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La dimensione politica del sacrificio in René Girard

GIANFRANCO MORMINO
Articolo pubblicato nella sezione Girard, filosofia e politica

Girard non ha mai creduto alla definizione aristotelica dell’uomo come animale politico. La sua antropologia non prevede facili armonie né tendenze innate che portino naturalmente alla cooperazione; al contrario, il sovrappiù di mimetismo che caratterizza l’uomo rispetto alle altre specie è per lui un’arma a doppio taglio che, se da un lato permette lo sviluppo di raffinate abilità, dall'altro espone al rischio della perdita di ogni capacità di padroneggiare gli eventi, di precipitare in un caos di violenza. Pur divenendo sempre più abile nel fronteggiare i pericoli naturali, l'umanità resta impotente di fronte a quelli che essa stessa si forgia, vivendo in una costante situazione di precarietà autoindotta. In questo Girard è in linea con le critiche che già Hobbes muoveva alla costruzione politica aristotelica, dettate da una concezione dell'uomo che non lasciava spazio all'illusione di un ordine inscritto nella natura. La costituzione psicologica dell'uomo produce in lui il desiderio di appropriarsi con ogni mezzo di ciò che gli altri posseggono e la paura della morte non lo conduce necessariamente a cercare la pace ma, più spesso, a sperare in una vittoria sugli altri che, quand'anche venisse ottenuta, non lo porrebbe affatto al riparo da nuove minacce (Hobbes 2001, p. 87). Quanto Hobbes ascrive a taluni animali, ossia una costante concordia, è per noi un dettame della ragione che possiamo sì formulare e comprendere ma ben difficilmente seguire. Gli stessi mezzi che escogitiamo per soddisfare i bisogni e combattere questa perpetua guerra, così superiori a quelli degli altri animali, possono fornirci solo vantaggi di breve durata, poiché possono essere usati altrettanto efficacemente contro di noi dagli altri. Non esiste, dunque, un freno spontaneo alla competizione intraspecifica né sarebbe vantaggioso, per un singolo individuo, avere una disposizione "naturale" alla pace, dal momento che essa potrebbe funzionare solo se tutti ne fossero egualmente provvisti e accettassero di attuarla contemporaneamente.
La sopravvivenza, ragiona Hobbes, è dunque possibile solo grazie a un artificio, che egli ritiene di poter individuare sia con una corretta metodologia di indagine sia grazie all'osservazione dei grandi e duraturi imperi dei quali ci racconta la storia. I Romani, capaci di reggersi e di prosperare per un periodo lunghissimo, si affidavano a un'autorità indivisa e irresistibile, sancita da una legge alla quale veniva conferito supremo valore morale e religioso. Per Hobbes tale soluzione non ha nulla di naturale: al contrario, essa si può considerare un'eccezione fortunata, che non tutte le società seppero trovare e alla quale l'uomo è sì spinto dalla ragione ma che, per divenire efficace, necessita di una profonda opera di costruzione pedagogica e culturale - «L'uomo è reso atto alla società non dalla natura ma dall'educazione» (ivi, p. 82) - e, soprattutto, di coercizione. La soglia dell'edificazione di una società ordinata, per Hobbes, coincide con quella del passaggio dalla natura alla cultura; in tale prospettiva egli individua ciò che è unicamente umano non tanto nella razionalità quanto nel linguaggio, facoltà che, se da un lato acuisce la possibilità di scontri, dall'altro è requisito necessario per stringere patti e, dunque, per fondare il diritto e il torto (Hobbes 2004, p. 29). Proprio la mancanza della parola, secondo Hobbes, rende impossibile agli altri animali superare la dimensione della pura naturalità, relegandoli in un mondo senza morale, senza politica e senza giustizia, nel quale la cooperazione e la pace, certamente non sempre presenti, derivano da semplici istinti.
Su alcuni degli assunti precedenti Girard è perfettamente d'accordo: la dotazione naturale dell'essere umano non è sufficiente alla costruzione di una vita sicura. È necessario qualcosa in più, che costituisce lo specifico dell'animale-uomo. Gli altri animali, ritiene Girard, hanno forme istintuali di pacificazione, ad esempio i dominance patterns, che raffreddano le rivalità e consentono una coesistenza tollerabilmente ordinata (Girard 1983, p. 118). L'apocalisse è prerogativa umana, in quanto noi siamo l'unica specie capace allo stesso tempo di far sorgere conflitti estremi e di realizzare i mezzi tecnici che possono condurre alla distruzione globale. Il pessimismo antropologico girardiano è senz'altro nutrito anche dall'idea del peccato originale ma deve la sua radicalità soprattutto alla constatazione che la più ricca e potente società mai esistita, cioè quella successiva al 1945, è allo stesso tempo la prima minacciata da vicino dal pericolo della distruzione nucleare e di quella ambientale. A queste minacce l’uomo non è esposto per causa delle forze naturali, bensì della propria costituzione psicologica, ossia della tendenza ipermimetica. È dunque chiaro che, come Hobbes, Girard abbia cercato la spiegazione della sopravvivenza della specie umana, a prima vista assai implausibile, nella dimensione della cultura, la cui insorgenza dalla sfera della pura naturalità richiedeva di essere indagata in modo interamente nuovo. La sua risposta consiste nella teoria del sacrificio fondatore, da intendersi come soluzione trovata, non cercata, e perpetuatasi solo in ragione del vantaggio che ha offerto ai gruppi umani in essa casualmente imbattutisi (Girard 2004, p. 127).

A differenza di Hobbes e delle grandi correnti di pensiero della prima modernità, Girard non ritiene che l’uomo sia pervenuto alla soluzione del problema politico in modo cosciente e deliberato. L’idea del contratto sociale gli è sempre sembrata una delle più grandi mistificazioni della filosofia, in quanto presuppone un dominio della razionalità sul mimetismo che è assolutamente smentito dai fatti (Girard 1998, pp. 364-365). Se dunque la premessa antropologica è compatibile con il pensiero hobbesiano, diversa è la soluzione. L'evento che pone fine alla catena delle vendette e delle rivalità, ossia il linciaggio originario, è il primo passo, necessario ma non sufficiente; se le società non imparassero a mettere in atto un meccanismo che lo stabilizzi, non sarebbero in grado di sopravvivere. È solo con la ripetizione rituale del linciaggio, ossia con la sua messa in scena, che il meccanismo si mette veramente in moto. Il sacrificio, con il quale nasce la religione, è anche il primo momento della vita politica, perché è l’unica arma non solo in grado di stroncare le rivalità, ma anche capace di prevenirne il risorgere grazie a riti meticolosamente studiati, ripetentisi a intervalli regolari e quindi capaci di impedire che si arrivi al punto di non ritorno, quello in cui l'ordine sociale si azzera.
Il primo momento politico e il primo momento religioso, dunque, coincidono; nell’intendere il rito sacrificale come la prima manifestazione di un’azione politica, Girard ne dà una lettura integralmente sociologica. A differenza di altri teorici egli ritiene che il sacrificio sia la soluzione a un problema collettivo: a caratterizzarlo, oltre alla violenza, è l'unanimità. La lettura girardiana del sacrificio è fortemente debitrice dell’impostazione durkheimiana, innegabile nella costruzione de La violenza e il sacro (Girard 2008, pp. 55-56). L’interpretazione sociologica inserisce il sacrificio in una dimensione che non è quella della coscienza individuale; esso deve perciò essere distinto da altre forme di ritualità che pure sembrano avere con esso alcuni tratti in comune: si pensi ad esempio alle pratiche magiche, anch'esse impregnate di elementi violenti ma non unanimi, o alle molteplici forme di sacrificio privato attestate in abbondanza già nel mondo classico. Anche qui Girard sembra seguire le orme di Durkheim, il quale aveva distinto in modo netto la religione dalle operazioni magiche e dalle pratiche rituali domestiche, o addirittura individuali, proprio in ragione del necessario coinvolgimento, nella prima, dell'intera collettività (Durkheim 2005, pp. 92 e sgg.).
Torneremo a breve sulla questione della teoria del sacrificio; è però prima necessario sottolineare, quale grande pregio del discorso girardiano, l'aver mostrato quanto la pratica politica, lungi dall'essere naturale concorso degli uomini verso un bene comune, sia piuttosto intrisa di esclusione e di violenza. Le società sono fondate sulla radicale eliminazione della vittima, costituendosi sia teoricamente sia letteralmente intorno al luogo dove un individuo è stato assassinato. il sepolcro della prima vittima (Mormino 2013). Se la teoria politica aristotelica tenta di occultare la natura cruenta della polis, costruita sull'esclusione di chi è sacrificabile (schiavi, donne, barbari) in ragione della sua inferiorità naturale, essa emerge senza ipocrisie nel pensiero girardiano, che evidenzia la dimensione arbitraria del sacrificio fondante l'edificio sociale. Quanto le filosofie politiche di matrice aristotelica ascrivono alla natura, considerata come una norma della quale non si può che prendere atto, per Girard è il frutto di un casuale e temporaneo rapporto di forze che non ha alcun valore ontologico né, tanto meno, morale. La distruzione della teoria dellʼinnata socialità umana (con il suo corollario della naturale esclusione degli individui inferiori), arriva nel pensatore francese alle sue estreme conseguenze, mostrando l'aleatorietà dell'ordine sociale e delle persecuzioni alle quali dà inevitabilmente luogo. Se la soluzione del problema politico è in Girard solo accennata, la diagnosi del male è assai acuta e certamente non esente dall'influenza di quei pensatori moderni, quali Machiavelli, Hobbes e Spinoza, che per primi infransero il dominio del naturalismo aristotelico.
Ma torniamo al problema del sacrificio: uno dei grandi meriti di René Girard consiste nel coraggio con cui ha rilanciato la possibilità di confrontarsi con il problema dell'origine del sacro, che l'antropologia strutturalista aveva dichiarato ormai privo di senso; nell'intraprendere quest'impresa, che lo porta al cuore del problema politico, egli si avvale anche di schemi esplicativi evoluzionistici (Girard 2003, passim), purtroppo poco frequentati da altri teorici, con l'eccezione di Burkert (Burkert 2003). Se l'origine del sacro risiede nell'uccisione collettiva di una vittima, è necessario comprendere quali vantaggi tale azione abbia potuto fornire ai gruppi umani che la praticavano. Pur nelle sua totale estraneità all'idea del do ut des (Tylor 2016), la teoria del sacrificio di René Girard ne afferma la natura tecnica, ossia di mezzo per risolvere una situazione di crisi, e ha il pregio di spiegarne l'efficacia, testimoniata dalla sua ampia diffusione nel tempo e nello spazio. Il mutamento di paradigma girardiano rispetto alle spiegazioni precedenti consiste infatti nel presentare il sacrificio come la ripetizione di un'azione che ha funzionato veramente. Ma come può un atto violento assolvere il compito di arrestare la violenza? La risposta consiste nell'affermare che l'unanimità prodotta dall'aggressione riunisce le coscienze intorno a un obiettivo comune, riconciliando i sacrificatori attorno al cadavere del presunto nemico pubblico (Girard 1980). Non diversamente, Durkheim aveva mostrato il valore di collante sociale che posseggono le punizioni; la riprovazione collettiva che si esprime in una pena inflitta pubblicamente consente alle coscienze turbate da un delitto di riguadagnare la solidarietà reciproca, di dimenticare per qualche tempo le piccole contese quotidiane endemiche in ogni gruppo (Durkheim 1999, pp. 93 sgg.). La violenza diffusa e disorganizzata, così pericolosa per la vita sociale, è sostituita da un atto ordinato, la cui ritualità stabilizza il gruppo e gli restituisce, a spese di uno solo, la preziosissima convivenza pacifica. Come la pena durkheimianamente intesa, il sacrificio girardiano è offerto agli dèi solo nell'illusoria lettura che ne danno gli attori; in realtà esso è offerto dalla comunità intera a se stessa ed è dunque l'atto costitutivo della politica.

La teoria girardiana del sacrificio possiede innegabili capacità esplicative e trova conferme in un'ampia varietà di riti solidamente testimoniati; si può però avanzare il dubbio che essa sia affetta da una certa unilateralità. L'unico problema al quale il sacrificio dà una soluzione è infatti l'aggressività intraspecifica: egli ritiene che la violenza mimetica sia il problema dei gruppi umani, la vera minaccia mortale che si nasconde dietro a ogni situazione di crisi. Egli insiste ad esempio sul fatto che ogni tipo di sciagura naturale, dalla peste alla carestia, si trasformi immediatamente in un problema di ordine sociale, poiché produce una rottura delle fragili norme della convivenza (Girard 1980, pp. 22-23). Interpretare in modo antropico tutti i problemi che si presentano ai gruppi umani sembra però una scelta troppo selettiva; l'ambiente presenta molteplici situazioni di difficoltà nelle quali il pericolo proviene da nemici del tutto diversi. La fecondità del terreno, ad esempio, dipende da fattori che i primi gruppi umani non erano in grado di padroneggiare; la terra non può essere costretta a donarci i suoi frutti. Se seguiamo la logica girardiana, la sterilità dei campi ingenererebbe una situazione di discordia tra i membri del gruppo: si inizia a cercare di appropriarsi delle riserve del vicino, si attribuisce la colpa al "malocchio" gettato da qualche individuo "strano" ecc. Il sacrificio collettivo può probabilmente restituire alla comunità una rinnovata solidarietà, a spese del presunto colpevole dell'infertilità del suolo, ma non è certamente in grado di far spuntare le piante dal terreno.
Il modo in cui Girard spiega l'efficacia del rito è integralmente politico; ma la varietà delle forme rituali documentate fa nascere il sospetto che questa sia solo una parte della spiegazione. Può allora essere utile porre attenzione alle occasioni nelle quali esso veniva praticato. Le testimonianze a riguardo sono esplicite: esso entra in gioco in ogni occasione in cui si presenta un bisogno da soddisfare o si profila un rischio da evitare. La casistica a riguardo è pressoché infinita: esistono sacrifici praticati per scongiurare la morte di una persona cara o per assicurare il buon esito di un matrimonio, per avere parti fausti o per rendere pacifico il mare prima di un viaggio in nave, per costruire un ponte solido o per far tornare un figlio dalla guerra. Il problema politico, sul quale Girard punta tutte le proprie carte, è come minimo affiancato da molti altri, che la sua teoria non spiega in modo convincente. Perché, ad esempio, immolare una donna quando si vuole costruire le mura di un monastero? Perché la malattia di un figlio dovrebbe costituire un pericolo per la comunità intera? È piuttosto ragionevole che il sacrificio è esattamente quello che i sacrificatori di tutti i tempi hanno sempre sostenuto essere: una pratica che favorisce il buon esito di un'impresa, una tecnica di risoluzione di problemi di natura assai varia. Le regole del sacrificio forniscono le istruzioni per ottenere un risultato che, per altra via, non è possibile conseguire o che si teme non possa essere sufficientemente garantito con mezzi diversi (Mormino 2017, passim). Per lunghissimo tempo i nostri progenitori non hanno avuto a disposizione le informazioni necessarie per risolvere i loro problemi in maniera più efficace. La magia, dalla quale il sacrificio non si distingue a mio avviso in modo essenziale, ha avuto e ha tuttora in molteplici culture appunto tale funzione. Si ricorre al mago o al medico per un medesimo problema; la storia della nostra cultura manifesta un continuo affinamento delle tecniche di risoluzione dei problemi. Tuttavia, per capire la logica sacrificale è necessario cogliere i moventi che lo hanno fatto nascere e prosperare, ossia quei bisogni e quelle paure della vita quotidiana da noi oggi a volte soddisfatti in modi più opportuni. Potremmo perciò dire che il sacrificio ha assolto per un lungo periodo una serie di funzioni di ordine pratico che possono essere riassunte in una formula assai semplice: ottenere un beneficio per il quale le conoscenze a nostra disposizione non forniscono soluzioni migliori.
Vi è poi un'altra difficoltà nella lettura unicamente politica del sacrificio: Girard non contempla la possibilità di sacrifici privati, se non postulando che si tratti di forme posteriori, nate quando la pratica pubblica era ormai divenuta così consueta da poter essere ingenuamente applicata "fuori contesto", per pura abitudine. Eppure appare difficile negare che si diano comportamenti sacrificali in situazioni che non hanno né finalità né forma pubblica. La pratica degli ex voto, tuttora così diffusa, si lascia spiegare solo come una forma di ingraziamento, che opera però a livello del singolo, non della collettività; per separarla concettualmente dal sacrificio, è necessario distorcerne il senso, farla scadere al livello di psicopatologia. Lo stesso si può dire, appunto, delle pratiche che sono definite magiche: anch'esse prevedono in moltissimi casi un'offerta e una rinuncia, compiute con modalità precisamente stabilite e accompagnate da manifestazioni di sottomissione. Il procedimento è del tutto analogo a quello che veniva messo in atto in contesti pubblici, quando la prosperità della città veniva affidata alla corretta esecuzione di un'offerta alla divinità comune. Il carattere politico di talune forme di sacrificio è innegabile ma sembra costituire un caso particolare, non la regola generale; se ipotizziamo invece che il sacrificio sia una tecnica di problem-solving, non legata necessariamente alla dimensione politica, molte delle usanze note trovano una spiegazione più convincente.
Un ulteriore indizio dell'unilateralità della tesi girardiana consiste nel fatto che essa vede come intrinsecamente necessaria all'azione sacrificale la violenza. Anche in questo caso, le testimonianze ci dicono qualcosa di differente, a partire dalla più ampia trattazione antica, quella esposta nel secondo libro di Astinenza dagli animali (Porfirio 2005): esistono sacrifici vegetali, sacrifici di oggetti inanimati, semplici rinunce allo svolgimento di un'attività. La pratica di digiunare, di astenersi dal sesso o di rinunciare a una comodità è ben nota: nella lettura girardiana questi fenomeni possono essere spiegati, nuovamente, solo ricorrendo all'idea di una "degenerazione" del sacrificio, di un suo allontanamento dalla forma originaria, che è sempre quella dell'uccisione. Si può invece ipotizzare che la forma cruenta sia solo una delle modalità possibili di soluzione di problemi; il movente universale del rito non è dunque la canalizzazione della violenza, quanto piuttosto la necessità di affrontare qualunque difficoltà per la quale non esistano soluzioni migliori - dunque anche (e probabilmente molto spesso) le rivalità mimetiche. L'uso della preghiera può in questa prospettiva essere letto in continuità con le forme sacrificali: una lunga tradizione attribuisce a questa forma di devozione un carattere del tutto innovativo rispetto alla mentalità arcaica che si esprime nelle immolazioni (Stroumsa 2006). Proprio Girard, in particolare, insiste in tutti i suoi studi sull'epocale differenza costituita dalla rinuncia al sangue introdotta prima da alcune componenti della religiosità ebraica e poi dai Vangeli. Vi sono, però, ottime ragioni per pensare che il passaggio dal sacrificio alla preghiera sia in primo luogo un'innovazione "tecnica", che modifica le azioni consigliate per ingraziarsi la divinità. Anche le modalità del ricorso al rito sembrano confermare che si tratta appunto di una tecnica volta a risolvere un problema nel modo meno oneroso possibile, secondo la logica del do ut des: il pregio e il numero delle vittime, ad esempio, dipendeva dall'entità del favore richiesto. Inoltre, come osserva Eliade, all'inizio la comunità prova ad ingraziarsi entità intermedie, ritenute evidentemente più facili da "convincere", per appellarsi solo alla fine alla più potente di tutte (Eliade 1968, pp. 127-128); alcuni autori hanno già notato come il sacrificio sconfini facilmente nella corruzione (Veyne 2000, p. 15). Difficile interpretare questo semplice fatto, così ben documentato, con la teoria girardiana della ripetizione del linciaggio originario; la dimensione dello scambio è qui in piena evidenza.
Nella sua battaglia contro il pansessualismo freudiano, Girard ricade in un’altra spiegazione monocausale dei fenomeni della vita associata, incentrata sulla violenza mimetica esercitata collettivamente. Egli rifiuta di considerare il sacrificio come conseguenza di una cognizione troppo rudimentale del mondo; al contrario, secondo lui le religioni possiedono un profondo "sapere" della violenza e del mimetismo che le guida verso l'unica soluzione sociologicamente efficace, benché moralmente odiosa, al problema dell'aggressività. Ma l'ignoranza della quale egli accusa gli antichi è quella dell'innocenza delle loro vittime, non quella relativa alle leggi della natura. Nell'ipotesi dell'ingraziamento, il sacrificio dipende proprio dalla scarsità delle conoscenze a disposizione per risolvere i problemi della vita. Prendiamo ad esempio i miti di costruzione diffusi in tutta l'area balcanica e studiati da Eliade. Secondo lo studioso, l'ideologia sottesa al sacrificio consiste nel fatto che «una costruzione (casa, opera tecnica, ma anche spirituale), per resistere al tempo, deve essere animata, deve, cioè, ricevere sia una vita che un'anima. Il 'transfert' dell'anima non è possibile che per mezzo di un sacrificio; in altri termini, per una morte violenta» (Eliade 1975, p. 162). Si potrebbe piuttosto osservare che i sacrifici di costruzione non hanno, come vorrebbe Eliade, una “fonte spirituale” (qualunque cosa ciò voglia significare), ma intendono piuttosto risolvere problemi che una conoscenza appena più precisa della statica avrebbe consentito di affrontare in modo assai più efficace. È vero che il sacrificio non sembra avere grandi probabilità di funzionare: murare viva la moglie del capomastro potrebbe non impedire la caduta delle mura del monastero. E tuttavia, quale altra via poteva essere intrapresa, nell’ignoranza di più efficaci regole dell’architettura? Affermare che il sacrificio come ingraziamento si è affermato perché rispondeva a un'esigenza concreta non significa concluderne che la sua efficacia fosse certa, ma piuttosto che i rari casi di successo, ovviamente del tutto casuali, hanno condotto a ripeterlo in assenza di soluzioni migliori. Si insiste molto sul carattere ripetitivo, quasi ossessivo, delle procedure sacrificali; il confronto tra epoche e aree diverse ci suggerisce invece che le forme del rito sono cambiate in infiniti modi, evidentemente dietro la pressione dell'urgenza di risolvere situazioni di disagio delle quali non si riusciva a venire a capo. L'interpretazione politica del sacrificio proposta da Girard, sottolineandone il carattere di soluzione tecnica a un problema, coglie dunque perfettamente nel segno ma può essere considerata limitante nel suo escludere finalità differenti, legate anche alla necessità di soddisfare bisogni non collettivi e di affrontare problemi non antropici.


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