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Dal mito al dramma: vittima e vendetta alle origini della modernità

MARGHERITA GENIALE
Articolo pubblicato nella sezione Girard, filosofia e politica

Amleto è una tragedia della vendetta e, com’è noto, per la sua stesura Shakespeare trasse ispirazione dall’Edda di Snorri ovvero la saga islandese comune a tutti i popoli dell’area scandinava e nord europea. Più di recente, negli anni ’60 del secolo scorso, essa venne analizzata e comparata con molti altri miti cosmogonici da due sagaci esploratori della mitologia, lo storico della scienza Giorgio de Santillana e la sua allieva, Herta von Dechend. Essi riconobbero in Amlo∂i, «l’originario signore delle età del mondo», l’eroe possessore di una favolosa macina del potere, il prototipo di Amleto, principe usurpato che si decide per la vendetta (de Santillana, von Dechend 2003). Entrambi i personaggi sono millantatori per autodifesa, giacché fingono la follia, ma mentre il primo mette in scena una follia funzionale alla strategia di vendetta, il secondo presenta la scissione, il dramma della personalità perseguitata.
Affrontare il tema di un mito ancestrale nel solco della filosofia politica, presume allora la scelta di cogliere, nell’analisi mitico-allegorica dell’opera d’arte, la relazione fra i fenomeni letterari e le vicende esistenziali e politiche ad essi connesse. Il tentativo di spiegare la relazione fra i fenomeni letterari e gli aspetti mimetici della natura umana persegue infatti l’intento di evidenziare la corrispondenza fra la Bildung estetico-esistenziale dell’uomo moderno e il substrato mitico e magico-religioso che la sottende. La vicenda di Amleto, nel mito come nel dramma, corrisponde a tale formazione, poiché egli è la vittima ancestrale, l’emblema dell’ingenuità resa edotta dal sapere della violenza.
Di particolare interesse critico in questo senso è l’interpretazione storico-letteraria di Frances Yates, in quanto riflette sull’intuizione più geniale del grande drammaturgo inglese: la corrispondenza fra le vicende politiche dell’Europa moderna e il substrato mitico e magico-religioso che le sottende.
Tuttavia il punto di vista della Yates non si orienta sull’ermeneutica del mito fondativo, piuttosto sostiene l’ipotesi che Shakespeare traesse ispirazione poetica dall’atmosfera “fatata” tipica della fantasia rinascimentale nord europea, frutto della filosofia dominante in epoca elisabettiana. Secondo l’interpretazione della studiosa inglese infatti la produzione artistica dell’Inghilterra del tempo fu pervasa di nozioni numerologiche, neoplatoniche e cabbalistiche. Tali nozioni permearono d’esoterismo la cultura elisabettiana e furono determinanti nel sostanziare una «filosofia occulta caratterizzata dalla magia, dalla melanconia, dall’intento di penetrare nelle sfere profonde della conoscenza e dell’esperienza, sia scientifica sia spirituale, e accompagnata dal timore dei pericoli di tale ricerca e dalla fiera opposizione cui essa andava incontro» (Yates 2002, p. 95; Yates 1969). Il periodo della massima espansione della cosiddetta “filosofia occulta” coincise infatti con lo scatenarsi del furore repressivo delle eresie condotto dalla Controriforma.
La critica letteraria lascia dunque intendere che Shakespeare non sia affatto estraneo alla particolare coloritura kitch assunta dall’umanesimo rinascimentale nel periodo elisabettiano. D’altro canto il suo interesse «per l’occulto, popolato di fantasmi, di streghe e di fate» probabilmente non deriva semplicemente da credenze diffuse nella tradizione popolare, piuttosto ha «profonde radici di affinità con la filosofia occulta di tipo dotto e con le sue implicazioni religiose» (Yates 2002, p. 98). I suoi drammi maggiori sono infatti «avvolti nell’atmosfera dell’occulto: Macbeth incontra le streghe, Amleto è ossessionato dal fantasma» (Yates 2002, p. 95). La melanconia del principe di Danimarca sarebbe dunque «melanconia ispirata accompagnata da visioni profetiche» (Yates 2002, p. 98), così come la immaginò nel suo De occulta philosophia il filosofo e mago rinascimentale Enrico Cornelio Agrippa.
Traendo spunto dal trentesimo fra i Problemata physica pseudo-aristotelici, la Yates sottolinea l’importanza di un particolare stadio della melanconia ispirata, detto ratio, descritto da Agrippa come meno geniale e creativo rispetto a quello solitamente attribuito dai teorici del neoplatonismo rinascimentale al furor degli studiosi. Quest’ultimo, rappresentato nella nota incisione della Melancolia I di Dürer, costituisce l’immagine melancolica più nota, dalla quale si evince che il temperamento melanconico del genio prossimo alla follia, tipico dell’inclinazione saturnina dell’eroe-poeta, viene stemperato dal ricorso agli influssi gioviali, attirati numerologicamente dalla presenza del quadrato magico di Giove (Yates 2002, p. 67; Klibansky, Panofsky, Saxl 1964).
D’altronde anche la Melancolia I di Dürer sembra sia stata ispirata dal De occulta philosophia di Agrippa, con le sue classificazioni del’humor melancholicus in tre gradi: imaginatio, ratio e mens. L’opera di Dürer è infatti menzionata dal suo stesso autore come primo grado della melancolia, quello legato agli aspetti immaginifici della creatività e dell’accrescimento delle sensibilità artistiche, fino a comprendere le doti di preveggenza nell’ordine dei fenomeni naturali (Yates 2002, pp. 68-69).
La seconda tipologia melancolica individuata da Agrippa - essenziale in questo lavoro e che si riferisce all’aspetto razionale della melancolia, quello politico – viene invece tratta da una raffigurazione attribuita ad un dipinto del 1558 del pittore e miniatore tedesco Matthias Gerung. Nel dipinto, intitolato Die Melancholie im Garten des Lebens, la connotazione politico-antropologica della melancolia razionale è raffigurata attraverso un vasto paesaggio animato dalle vicende di molte figure umane, variamente affaccendate e come in preda alle proprie passioni. L’immagine è una delle rare testimonianze della pittura profana del Rinascimento tedesco, ricca di allegorie critiche nei confronti dell’amministrazione cattolica della morale pubblica, com’era nello stile satirico luterano e anticlericale del suo autore.
Il paesaggio è strutturato su più piani, che all’osservatore vengono restituiti giocando sulle dimensioni delle figure, in base alla loro distanza dal punto di osservazione. Al centro dell’immagine troneggia come appollaiata una donna alata con la testa lievemente accostata a un drappo trasparente, tenuto con la mano sinistra. Il termine "MELANCOLIA 1558" sul nastro che capeggia sopra di lei ce la indica come inusuale e misteriosa personificazione di una malinconia che prende le sembianze oziose di lascivia e lussuria.
Il paesaggio di contorno rappresenta il “Giardino della Vita”, raffigurato attraverso le azioni di individui impegnati in giochi di intrattenimento, gare sportive e lavoro fisico, con l’intento di rappresentare il “trambusto del mondo” (Lüdke 1988, p. 150). In esso non mancano le manifestazioni del vizio e della stoltezza, rappresentati dai balli contadini, dal gioco dei dadi fra ufficiali, da un concorso ippico fra i nobili, dalle acrobazie di giocolieri e dagli atteggiamenti lascivi di uomini e donne in una casa di piacere.
Ai piedi della “Melancolia” vengono inoltre rappresentati diversi tipi di gara, comunemente in uso durante le festività civili, la gente affamata e le attività svolte nei campi dagli agricoltori, la caccia, la pesca, una gita in slitta, la macellazione del maiale in inverno e il lavoro di miniera. Nondimeno sono visibili in basso le segrete deiezioni di individui che si nascondono in una macchia erbosa. In essa scorre un piccolo ruscello che consente il defluire dei liquami, mentre coloro che si appartano vengono osservati da tronchi spinosi dall’inquietante figura antropomorfa, pervicaci rappresentazioni della pervasività dell’ordinamento sociale, cui non sfuggono di certo gli aspetti più deteriori e intimi dell’esistenza umana.
Nella zona più distante e verso l’orizzonte si distinguono invece gli elementi pubblici e visibili del potere come, per esempio, i due eserciti che si fronteggiano nelle vicinanze di una città, un castello fra le fiamme, la costruzione di una casa a graticcio, passeggiate di uomini e donne a volontà, la processione verso un santuario, un funerale e un’esecuzione. Sul mare si trovano navi in pericolo sotto un cielo nuvoloso e oscuro, squarciato da un enorme fascio di luce prodotto dal sole nascosto, sotto cui si trova l’arcobaleno. Sulla destra notiamo in cielo alcune figure umane, probabili richiami cosmogonici alle personificazioni del Sole, della Luna e di Marte.
Sempre sull’asse centrale su cui si trova la donna, ma in primo piano rispetto all’osservatore, appare un Geometra con in mano il compasso puntato sul disco del mondo. In esso troviamo raffigurato lo stesso paesaggio dell’intero quadro, ma senza i suoi personaggi e su scala più ampia, mirabilmente rappresentato come fosse osservato dall’alto di una prospettiva aerea. L’uomo barbuto e serio è il secondo personaggio principale dell'immagine. Anche lui è un rappresentante esemplare del temperamento malinconico ma nella prima accezione di significato, quella dell’immaginatio creativa, mentre la donna, con la sua inattività, incarna la pigrizia e la lussuria della ratio politica. L'uomo infatti è figura di Saturno, impegnato nella ricerca - in sé e nelle figure che osserva e misura - degli elementi di una più profonda conoscenza del mondo. Secondo un’interpretazione critica i due sono associati nel cielo all’arcobaleno e al fascio di fuoco che sbuca dalle nuvole, in quanto essi mettono in guardia contro la pigrizia e, allo stesso tempo, dirigono i pensieri sulla caducità di tutti gli sforzi e le azioni di persone comunque esposte alle forze della natura, influenzate dai pianeti e soggette alla punizione di Dio (Lüdke 1988).
Tali suggestioni sono rilevanti ai fini della nostra analisi sul significato della melancolia in Amleto, giacché esse suggeriscono una possibile interpretazione dell’ambivalenza dei simboli politici in uso durante l’epoca elisabettiana, presenti nella tragedia della vendetta e visibili - secondo l’interpretazione datane da René Girard - grazie alla compresenza degli effetti teatrali della vittimizzazione e del linguaggio mistificatorio che li cela (Girard 1998). Inoltre esse avvalorano il dato interessante colto dal negromante Agrippa, inerente l’equiparazione della rappresentazione melancolica di Gerung all’umore del principe di Danimarca. La Melancolia II di Gerung per «Agrippa riguardava l’intuizione morale, la melanconia politica del sognatore utopista, profondamente insoddisfatto di come va il mondo» (Yates 2002, p. 178). In effetti gli scorci in cui vengono ritratte le principali occupazioni della popolazione - come le scene di battaglia, gozzoviglie e lussurie - richiamano passi del dramma shakespeariano, ove il protagonista si trastulla osservando renitente il formicolio dell’esercito di Fortebraccio in marcia o biasimando le attività mondane verso cui è pure refrattario, salvo poi mutare il distacco annoiato in indicibile tristezza.
Tuttavia notiamo che il carattere del protagonista del dramma si attaglia bene solo alla seconda fra le figure di spicco nell’immagine, quella del Geometra saturnino, emblema dell’aspetto intimistico dell’umor melancolico, destinato a divenire la vittima prescelta nel contesto da cui si distacca e perciò in relazione di contiguità con la figura utilizzata da Dürer. In questo senso l’immagine dell’uomo barbuto che misura il globo terrestre potrebbe proprio essere «espressione di questo tipo di melanconia morale: mostra il saturnino melanconico nel suo isolamento di studioso in contrasto con le occupazioni insensate degli uomini attivi, le loro assurde guerre, gli stupidi svaghi, i divertimenti volgari. Il quadro di Gerung, inteso in questo senso come Melancolia II, corrisponderebbe nell’universo della melanconia elisabettiana all’umore “scontento”, alla dimensione psicologica di Amleto, all’”umore notturno” con cui il principe di Danimarca guarda alle cupide attività del Giorno» (Yates 2002, p. 178).
Gli aspetti più originali e politici del dipinto si rintracciano invece osservando la figura maggiore. La donna ha la tipica espressione annoiata dai risvolti melancolici deteriori, indulgenti all’uso di erotismo e superbia come strumenti di potere. Girard suggerisce qui quali siano i segni visibili della malattia epocale, riconoscibili nei tratti della concupiscenza che rendono possibile assimilarla a Ofelia, giacché essa tradisce l’immagine dell’eroina pura, ponendosi «al servizio del voyeurismo e dello spionaggio universali, diventando uno strumento docile nelle mani del padre e di Claudio. Lei stessa non sfugge alla malattia dell’epoca. Un altro segno della sua contaminazione è che sia il suo linguaggio sia il suo comportamento sono contaminati dalla strategia erotica di una Cressida e di altre eroine shakespeariane poco raccomandabili» (Girard 1998, p. 456).
Difatti l’Ofelia malincolica del dipinto è ammantata da ricchi panneggi in porpora dorata, il colore rappresentativo tanto della lussuria, quanto della bramosia di potere. La mano posata sulla guancia sinistra dona impronta grottesca all’insieme, poiché ha forma aracnoide e sostiene un drappo velato e avvolgente come tela le membra discinte.
Notiamo che il centro del dipinto si trova sul piedistallo, laddove è posato il piede sinistro della donna assisa. Lì fuoriusce una strana ombreggiatura, somigliante alla sagoma di un insetto o di un geco. Ancora più straordinario però è il medaglione che ella sfoggia sul petto seminudo: esso monta preziose perle barocche incastonate su una cornice d’oro a foggia di rosario ad anello; nondimeno la croce è rivolta a sud e perdipiù la corona ha un centro oscuro e abissale, come fosse un foro nella carne che la magnifica bordura non riesce ad abbellire.
Tale stranezza richiama gli aspetti del numinoso contenuti nel secondo stadio della melanconia descritta da Agrippa, quella relativa al concetto di ratio e alla concentrazione dell’anima nella ragione, «sede dei demoni intermedi: per loro tramite [si] raggiunge la conoscenza delle cose naturali e umane» (Yates 2002, p. 69). La melanconia di Amleto dunque - così come quella della cortigiana del dipinto, dalle ali minute e fragili - non si attesta sui contenuti materiali dell’ispirazione artistica, secondo la raffigurazione della Melancolia I di Dürer, né si leva ad apprendere i segreti delle cose divine, come nel San Girolamo nel suo studio, opera che nell’intento dello stesso autore può essere considerata una sorta di Melancolia III, afferente al concetto di mens nella tripartizione agrippina.
In letteratura l’Amleto di Shakespeare, nell’arte Die Melancholie im Garten des Lebens di Gerung, sono espressioni di una ipotetica Melancolia II, riconducibile all’arte retorica e politica, che opera cambiando il mondo insieme al corso della sua storia. La passione razionale della melancolia politica decide gli «eventi futuri», in quanto secondo Agrippa è preda di «demoni intermedi» in grado di farci conoscere «le cose naturali e umane»; è foriera di intuizioni circa «ciò che si riferisce alla rovina dei regni e al ritorno delle epoche, profetizzando allo stesso modo della Sibilla ai romani...» (Yates 2002, p. 69).
Diversi rimandi politici tralucono nel dipinto di Gerung e si attagliano alla situazione politica dell’Inghilterra durante il regno di Elisabetta I, a cominciare dalle navi che solcano mari sormontati da nubi minacciose e dall’arcobaleno, simbolo del patto di Dio con l’uomo contenuto già nella Scrittura ebraico-cristiana (BdJ Gn 9, 9-17): l’arcobaleno preserva la terra dal diluvio dell’ira divina ma, nel dipinto, sormonta un castello e la sottostante città in costruzione, unificando cielo, terra e mare sotto l’egida di una cosmogonia di pianeti; essi sono evidenti rimandi agli aspetti mitici solari, lunatici e saturnini della melancolia politica abbinata alla sovranità barocca.

È nondimeno noto che la stessa regina Elisabetta in quel periodo venisse paragonata a una divinità lunare, come accade nel The Faerie Queene di John Dee, scienziato, matematico, alchimista e umanista appartenente alla corte della regina Elisabetta I, cui dedicò il poema celebrativo che la ritrae quale regina delle fate, accostandola alla dea Cynthia-Cibele, divinità lunare opposta a quella solare, rappresentativa del potere papale (Yates 2002, pp. 119-137 e passim). La regina è a ben vedere abbozzata nel misterioso medaglione della donna assisa nel “giardino della vita” di Gerung. Nell’oscuro gioiello si può scorgere infatti un quarto di Luna insieme alla sagoma di un busto di donna, Cynthia-Cibele, dea lunare della caccia ed emblema della regina Elisabetta I. D’altronde il panegirico di Dee è incentrato sulle gesta della vergine della Riforma imperiale: ella si contrappone al Sole, il quale rappresenta le forze politiche e religiose europee antagoniste a Elisabetta-Cinzia, paladina inglese in lotta contro il «perfido sole del papato» e dell’aggressione spagnola contro gli ebrei e gli eretici (Yates 2002, p. 180).
La Rinascita umanista parve avere dunque, da un punto di vista artistico letterario, il suo momento di apogeo nel contesto geopolitico inglese di fine ‘500. Sul continente si era invece esaurita la vena creativa che faceva ricorso alla mitologia e si assisteva perlopiù ad un generale interesse per la riscoperta dei testi classici, che produceva però un certo livellamento nella produzione poetica del tempo. Ne è esempio il fiorire dell’aristocratica letteratura di corte, in accordo con il classicismo e con le discussioni in merito all’equilibrio e all’armonia che sostanziarono il regolismo e la successiva elaborazione manierista dell’opera d’arte.
Di controcanto rileviamo i guizzi della fantasia e l’ingegnosa fecondità degli umanisti dediti allo studio delle arti magico-cabalistiche, i quali apparvero però ai loro contemporanei come dei pericolosi sovversivi. Non a caso sottolineiamo la contiguità di pensiero fra il tedesco Enrico Cornelio Agrippa e l’italiano Giordano Bruno, entrambi sostenitori di una filosofia occulta e storicamente “efficace”, intenzionati a coronare le loro fortune proprio nella terra da essi ritenuta maggiormente ricettiva agli apporti sapienziali della magia ermetica. L’ermetismo è il complesso di dottrine mistico-religiose e filosofiche facenti capo ad esponenti della cultura ellenistica, in particolare ad Ermete Trimegisto - autore leggendario appartenente alla cultura pre-classica - il quale elaborò una sorta di sincretismo gnostico tra la filosofia di ispirazione platonica e pitagorica e gli apporti delle procedure magiche egizie (Yates 2002, pp. 48-77; Culianu 2006, pp. 141-264). Le fortune e la disfatta cui i filosofi ermetici andarono incontro ci rendono edotti sui pericoli insiti negli intenti manipolatori di tali discipline, incentivati dall’accondiscendenza elisabettiana alla libertà di immaginazione, in linea di principio sempre accordata agli intellettuali dell’epoca.

Tuttavia l’accostamento del mito politico che sostenne la sovrana inglese - equiparandola a una divinità cosmica, paladina delle prerogative di una cultura anticonformista, folcita di fantasia immaginifica - con la saga che ispirò l’Amleto di Shakespeare, ha qui il senso di evidenziare la ricaduta politica del mito di Amlo∂i, «l’originario signore delle età del mondo». Giorgio de Santillana ed Herta von Dechend partecipano di una scoperta che ha il sapore di un ritrovamento archeologico: «Amleto era circondato da un’aura numinosa, a lui conducevano molti indizi. Fu tuttavia una sorpresa trovare dietro la maschera una potenza cosmica antica che tutto abbracciava: l’originario signore della vagheggiata prima età del mondo.
Eppure, in tutti i suoi aspetti egli è rimasto stranamente se stesso. L’Amlóði originale - tale era il suo nome nella leggenda islandese - manifesta le stesse caratteristiche di malinconia e di elevato intelletto; anch’egli è un figlio votato alla vendetta del padre, un proferitore di enigmatiche ma inevitabili verità, uno sfuggente portatore di Fato che, una volta compiuta la sua missione, deve cedere le armi e ridiscendere nell’occultamento degli abissi del tempo ai quali appartiene: Signore dell’Età dell’Oro, Re nel Passato e nel Futuro» (de Santillana, von Dechend 2003, p. 25).
Rintracciare le similitudini esistenti fra i caratteri dell’eroe scandinavo e del protagonista del dramma inglese significa riconoscere nella melancolia politica l’invariante delle vicende originarie e fondamentali dell’umano stare al mondo. Le antiche cosmogonie ricercarono proprio tali invarianti fra le traiettorie planetarie e la ciclicità dell’apparire e scomparire degli astri nella volta celeste, per stabilire un legame fra cielo e terra che fungesse da criterio ordinatore nella complessità del dramma della vita. Il catasterismo magico-rituale e le vicende narrate nel mito sono dunque le due facce della stessa medaglia, intenta a collegare il vorticare dei corpi celesti e degli eroi dell’antica lotta per il potere ai loro invarianti trascendentali.
Cionondimeno le forze magiche che il secondo grado dell’umore malincolico può evocare e dirigere, uniscono il furor creativo dell’artista - assorto nell’attività di modellare la realtà a propria immagine - alla potenza divina dell’immaginale - l’attività del dotto, la cui volontà si astrae per pensare possibili le cose celesti. Questi due caratteri distinti - raffigurati ora nella Melancolia I, ora nel S. Girolamo nello studio di Dürer - sono racchiusi nel vortice del pensiero della seconda melancolia di Agrippa. Essa ha a sua volta la sua raffigurazione allegorica nel nero medaglione della donna assisa sul subbuglio del mondo in Die Melancholie im Garten des Lebens di Gerung. La Melancolia II dunque, con movimento di risucchio simile a quello del buco nero che la luce ingloba e non lascia rifulgere, occulta in sé, nella ratio della passione politica, i principi di mens e immaginatio delle altre due melancolie, e ha il suo fulcro nel cuore nero, il gorgo di chi langue in attesa di potere ciò che vuole.
Gli stessi de Santillana e von Dechend assimilano tale vortice all’azione del molere, evocatrice di un’attitudine sacrificale, centrale in ogni mito: «nelle rozze e vivide immagini delle popolazioni scandinave Amlóði si distingueva per il possesso di un mulino favoloso dalla cui macina ai suoi tempi uscivano pace e abbondanza. Più tardi, in tempi di decadenza, il mulino macinò sale; ora infine, essendo caduto in fondo al mare macina le rocce e la sabbia creando un vasto gorgo, il Maelstrom («la corrente che macina», dal verbo mala, «macinare»), ritenuto uno delle vie che conducono alla terra dei morti. Questo nucleo di immagini, come rivela una serie di fatti, rappresenta un processo astronomico, lo spostamento secolare del sole attraverso i segni dello zodiaco che determina l’età del mondo, assommanti ciascuna a migliaia di anni. Ogni età porta con sé un’Era del mondo, un Crepuscolo degli Dei: le grandi strutture crollano, vacillano i pilastri che sostenevano la grande fabbrica, diluvi e cataclismi annunziano il plasmarsi di un mondo nuovo» (de Santillana, von Dechend 2003, p. 26). In effetti la macina della saga - azionata magicamente dalle due orchesse Fenja e Moenja, vessate da Amlo∂i - diviene soggetta a malfunzionamento a causa delle ingorde pretese del principe nordico. Nell’andare fuori dai gangheri, essa produce il dissesto nell’ordine ciclico degli eventi naturali e riverbera i suoi effetti politici sull’ordinato svolgersi della successione al trono, scardinandone il criterio di legittimità.
L’erede usurpato, ma non scevro da colpa, al fine di ripristinare il proprio diritto opta per la vendetta. Che si tratti dell’eroe nordico o del principe di Danimarca, in realtà la stessa opzione resta valida per entrambi. Ma a ben vedere in nessuno dei due casi si tratta di una vera scelta, bensì dell’unica decisione possibile. La questione fondamentale, nel mito come nel dramma, non si gioca affatto allora sul problema della indecisione, come infinite volte ci è stato implicitamente o esplicitamente suggerito dalle interpretazioni politiche, psicologiche e religiose più note (Schmitt 2012, p. 25; von Balthasar 1980 vol I, pp. 127-250; Benjamin 1999; Freud 2010).
Se indagata nel suo senso politico più originario - suggeritoci dalla lettura sacrificale del mito - quest’opera non è affatto il dramma dell’indecisione. È piuttosto il dramma della necessità della decisione politica per eccellenza, pienamente inserita nel cuore dell’antropocenesi, costantemente riprodotta e condivisa nella catena di vendetta, morte e usurpazione del potere, vero ingranaggio molitore che fa muovere il «Grande Meccanismo» della storia (Kott 2002).
Il paradosso e insieme la genialità della trovata di Shakespeare risiede quindi nella esplicitazione moderna della stessa mossa della vendetta arcaica, questa volta però attraverso l’apparente immobilità, il tratto manierista dell’indecisione, melancolicamente ostentato dal protagonista del dramma. A far luce sulla verità sottesa alla strategia del dire celando e nascondere rivelando è l’interpretazione girardiana, circa le intenzioni dell’autore nel mettere in scena una “vendetta al rallentatore”: «la stanchezza nei confronti della vendetta e della catarsi, che [...] nell’Amleto occupa il centro della scena e si esprime a un tempo in modo molto diretto e [...] ironicamente ambiguo» (Kott 2002, p. 435).
Secondo Girard infatti il drammaturgo inglese, giunto alla maturità artistica, elabora la convinzione dell’inutilità della vendetta, cui tuttavia è impossibile rinunciare e non solo per ragioni opportunistiche. Il desiderio di vendetta è sempre circondato da un alone numinoso, poiché è intimamente collegato alla percezione umana del “sacro”. Essa è dunque irrinunciabile per la vita e trova nel teatro il suo imprescindibile momento catartico. Ma gli effetti teatrali della vittimizzazione dipendono sempre dall’esistenza di una vera vittima «la cui efficacia come vittima sarà sempre proporzionale alla soddisfazione prodotta dalla sua vittimizzazione, e quindi alla nostra incapacità di riconoscere l’arbitrarietà dell’atto» (Girard 1998, p. 448). Inizialmente millantare la follia preserva Amleto da tale incapacità, agli occhi di tutti egli è vittima della situazione e ciò lo preserva dalla colpevolizzazione necessaria a farne una vittima soddisfacente ed efficace. Quando infine decide di compiere la vendetta, Amleto sceglie i tempi della sua teatralizzazione, per trasformarsi da vittima designata in giustiziere.
D’altronde - scrive Girard - «l’alone di sacralità che circonda l’opera di Shakespeare» è probabilmente riconducibile «all’invito più prezioso che egli ci rivolge: quello di divenire suoi complici e condividere la sua consapevolezza di un processo drammatico consistente sempre in qualche sacrificio o messa a morte collettivi, un processo radicato così in profondità dentro di noi e dagli effetti così paradossali e nascosti, che può essere attivato e ridicolizzato allo stesso tempo» (Girard 1998, p. 432). L’arte drammatica di Shakespeare si muove infatti, secondo Girard, nella dicotomia fra dissimulazione e allusione, ove il nascondimento degli intenti del protagonista prova la soddisfazione del rivelarsi usando gli sberleffi della sua ironica follia.
L’ironia è difatti il principale elemento distintivo fra il carattere del protagonista del dramma moderno e quello dell’eroe norreno Amlo∂i, che ne è invece del tutto privo. Nell’ironia Amleto tenta la catarsi, si illude di potersi liberare del sistema vittimario che lo attanaglia, creando un gioco di vicendevoli elisioni fra l’effetto “capro espiatorio”, vieppiù invocato, e il gioco della vittimizzazione, che tarda ad attuarsi. La vendetta viene rimandata all’infinito, ma il suo procrastinarsi non ne garantisce l’effettivo annientamento, ne assicura piuttosto l’amplificazione.
Tuttavia a differenza del suo prototipo, Amleto è consapevole dell’esistenza del meccanismo della vendetta e dunque del paradosso della sua insensatezza. Prima di venire ucciso da Claudio il vecchio re Amleto si era macchiato della stessa colpa di usurpazione violenta, perpetrata ai danni del padre di Fortebraccio. Scrive Girard: «Per compiere una vendetta con convinzione, bisogna credere nella giustizia della propria causa, ossia nell’innocenza della vittima che si intende vendicare e nella colpevolezza della nuova vittima designata. Ma la colpevolezza della vittima designata si fonda sull’innocenza della prima vittima. Se quest’ultima è già un assassino e colui che cerca di vendicarla riflette un po’ troppo sulla circolarità della vendetta finisce per non credere più in essa» (Girard 1998, p. 435). L’ironia istrionica e le feroci macchinazioni del principe di Danimarca sono dunque il tentativo disperato di porre in luce una verità nascosta, per salvarsi dagli ingranaggi della macina stritolatrice, messasi in moto per legittimare l’ennesima usurpazione del trono.
In questo senso l’interpretazione di Thomas Elliot in merito alla debolezza caratteriale di Amleto - dovuta alla presenza nel dramma di un nucleo originario intrattabile e indicibile (Elliot 1967, pp. 119-126) - chiama alla ribalta l’elemento barbarico sotteso al problema della decisione, incomprensibile invece se si tenta un’interpretazione religiosa del dramma moderno.
Un’ermeneutica religiosa dell’Amleto infatti - come quelle tentate dall’ipotesi sul perdono della madre, esplicitata da Hans Urs von Balthasar, o come l’interpretazione ebraica di Walter Benjamin, sull’incapacità del principe cristiano di dare risposta a un problema epocale o quella luterana di Sören Kierkegaard, che vede in Amleto il caso emblematico di una colpa che necessita di espiazione (Kirkegaard 2006) - non sortisce altro effetto se non di travisare il dramma di Amleto nell’ipocrisia di una decisione ritardata e mai completamente condotta a termine, la scissione di un carattere che reca in sé la pusillanimità dell’inetto, insieme alla meschinità di una tardiva aspirazione al perdono. In quest’ottica l’effetto kitsch che ne deriva consiste nella sensazione di perdita di autenticità del personaggio shakespeariano rispetto al suo prototipo mitico.
Pensare piuttosto la tragicità «senza catarsi e senza azione» (Galli 2012, p. 20) del nucleo politico fondativo, nel mito come nel dramma, significa richiamarsi alla vena melancolica che attraversa tutta la modernità, nel tentativo di rispondere all’incalzare del disordine. In epoca contemporanea la melancolia trova, nella “finalità senza fine” del giudizio estetico kantiano, il suo momento d’esordio all’azione in risposta alla brutalità dell’evento sublime, lo scardinarsi dell’ordine naturale a causa di un evento catastrofico. Di tale risposta rinveniamo tuttavia l’esito negativo nel soggettivismo romantico-nichilista di Nietzsche, il quale – scrive Girard – «invece di riconoscere la verità della cultura umana, ne sposa volontariamente la menzogna. La riabilitazione della vittima per lui non è altro che una rivolta futile e distruttiva contro la legge del numero e della forza» (Girard 1998, p. 450). La verità culturale che Nietzsche si rifiuta di svelare è che la vittima deve morire per permettere al meccanismo sacrificale di funzionare e riportare la pace in una comunità provata dagli eccessi mimetici, le somiglianze sempre più reciproche e strategiche di vittime e carnefici.
Cionondimeno su tale menzogna si appiglia, nella prospettiva di immediatezza necessaria alla vendetta, la contingente serietà storica della fine dello Stato moderno, catastrofica e generativa di un nuovo nomos europeo. Del resto «lo stesso delirio di un Nietzsche consente di pensare che la verità della cultura sia sul punto di esplodere sulla scena del mondo moderno. Le forze della repressione si confondono con quelle della rivelazione. Più la repressione della verità diventa isterica, più diviene visibile quale fenomeno di repressione» (Girard 1998, p. 450).
Girard riteneva che fosse proprio il «fermento giudaico-cristiano» (Girard 1998, 453) sulla verità sottesa a tale “fenomeno di repressione” - vale a dire l’innocenza della vittima, uccisa con lo scopo di perpetrare il meccanismo sacrificale che assicura il perpetuarsi delle strategie di potere - a «essere impegnato in una lotta sotterranea [...] contro la complicità fondamentale che unisce violenza e cultura». Ma nonostante il confronto fra repressione e rivelazione si faccia sempre più serrato, il suo esito resterà imprevedibile fino alla conclusione. In questa «crisi del Degree» il linguaggio lascia sempre più il posto alla strategia e la strategia costituisce la modalità preferenziale della vendetta.
Il pericolo della vendetta rende oramai sempre più improcrastinabile la scelta fra una svolta pagana della storia - un ritorno all’«originaria unione pagana di politica e religione» (Schmitt 1986, p. 71), operabile dal sincretismo gnostico del sovrano manipolatore di opinioni, in grado di dire l’ultima parola che riponga in essere l’ordine del sacro – oppure la piena assunzione di responsabilità sulla Noosfera, l’attuale scenario possibile per un’antropocenesi salvifica dell’assetto geopolitico mondiale (Teilhard de Chardin 1995; Giustozzi 2016).
La concezione drammatica della salvezza, giocata sul piano della mediazione evangelica del rapporto con l’altro, non accetta la sfida sacrificale; si gioca piuttosto sul sottrarsi all’escalation della mimesi violenta degli antagonismi sempre più indifferenziati. Comprendiamo allora come l’ultima parola di Amleto, la testimonianza sulla realtà del meccanismo vittimario, «non è una manifestazione gratuita del linguaggio» (Girard 1998, p. 462). Essa cerca nel silenzio - la verità sul sacrificio da opporre alla menzogna della vendetta - il limite e la possibilità di un’umana continuazione.


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