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Morire per una sillaba. Il linciaggio di Donato Carretta

GIUSEPPE FORNARI
Articolo pubblicato nella sezione Girard, filosofia e politica
… non c’è più nulla che rammenti, né lo spaventoso effetto, né la miserabile causa.
Alessandro Manzoni, Storia della colonna infame

18 settembre 1944. Siamo a Roma, poco dopo l’ingresso degli Alleati nella Città Eterna, nel momento più fosco della storia italiana del XX secolo. La popolazione è esacerbata dalle violenze del periodo di occupazione tedesca e soprattutto dall’episodio terribile dell’eccidio delle Fosse Ardeatine. In quel giorno l’attenzione è catalizzata dal processo al questore di Roma Pietro Caruso, accusato di gravi responsabilità nel massacro. Davanti alla sede del processo, il “Palazzaccio”, la montagna di travertino e sculture ministeriali che cupa si innalza sulla riva sinistra del Tevere, si è radunata una folla pericolosamente ansiosa di ottenere giustizia. L’udienza viene però rinviata, e a quel punto la folla, temendo si volesse proteggere l’imputato, rompe il cordone delle forze dell’ordine ed entra nel cortile del tribunale al grido di «Morte a Caruso!». La sua attenzione viene a questo punto attirata da un altro uomo, l’ex-direttore del carcere di Regina Coeli Donato Carretta, che era stato convocato come testimone a carico. Carretta è riconosciuto e vituperato da alcuni presenti, che lo accusano della morte dei loro congiunti: si distinguono in particolare una donna che aveva perso il marito e un’altra il cui figlio era stato torturato e ucciso dai tedeschi (una foto ha fermato quest’ultima, che punta l’indice accusatore con la bocca piegata in una smorfia, mentre Carretta di spalle cerca di discolparsi, i capelli impomatati di brillantina e il palmo aperto della mano destra, in un tentativo di difesa mimica e verbale).
La trappola mortale scatta. Carretta comincia a essere schiaffeggiato e malmenato (un altro testimone d’eccezione riprende la scena, Luchino Visconti, incaricato dagli Alleati di filmare il processo). L’ex-direttore riesce a scappare e tenta di nascondersi nei meandri dell’enorme falansterio, ma viene scovato. Si salva a stento per l’intervento di due ufficiali alleati e dei carabinieri, che più volte cercano di farlo allontanare in auto. Tutto è inutile, la massa riesce infine a impadronirsi del malcapitato, e riprende in grande stile il pestaggio. A un certo punto viene l’idea di stenderlo sui binari di un tram per farlo lacerare dal convoglio, ma il conducente del mezzo si oppone e si salva a sua volta dal linciaggio esibendo la tessera del P.C.I. Porta con sé la leva di azionamento del tram e l’auspicata mattanza così non riesce. Carretta, ormai ridotto a un tronco di sangue e tramortito, viene allora gettato nel Tevere, ma l’acqua rianima l’uomo, che cerca disperatamente di salvarsi a nuoto; senonché dei bagnanti, che stavano prendendo il sole sulla riva del fiume, rispondono prontamente alle grida di morte della folla e a bordo di due scialuppe, che il povero Carretta certamente sperava giungessero in suo aiuto, lo finiscono colpendolo con i remi, mentre altri si tuffano per spingerlo dove più forte era la corrente. L’affogamento è inevitabile. Il cadavere viene poi pescato dalla folla, trascinato al carcere di cui era stato direttore e appeso nudo a testa in giù alla grata di una finestra della facciata, in segno di ultimo scherno, e in modo che potesse vederlo la moglie, che si trovava lì vicino (si legga il drammatico racconto di Di Serio 1979).
Anche questo momento è stato fermato nell’immagine più tragica di tutte: al corpo hanno strappato i vestiti, a parte le mutande e la camicia, pendente come un vessillo di morte. Sotto si vede la traccia dell’acqua tiberina che cola, così scura da sembrare sangue, e con ogni probabilità mescolata al sangue della vittima selvaggiamente pestata. Le tristi osservazioni sugli indumenti residuali dell’uomo inducono ad altri commenti, solo superficialmente accessori. Il 18 settembre a Roma fa caldo, ed è quindi logico che Carretta non abbia indossato una canottiera. L’abbigliamento del poveretto porta spontaneamente a pensare ai preparativi per l’udienza, una camicia stirata, un completo elegante per apparire nel modo migliore, come fanno capire i capelli lisciati con la brillantina dell’altra foto. Tutto finito in strappi brutali, in un’esibizione vile e impudica, in uno scempio privo di qualunque pietà, concepito per colpire espressamente la moglie. Ancora pochi mesi, e una scena simile si sarebbe ripetuta a Piazzale Loreto a Milano. Molto più in grande stavolta, perché a subire il linciaggio post mortem sarebbe stato nientemeno che il Capo.
Alcuni responsabili del massacro vengono identificati e processati, ma ricevono delle pene esigue, com’è anche logico in questi eventi di violenza collettiva, dov’è difficile o impossibile identificare responsabilità individuali precise. Nel presente caso vi erano però delle persone più responsabili delle altre, vale a dire le due donne che per prime e con maggior accanimento si erano lanciate contro Carretta. Ciascuna delle due merita in pieno l’epiteto di «infernal dea che alla veletta stava», assegnato da Manzoni alla principale accusatrice degli innocenti condannati come untori della pestilenza del 1632 a Milano (Manzoni 1845, p. 404). Né manca chi sostiene che perlomeno una di loro fosse un agente provocatore del Partito Comunista. Non c’è modo in un breve articolo di verificare la tesi, ma ai nostri fini può bastare l’osservazione che una simile possibilità, in quei momenti e in quel clima, non era così inverosimile. Come che sia, è sicuro che il processo a Pietro Caruso si era subito caricato di significati politici, e che il Partito Comunista aveva la ferma intenzione di trasformarlo in un evento esemplare di rottura completa sia con l’occupazione nazista sia con il regime fascista.
Poche osservazioni per mettere a fuoco una prima riflessione sull’episodio. Vi è intanto da rilevare la sua natura extra-giudiziaria, e nel contempo il rapporto che esso mostra di avere col potere giudiziario. L’apparato giudiziario ha il compito di captare e interpretare una richiesta di giustizia che viene dal popolo, da una massa riunita contro qualcuno che viene ritenuto colpevole di un grave crimine, e se tale apparato non risponde, la folla, in situazioni angosciose e caotiche come quella esistente a Roma nel 1944, procede da sé. Il processo all’ex-questore Caruso verrà celebrato in tempi più che rapidi e si concluderà, appena quattro giorni dopo, con la condanna e la fucilazione immediata dell’imputato. Da parte sua Carretta non aveva nessuna responsabilità per le Fosse Ardeatine, e aveva anzi delle benemerenze per l’appoggio da lui dato, durante l’occupazione tedesca, alla resistenza socialista, e per l’aiuto prestato a due prigionieri importanti, Pertini e Saragat, da lui fatti uscire dal carcere. È verosimile che lo sventurato si sentisse tranquillo, o che forse sperasse di migliorare ancora la sua situazione testimoniando contro Caruso, ma il semplice rinvio dell’udienza ha fatto saltare i suoi possibili calcoli, trasformando un adempimento che doveva metterlo in buona luce in una trappola da cui non uscirà vivo.
L’amara verità però è che nemmeno Caruso poteva essere giudicato come direttamente colpevole dell’eccidio delle Ardeatine. Se come questore di Roma aveva occupato una posizione ben più vicina ai decisori tedeschi, egli si era speso, a quanto pare, per ridurre il numero dei prigionieri da fucilare. Anche qui, l’accertamento giuridico di responsabilità è importante, ma passa in secondo piano davanti alle motivazioni che guidavano la folla e che hanno pesantemente condizionato l’operato della magistratura. La principale colpa dell’ex-questore era politica e consisteva nella sua convinta adesione al fascismo. Il ruolo svolto di anello elevato di trasmissione degli ordini tedeschi e di “fascistissimo” lo rendevano quindi un obiettivo da abbattere in modo esemplare, in particolare per il Partito Comunista (dal quale, fra parentesi, era nato l’attentato di via Rasella che aveva provocato la barbara rappresaglia delle Ardeatine).
Qui abbiamo un altro aspetto strettamente collegato a quello giudiziario ma ancor più importante in quanto concerne il momento organizzativo e decisionale più alto di una collettività, l’aspetto politico, che è stato usato difatti come chiave di lettura dell’intera vicenda (Ranzetta 1997), e certo non a torto. Peccato che la distinzione tra violenza politica e violenza comune a cui si appiglia lo storico, esaminata da vicino, non tenga. Quasi tutte le forze politiche in gioco, anche se a cominciare erano stati i regimi totalitari, ricorrevano alla medesima logica: utilizzare, manovrare, suscitare la violenza delle masse ai loro fini ideologici, bellici, propagandistici. Tutto ciò sottolinea come l’arte politica spesso e volentieri consista nell’utilizzare e orientare la violenza collettiva e non ne sia quindi la spiegazione, né possa rappresentarne la giustificazione, giacché questo stesso utilizzo dimostra vicinanza e complicità. Tant’è vero che, in noi che riflettiamo sugli avvenimenti, viene a formarsi una reazione di condanna di queste cieche violenze, che può tradursi a sua volta anche in forme politiche, ma che non vi si può in alcun modo ridurre, poiché si tratta di una risposta morale e insieme conoscitiva. Non v’è dubbio che accorgersi dell’innocenza di Carretta sia un’acquisizione di conoscenza indistinguibile dal suo significato morale, una consapevolezza alla quale, una volta raggiunta, non possiamo e non vogliamo rinunciare. Lascio aperta la questione di quale possa essere il significato “anche” politico di una reazione siffatta. Ora dobbiamo soffermarci sulle implicazioni conoscitive racchiuse nel linciaggio del 18 settembre 1944.
Finora non ho usato una sola volta il nome di René Girard, non tanto perché non si è mai occupato dei drammi della storia italiana del Novecento, quanto perché, com’è lui stesso a dire, i fenomeni di violenza collettiva e di linciaggio sono universali e non rispondono a etichette autoriali. Anzi, egli aggiunge che noi dobbiamo la loro conoscenza a un’unica fonte, le scritture bibliche, e segnatamente evangeliche, che toccano il culmine della loro rivelazione nel far conoscere agli uomini le dinamiche atroci della violenza collettiva contro vittime inermi. È la situazione, ricorrente nella Bibbia ebraica, del giusto o del profeta perseguitato; ed è la rivelazione suprema dei quattro vangeli, tutti culminanti nel resoconto della Passione di Cristo, in cui è lo stesso Figlio di Dio a diventare vittima innocente della folla, e delle autorità che la guidano, venendone in ultima analisi guidate.
Non c’è infatti differenza alcuna tra il corpo esposto del Crocifisso e il cadavere appeso a testa in giù di Carretta: secondo la tradizione cristiana, a molti secoli di distanza, ma in un luogo vicinissimo al teatro del linciaggio del 1944, il principale discepolo di Gesù di Nazaret sarebbe stato appeso a una croce anche lui a testa in giù. Che sia un particolare storico o una pia leggenda, vi è in tale racconto una verità che trascende i dati documentali: anche qualora fosse stato inventato, il dettaglio sarebbe stato aggiunto da gente che aveva visto in altre occasioni anonimi condannati crocifissi a testa in giù in qualche circo o anfiteatro, per i ludi circenses e/o i pogrom di tanto in tanto organizzati dall’imperatore di turno (anche nell’intento, com’è per Nerone, di non fare lui quella fine).
La constatazione della nascosta e indelebile centralità della vittima e della natura assoluta della sua verità è il cuore pulsante del pensiero di Girard, dal quale partire e a cui sempre tornare se ci si vuole fare un’idea adeguata del suo contributo. Questo studioso è però noto anche per aver fornito una spiegazione dei fenomeni di violenza collettiva, di cui tuttavia non è il caso di parlare in questa sede. Non già perché l’eterno refrain dei suoi scritti, sul desiderio mimetico che si fa rivalità e che si estende a un’intera collettività divenendo valanga imitativa contro la vittima, sia privo di senso: lo schema indubbiamente coglie una parte di vero ma, appunto, rimane uno schema, e non è la spiegazione universale della quale appagarsi. Lo schema comportamentistico di cui si accontenta Girard è piuttosto la formulazione del problema, e dovrebbe segnare l’inizio della riflessione, non la sua conclusione. E il rinnovarsi delle persecuzioni di capri espiatorii lungo la storia è il sintomo ricorsivo di un venir meno delle condizioni fisiologiche della vita culturale e sociale, legate al funzionamento di quelle istituzioni collettive invisibili che io denomino mediazioni e che sole permettono agli uomini le loro realizzazioni oggettuali, cioè legate alla realtà intesa come fonte di significato (Fornari 2012 e 2014). Il prevalere cieco dell’imitazione dunque è reale, ma è appunto un ritorno a un’indifferenziazione collettiva che in primo luogo attesta una regressione, anche se una regressione rivelatrice della più lontana preistoria e della “infra-storia” (cioè della storia non riconosciuta) dell’umanità. Girard ha ragione a insistere sul valore rivelatore di tali episodi, ma lo fa nel suo stile, ovvero semplificando e abbattendo tutto ciò che non vede, con il risultato che lo stesso successo della sua semplificazione è diventato l’ostacolo più grave a riprendere dei seri ragionamenti su quanto da lui evidenziato.
Capiamo il valore delle semplificazioni di questo autore, e insieme la necessità di utilizzarle come punto di partenza problematico per il pensiero e non come punto di arrivo, se ci soffermiamo su un dettaglio rivelatore del linciaggio di Carretta, la cui importanza non è stata affatto compresa nei tentativi di inquadrare storicamente e razionalmente ciò che è accaduto. Lo spunto invece per notare il dettaglio ci viene dalla nozione girardiana di segno vittimario, una qualunque particolarità della vittima che catalizza l’attenzione della folla, determinando il fato di chi è ne il portatore. Sovente si tratta di un difetto fisico, ma può trattarsi di un qualunque altro “segno” di distinzione o addirittura, come in questo caso, di una somiglianza fonetica.
Il dettaglio rivelatore è dato infatti dalla somiglianza dei cognomi di Carretta e Caruso: per la precisione si tratta della prima sillaba del cognome di Carretta, sventuratamente identica alle prime tre lettere del cognome di Caruso. Le fonti sul linciaggio parlano spesso di uno scambio di persone, ma non si tratta di questo, poiché Carretta viene identificato subito come l’ex-direttore di Regina Coeli. Lo scambio può essere intervenuto dopo, nel parossismo del linciaggio, ma non è certo questa la scintilla che lo fa cominciare, e non tralasciamo i bagnanti che danno il colpo di grazia alla vittima senza sapere neanche chi fosse, se Caruso o Carretta. La razionalizzazione dello scambio di persone non funziona e l’oltraggio del cadavere appeso a una finestra di Regina Coeli mostra che almeno una parte dell’orda assassina non aveva affatto dimenticato chi era l’assassinato. Come spiegare allora questa identità che conta e non conta, oscillando come una scure che si abbatte da ultimo sul condannato chiunque egli fosse? Esattamente “chi” la folla ha voluto martoriare, affogare, annientare nella sua stessa persona?
Sicuramente il ruolo di ex-direttore di Regina Coeli ha svolto la funzione di primo “attrattore vittimario”, mettendo Carretta nella posizione pericolosa del Capo, della persona più in vista, ma l’azione di massa non è stata scatenata da una ritorsione intenzionale dovuta alla carica, che Carretta aveva esercitato umanamente, e anzi aiutando alcuni capi della Resistenza. Dev’essere invece intervenuto un meccanismo più elementare, che ha fatto scattare l’associazione col processo a Caruso pur senza cancellare del tutto l’identità di Carretta ed è appunto la sovrapposizione onomastica Caruso/Carretta a fornirci la spiegazione. È la somiglianza dei due cognomi, la loro identità di iniziali, ad aver dato l’innesco alla furia collettiva, facilitata dalla contiguità della vittima rispetto a quanto accaduto nella sua posizione di direttore del carcere più importante di Roma. Ai più grandi scrittori il fenomeno non è sconosciuto e la circostanza è di tale interesse che vale la pena di illustrarla con due casi di vera e propria, e non meno tragica, omonimia.
Il primo è tratto dal Giulio Cesare di Shakespeare ed è un episodio parentetico quanto illuminante, che non sfugge all’attenzione di Girard nel suo libro dedicato al drammaturgo inglese (Girard 1991, p. 195). La plebe romana è appena stata accesa dall’abilissimo discorso di Antonio sul corpo di Cesare massacrato nella congiura delle idi di marzo e si lancia all’inseguimento dei congiurati. Lungo la sua strada si imbatte in un uomo di nome Cinna, che di professione fa il letterato e ha la sfortuna di essere omonimo di uno dei cesaricidi. La folla gli chiede il suo nome e appena lo sente si accinge a farsi giustizia, al che il poveretto protesta di non essere l’uomo che cercano, appigliandosi a una distinzione anagrafica che di colpo risuona vana, patetica: «Sono Cinna il poeta! Sono Cinna il poeta!». La risposta sarcastica della marmaglia, in cui si può avvertire anche l’autoironia dell’autore, è: «Fatelo a pezzi per i suoi pessimi versi! Fatelo a pezzi per i suoi pessimi versi!». In pochi attimi l’uomo è fatto a pezzi.
L’altro esempio viene dalle Storie fiorentine di Guicciardini (autore ovviamente ignorato da Girard), e parla di una situazione analoga, la repressione della congiura dei Pazzi nel 1478, che dà la stura a una terribile serie di violenze collettive (Fornari 2012, pp. 537-38). Uno dei partecipanti alla congiura è l’arcivescovo di Pisa Francesco Salviati, che viene subito impiccato, ma stesso destino subisce un suo omonimo che si trovava con lui:

fu impiccato un altro Iacopo Salviati, el quale era stato più anni inimico dello arcivescovo, e di poi riconciliatosi, non sapendo nulla, per la sua mala sorte l’aveva la mattina accompagnato in palagio; furono impiccati tutti quegli perugini ed armati erano seco, ed in tanta confusione e furore alcuni etiam innocenti (Guicciardini 1998, p. 124).

La ricostruzione esatta degli avvenimenti è complicata dall’esistenza di più versioni (in Machiavelli questo secondo Salviati risulta essere un parente) e dalla possibilità che Guicciardini abbia inserito qualche tocco personale, vòlto a sottolineare l’influsso del caso sulla vita individuale e collettiva degli uomini, ma questo nulla toglie al significato essenziale dell’episodio: fosse conoscente o parente, il secondo Salviati viene impiccato solo perché portava lo stesso cognome del primo. Il dettaglio della riconciliazione appena avvenuta tra i due Salviati aggiunge un tocco di tetra ironia che non potrebbe essere più guicciardiniano. Gli uomini fanno i loro piccoli conti personali, e per giunta ci mettono di tanto in tanto anche della buona volontà, ma vengono travolti come fuscelli dall’onda dai fenomeni paurosi della collettività e della storia, di cui il linciaggio cieco di molte decine di persone, molte delle quali «etiam innocenti», è la conseguenza diretta.
In tutti e tre questi eventi assistiamo a uno stesso segnale, ossia non solo al venir meno di ciò che contraddistingue l’essere umano, la capacità di ricorrere a un linguaggio complesso per comunicare con i suoi simili, ma anche all’eclissi del significato identitario dei nomi propri, indispensabili a distinguere le persone e ciò che hanno fatto o non fatto. Capiamo che la scomparsa di questo “grado zero” dell’identità umana non si limita a essere il risultato dell’indifferenziazione mimetica di cui parla Girard, ma è la degenerazione di uno strumento culturale e sociale insostituibile che subito dopo ritorna e, in alcuni casi, diviene parola che descrive e riscatta l’orrore, come hanno fatto Guicciardini e Shakespeare, come ha fatto Girard, e come hanno fatto quei pochi che hanno capito cosa sia successo nel massacro di Donato Carretta.
I tre episodi che ho narrato sono lontani tra loro per epoca e mentalità, eppure rispondono a una stessa identica legge, arcaica e universale, quella della violenza collettiva, della furia cieca che si sfoga contro qualcuno, annullando ogni libertà dell’individuo e ogni suo nome razionalmente accertabile, di conseguenza anche ogni nozione morale e finanche politica, ridotta a strumento e pretesto. Girard è stato l’autore che come pochi altri ha ricordato che il linciaggio non è mai un episodio sfortunato e di cronaca, ma l’affiorare di una forza primordiale da cui l’uomo proviene e alla quale non può mai sottrarsi del tutto. Ed è stato l’autore che, con ostinazione, ha rammentato come sia la denuncia della furia collettiva che produce vittime il vero genio dell’ebraismo e del cristianesimo. Non vi è motivazione religiosa politica ideologica che giustifichi il sangue innocente di chi viene colpito dalla cieca violenza di una folla omicida, indipendentemente dalle sue responsabilità vere o presunte. Per Girard questa verità è più forte di qualunque propaganda, di qualunque menzogna. È la croce di Cristo, l’annientamento del Figlio di Dio che riduce al nulla le cose che sono e le giudica testimoniando in silenzio della verità della vittima, di chi è schiacciato dalla violenza di Satana l’accusatore.
Il cristianesimo di Girard è elementare e assoluto. Dice tutto in poche parole. Non è una supposta verità inventata dall’uomo, perché è questa verità ad aver inventato l’uomo. Senonché l’uomo, per Girard, non è figlio della verità, ma della menzogna, ed è la verità massacrata sistematicamente dagli esseri umani l’unica testimonianza negativa della presenza di Dio. Una contrapposizione estremamente dura, che suona come un teorema assiomatico, come una condanna a priori, che perde il contatto con la realtà umana da cui era partita. Sulla base di un’intuizione semplice e potente, Girard ha avuto la debolezza di voler costruire a ogni costo una teoria da asseverare e da imporre, ed è l’aspetto passeggero e caduco della sua produzione. Tutto questo parlare di imitazione e di desiderio non si è rivelato meno effimero di tante mode intellettuali e “scientifiche” ormai coperte dalla polvere e i corollari che l’autore ne ha tratto lasciano insoddisfatti per mancanza di obiettività, di elasticità mentale, di generosità in definitiva. Girard si mette in competizione con tutto e con tutti e si trasforma nell’esemplificazione irriflessa dei propri assiomi. Né si sofferma un istante sull’evidente significato di regressione che tali episodi esprimono all’interno di contesti culturali complessi, che avrebbero le risorse per intervenire e sedare queste insorgenze, qualora le circostanze lo consentissero.
Ciò nonostante resta quest’unico contributo a conferirgli un ruolo significativo nella cultura del nostro tempo e non è poco: l’aver fatto capire quale sia la sola cosa che conti, l’unica verità che abbia significato e che rimanga nelle nostre vite di esseri umani. E quale sia l’insegnamento di chi ha potuto dire: «Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno». Il che mi spinge a due ultime osservazioni, sempre partendo dal massacro di Donato Carretta, morto per una sovrapposizione fonetica trasformatasi in croce.
La prima riguarda l’effettivo tenore del messaggio cristiano. Siamo nella città dei papi, in cui il pontefice Pio XII è rimasto l’unica voce morale di un intero Paese e dove, allora molto più di oggi, una parte consistente degli abitanti, quando non apparteneva al clero, con esso aveva a che fare. Eppure, nella vicenda c’è una sola persona che si comporti in modo riconoscibilmente cristiano, e non si trova certamente tra i feroci astanti o i bagnanti linciatori volonterosi e nello stesso tempo distratti, che non si peritano di uccidere un poveretto di cui non sapevano nulla. Verosimiglianza vuole che tra costoro non pochi fossero pacifici padri o madri di famiglia pronti ad andare a messa o ad ascoltare le benedizioni papali, il che non impedisce che l’unico che faccia intravedere un barlume evangelico di umanità sia il tranviere comunista che si rifiuta di prestarsi all’orrendo massacro, per giunta sottraendo lo strumento con cui altri avrebbero potuto condurre a buon fine lo scempio. Non è il tipo di “santo” che ai credenti perbene verrebbe voglia di ricordare o pregare, tanto meno allora, in anni che sarebbero rapidamente sfociati nella Chiesa anticomunista del 1948 e della Guerra Fredda. Ma la semplice verità è che, in quel momento, l’ignaro e onesto tranviere con tessera del P.C.I. mette nel sacco e manda all’inferno delle buone intenzioni tutta la capitale del cattolicesimo, tutti i suoi monsignori e credenti, tutti gli edificatori e gli edificati che ignorano quale sia la verità del crocifisso e sarebbero magari pronti a insultarlo lapidarlo metterlo in croce se solo potessero mettergli le mani addosso, sovrapponendogli magari qualche altra sillaba. Davanti alla verità del linciaggio non c’è tonaca o acquasantiera che tenga. Anche questi simboli religiosi sono ridotti al nulla delle cose che sono, e questo sia detto non per disprezzo verso la storia che ci sta dietro, ma perché sono le sue apparenze a non avere valore allorché vengono meno alle ragioni vere da cui sono sorte.
L’altro punto riguarda la politica, a cui bisogna pure rendere omaggio considerata la sede in cui è pubblicata questa riflessione e che c’entra in pieno, considerando lo sfondo e le motivazioni politiche e giudiziarie del linciaggio dell’uomo vittima della prima sillaba del proprio cognome. E, a questo proposito, è chiaro che a un autore che condannava l’intera civiltà classica, rea ai suoi occhi di essere sacrificale e di non esser cristiana (un’autentica follia culturale che finisce per togliere la terra di sotto ai piedi allo stesso cristianesimo), e pronto a condannare tutto ciò che è storico e umano, la politica non poteva che apparire come la somma delle nequizie universali, la copertura satanica dei poteri di questo mondo. L’ultimo Girard lo ha ripetuto fino a raggiungere toni apocalittici (Girard 2008), esibendo più che mai la sua unilateralità impietosa di polemista, benché i giochi di potere della storia contemporanea non si mostrino precisamente i più idonei a dargli smentita.
Eppure, il nulla a cui il cristianesimo eterno riduce le cose che sono non è il nulla ingeneroso e meschino delle distruzioni e delle polemiche umane. È piuttosto il nulla del rovesciamento, che fa apparire vero ciò che pensavamo essere falso e falso ciò che pensavamo essere vero. Giacché la verità non è una dottrina, è un’esperienza, e l’esperienza si vive allorquando è testimone a se stessa e si rinnova perché a rinnovarsi è la vita.
Non c’è dubbio che una politica inferocita e un apparato giudiziario asservito e poco meno complice siano stati in parte le cause e gli strumenti del linciaggio di Carretta. E c’è un altro episodio che vorrei ricordare, e che è il più atroce linciaggio post mortem della storia dell’Italia moderna, il ludibrio di massa del cadavere di Mussolini, di Clara Petacci e di alcuni gerarchi fascisti a Piazzale Loreto a Milano. Qui mancano sovrapposizioni onomastiche, ma c’è in compenso quella topografica, dato che il luogo è stato scelto per vendicare l’esecuzione a Piazzale Loreto di alcuni partigiani. E anche qui, come a Roma nel 1944, abbiamo un incrudelimento sul corpo del Duce e degli altri gerarchi, e sul corpo di una donna la cui unica colpa in definitiva era stata di aver amato il suo uomo e di non averlo voluto abbandonare nell’ora angosciosa della resa e della disfatta. Un gesto d’amore che non mi risulta abbia mai particolarmente intenerito gli infiniti storici e scrittori che si sono occupati della fine di Mussolini, fantasticando sull’oro di Dongo e sulle circostanze della fucilazione, e dimenticando che non da queste cose deriva il significato umano e morale, e in definitiva anche storico, di quanto accaduto. Consiglio a chi non l’avesse già fatto di documentarsi sulle testimonianze di chi era stato presente, in particolare quelle sugli inclassificabili versi della folla scatenata, che si potevano udire anche a grande distanza. Una di quelle retrocessioni lungo la scala evolutiva che poi fanno pensare, a catastrofe bellica ormai conclusa, che sia tornata la civiltà, in attesa della prossima volta.
Viene da chiedersi un’ultima cosa, davanti a orrori che lasciano costernati e impotenti. Se sviluppare nella propria testa e soprattutto nella propria coscienza questi interrogativi e queste perplessità, diciamo pure questa ribellione rassegnata eppure non sottomessa, sia una mera protesta etica e religiosa, o non possa diventare anche coscienza politica, consapevolezza giuridica, capacità di ripensare, schmittianamente, il Politico andando al di là di esso e riuscendo appunto per questo, in un modo o nell’altro, a tornarvi (questo è il senso della mia riflessione in Fornari 2014). A quanti politici, a quanti magistrati, a quanti semplici cittadini dell’Italietta martoriata e corrotta del XXI secolo non servirebbe una riflessione del genere? Perché una sovrapposizione fatale di sillabe, di nomi, di luoghi, dovrebbe essere “politica” (e di quale polis?) finché è usata per fare a pezzi chi è innocente – nell’antico senso etimologico e barbaro di essere in-nocens, non più in grado di nuocere –, e cessare istantaneamente di esserlo allorché si rifiuta questa cieca violenza?


Bibliografia

A. Di Serio (1979), La folla. Il linciaggio di Donato Carretta, direttore delle carceri «Regina Coeli» di Roma, Lo Faro Editore, Roma s.d.
G. Fornari, (2014), Catastrofi della politica. Dopo Carl Schmitt, Gangemi, Roma. - (2012), Mediazione, magia, desiderio in Leonardo e nel Rinascimento, CB Edizioni, Poggio a Caiano.
A. Manzoni (1845), I promessi sposi, Redaelli, Milano.
R. Girard (2008), Portando Clausewitz all’estremo. Conversazione con Benoît Chantre, a cura di G. Fornari, Adelphi, Milano.
- (1991), A Theater of Envy: William Shakespeare, Oxford University Press, Oxford.
F. Guicciardini (1998), Istorie fiorentine, a cura di A. Montevecchi, Rizzoli, Milano.
G. Ranzetta (1997), Il linciaggio di Carretta. Roma 1944 – Violenza politica e e ordinaria violenza, Il Saggiatore, Roma.



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