegio era quella del lavoratore nei confronti del disoccupato. Si doveva giocare a carte scoperte: l’austerità o è di tutti o non è di nessuno» (ivi, p. 51).
Non solo, La Malfa si rese presto conto che per realizzare le riforme di struttura necessarie per mantenere l’Italia nel novero dei paesi più moderni e industrializzati il campo del centrosinistra non era abbastanza ampio: il PCI, la maggiore forza della sinistra, restava infatti all’opposizione, travagliato da una fase evolutiva delicata e da rapporti con Mosca ritenuti ancora troppo stretti negli anni della Cortina di ferro. I dialoghi con questa forza politica avvennero comunque con frequenza e costanza, soprattutto tramite esponenti a lui più vicini sul piano culturale e della formazione etica: come Giorgio Amendola, Giorgio Napolitano e, più tardi, Enrico Berlinguer. Nell’aprile del 1966, proprio con Amendola, rifletté sul divario tra lavoratori sindacalmente forti e lavoratori sindacalmente deboli; si prese in considerazione il tema della disoccupazione e delle sue cause per definire una strategia politica “di sinistra” che tenesse conto della collocazione occidentale del Paese:


Allora noi ci dobbiamo abituare a considerare in Occidente, l’azione socialista, o, meglio, e più esattamente, l’azione di una sinistra, come azione assai diversa da come tradizionalmente l’abbiamo considerata. Se stiamo alla concezione tradizionale, nelle società occidentali non ci sarebbe mai stato il socialismo o la manifestazione di una politica di sinistra. Se stiamo ad una riflessione critica nuova, aderente al tipo di società nel quale viviamo, una sinistra ha avuto, e potrà continuare ad avere nel futuro, una grande e storica funzione, che è quella di continuamente modificarne e riformarne il meccanismo di sviluppo in atto agli scopi suddetti. Non occorre, perciò, a questa sinistra la suggestione e vistosità del mito finalistico, ma una forte e continuamente operante coscienza riformatrice, e il senso delle aspirazioni delle forze sociali che si è chiamati a rappresentare (La Malfa 1966, p. 70).


La consapevolezza che le nazionalizzazioni, come quella dell’energia elettrica, potevano implicare un tetto agli aumenti salariali, alla scala mobile, se non si voleva correre il rischio di vedere vanificati i benefici, aumentati gli squilibri, indeboliti i processi stessi di rinnovamento doveva costituire un richiamo al senso di responsabilità per tutte le componenti politiche, sociali e imprenditoriali del Paese. Ma alla sinistra, nella sua interezza, si chiedeva anche un salto “etico” improntato su una filosofia di austerità e di forte coniugazione dei diritti con i doveri sociali.


3. Gli anni Settanta: il dialogo con Berlinguer e la politica di unità nazionale

È sulla base di queste convinzioni che negli anni Settanta egli cominciò a pensare all’ineluttabilità del “Compromesso storico”, dopo la svolta “eurocomunista” operata da Enrico Berlinguer. Certo, l’incontro tra Democrazia cristiana e un Partito comunista che aveva avviato una fase di profonda revisione, specie in tema di rapporti con l’Unione sovietica, avrebbe tolto spazio politico a forze di piccole dimensioni come il Partito repubblicano. Ma per La Malfa l’interesse nazionale, l’europeismo, la collocazione euroatlantica, erano preminenti rispetto a semplici calcoli elettoralistici o di partito. La scelta del Pci di raccogliersi in difesa dello Stato durante gli anni di piombo, mostrando una ferma intransigenza sia verso il terrorismo di destra, sia nei confronti di quello di sinistra, rappresentato principalmente dalle Brigate rosse e da altri gruppi eversivi, fece pensare alla possibilità di un incontro, su basi rinnovate, tra le forze che avevano dato vita al Cln trenta anni prima. Una nuova chiamata in difesa delle istituzioni repubblicane nate dalla Resistenza e strutturate col varo della Costituzione, in verità non ancora attuata pienamente. La minaccia veniva accentuata da una situazione economica e sociale sempre più difficile: forte inflazione, crescita irregolare, disoccupazione diffusa. Le titubanze di La Malfa verso il Partito comunista non derivavano più tanto dai suoi eventuali legami con Mosca, quanto piuttosto dalla consapevolezza che all’interno della maggiore forza politica d’opposizione la linea perseguita da Berlinguer e Amendola sembrava ancora fortemente osteggiata. Non solo, questo compromesso poteva comportare profondi rivolgimenti anche all’interno della Democrazia cristiana, lacerata dalla piaga, diffusa, del trasformismo, dalle lotte fra correnti in uno scenario ove sembrava messa in discussione della stessa integrità dello Stato.
Berlinguer rispose in maniera diretta alle sollecitazioni di Ugo La Malfa. Al congresso del Pci del marzo del 1975 sottolineò l’ineluttabilità del collocamento dell’Italia nel Patto atlantico, evidenziando che una deroga in tal senso avrebbe prodotto squilibri tali da porre in discussione la stabilità internazionale. Ma un aspetto politico altrettanto importante e interessante, sotto la prospettiva lamalfiana, riguardò l’allarme lanciato da Berlinguer verso le tendenze corporative del sindacato, la dura critica alle “pratiche di sottogoverno” attuate soprattutto dalla Democrazia cristiana e dal Partito socialista, che di lì a poco avrebbe avviato la fase craxiana. Berlinguer fece inoltre proprio il concetto lamalfiano di austerità, almeno per quanto riguardava le misure fiscali e la riduzione delle spese per i consumi superflui; così come condivise la necessità di riformare lo Stato, pulendolo delle sue strutture irrazionali e parassitarie, e avviando una politica di investimenti di largo respiro nel campo della ricerca scientifica, dell’istruzione, della formazione professionale, in modo da colmare il divario Nord-Sud (Cook 199, pp 317 ss.).
Nel frattempo La Malfa, a più riprese, pubblicava articoli sulla stampa estera. Cercava di spiegare, specie al mondo americano, l’importanza del sostegno del più importante partito della sinistra italiana ed europea per garantire stabilità in un paese scosso da crisi profonde. Segnali significativi, di supporto a questa sua azione, erano intanto giunti dalla svolta sindacale tentata dal segretario della CGIL Luciano Lama, peraltro fortemente contestato a Roma nel 1977 da gruppi di autonomi.
La caduta del governo bicolore Moro-La Malfa, il quadro politico che determinò la nascita, grazie all’astensione del Pci, di un governo guidato da Giulio Andreotti, le forti tensioni sociali e ripetute ondate di scioperi crearono però un clima che rese molto difficile questo processo, poi definitivamente affossato con il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro da parte delle Brigate rosse il 9 maggio del 1978. La Malfa morì meno di un anno dopo, il 26 marzo del 1979, a settantasei anni.


4. Un testamento spirituale

Ai primi di marzo del 1979 Ugo La Malfa aveva accettato un dialogo con la redazione della rivista “Argomenti”, periodico del Circolo culturale “Carlo Cattaneo” di Ravenna, presieduto da Sergio Gnani con cui aveva sempre mantenuto rapporti cordiali. Con questo organo di stampa, aveva cominciato a collaborare anche chi scrive queste note. Il dialogo fu franco, di ampio spettro e approfondito. Certo nessuno di noi immaginava che ne sarebbe scaturito uno degli ultimi scritti di Ugo La Malfa, rimasto peraltro sconosciuto ai più.
Iniziammo con una disamina sulle cause della frattura fra intellettuali europei e intellettuali italiani che si era evidenziata nel dopoguerra sul tema dell’individuazione di formule che tutelassero il processo democratico tenendo conto dei problemi legati allo sviluppo economico, con particolare riguardo alle questioni concernenti la perdurante disoccupazione, il livello dei salari, la connessione fra investimenti e incremento della produzione. La Malfa ripercorse gli anni del suo trasferimento all’ufficio studi della Banca Commerciale Italiana: un punto di osservazione ritenuto fondamentale per comprendere l’evoluzione della sinistra anglosassone, la sua spinta riformatrice, alla luce degli studi del pensiero keynesiano, che andavano oltre le dottrine filosofiche che avevano caratterizzato l’Europa continentale.


Le correnti antifasciste [...] - spiegò - erano troppo immerse in problemi politici immediati, per avere la tranquillità necessaria per una vasta opera di revisione critica del loro pensiero politico. Inoltre mancava alle correnti antifasciste che operavano all’esterno una specifica competenza nel campo economico, se si eccettua Carlo Rosselli che peraltro era troppo impegnato nella costruzione di un movimento, come Giustizia e Libertà, che doveva agire clandestinamente all’interno del nostro Paese, per avere il tempo e la possibilità di una rimeditazione critica di ordine culturale (La Malfa 1979b, pp. 4-5).


Dopo aver sottolineato che le forze antifasciste si erano soprattutto rifugiate in Francia, paese che faceva scarso riferimento alle esperienze anglosassoni, sottolineò come esse, in pratica, «potevano resistere al soffocamento culturale operato dal fascismo, attingendo al positivismo, allo storicismo di Croce, al marxismo-leninismo, ma non avevano possibilità di attingere a fonti culturali più vaste» (ivi, p. 5). Il Partito d’Azione concepito da La Malfa era anche un tentativo di rompere quella cerchia culturale; tentativo fallito, poi riproposto, con maggiore successo, all’interno del PRI, col supporto di prestigiosi intellettuali ed economisti, da Bruno Visentini a Giovanni Spadolini. Una filosofia, dunque, abbastanza lontana da quella del principale alleato di governo, la Democrazia cristiana, che faceva perno su un solidarismo che, a giudizio di La Malfa, forse si attagliava a una società agricola, ma non poteva da solo risolvere i problemi di una società industriale avanzata.
Di qui la sfida rivolta ai partiti della sinistra, socialisti e comunisti, per coinvolgerli non solo sul tema della difesa democratica, ma pure per «rafforzare una democrazia economica e sociale attraverso una consapevole azione riformatrice» (ivi, p. 5). Alla richiesta di chiarire se, a suo avviso, una più completa conoscenza delle dinamiche economiche capitalistiche, della concezione di “progresso” avrebbe permesso all’intera classe politica italiana di accogliere con ben altro spirito le proposte formulate a partire dalla redazione della Nota aggiuntiva, La Malfa rispose affermativamente richiamando un suo recente dialogo con Alberto Ronchey apparso sul “Corriere della Sera” del 23 dicembre 1978 e chiarendo:


Mentre fra socialisti e comunisti esiste la polemica circa il leninismo e la validità più o meno integrale del marxismo, rimane comune l’affermazione che il capitalismo è in crisi e bisogna superarlo. Nella intervista [...] si dimostra come questa crisi, quando si consideri il capitalismo come semplice modo di produzione, non esiste. Ed esiste invece la crisi delle forze politiche e sindacali che non sanno esattamente stabilire i limiti di condizionamento del capitalismo, per contenere e renderne efficiente e produttiva l’azione; che non sanno, per dirla in termini più banali, come e in che quantità mungere il latte dalla vacca, per non renderla improduttiva o assai scarsamente produttiva. E ciò rimane il grosso problema dell’Italia, ma anche delle altre società occidentali, quando si consideri la forza con cui i paesi del terzo mondo si affacciano con le loro esigenze e con la loro volontà di economicamente trasformarsi secondo il modello delle società industriali avanzate nel momento storico attuale. Come conciliare la spinta ininterrotta ad un sempre maggiore benessere delle vaste masse delle società industriali avanzate con la spinta al maggior benessere delle ancora più vaste masse del terzo mondo, è il problema di fondo che ci sta toccando da vicino (ivi, p. 6).


In questa ultima considerazione si sintetizza la preoccupata visone lamalfiana, relativa a uno sviluppo globale incontrollato e lasciato agli appetiti di forze non pienamente consapevoli dei rischi. Più che dalla crisi del capitalismo La Malfa, in quegli ultimi mesi, parve preoccupato dalla diffusa incapacità di comprenderne le dinamiche, di analizzarne le spinte, di programmare lo sviluppo, di tenerlo a freno. Il rifiuto, da parte di quasi tutte le componenti - imprenditoriali, sindacali, statali, politiche -, di ipotizzare comportamenti improntati sul rigore, sull’austerità, sulla capacità di pianificare il futuro senza farsi attrarre da ingordigie di vario genere, portava questo economista a un cupo pessimismo verso una società, che ormai sembrava rifuggire lo spirito “weberiano” di un’etica profonda, capace di affrontare i grandi problemi che avrebbero segnato i decenni successivi riguardanti l’ambiente, le disuguaglianze, le guerre e tutti i rischi incombenti sul pianeta. Fu questa la sua ultima “sfida a sinistra”.


Riferimenti bibliografici

Cook P. J. (1999), Ugo La Malfa, il Mulino, Bologna.
Balzani R., Varni A. (a cura di, 1990), Ugo La Malfa in Romagna. Scritti e discorsi dal 1947 al 1979, Santerno Edizioni, Imola.
Duva A. (2003), Ugo La Malfa. L’idea di un’altra Italia, Libri Scheiwiller, Milano.
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- (1988), Scritti 1925-1953, a cura di G. Tartaglia, Introduzione di L. Valiani, Mondadori, Milano.
- (1979a), L’avvenire che ho voluto, Edizioni della Voce, Roma.
- (1979b), I limiti di condizionamento del capitalismo, in «Argomenti», Ravenna, marzo 1979, n. 4.
- (1978) Obiettivi e strumenti della programmazione. Dalla “nota aggiuntiva” presentata al Parlamento dal Ministro del Bilancio on. Ugo La Malfa il 22 maggio 1962, in La strategia repubblicana per lo sviluppo e le riforme, Prefazione di A. Colombo, Edizioni della Voce, Roma.
- (1976), Prefazione a Cultura e democrazia, Edizioni della Voce, Roma.
- (1975), L’altra Italia, con Prefazione di R. Romeo, Mondadori, Milano.
- (1974) La caporetto economica, con Introduzione di G. Spadolini, Rizzoli, Milano.
- (1971) Polemica economica a sinistra. Problemi dello sviluppo dal 1962 ad oggi, Edizioni della Voce, Roma.
- (1968), Ideologie e politica di una forza di sinistra, Mondadori, Milano.
- (1966), Il dibattito della nuova sinistra, Edizioni della Voce, Roma.
Manzella A. (1980), Il tentativo La Malfa. Tra febbraio e marzo 1979, nove giorni per un governo, il Mulino, Bologna.
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