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René Girard e l’“estremo” della guerra

LUIGI ALFIERI
Articolo pubblicato nella sezione Girard, filosofia e politica
La stessa guerra, con le sue regole e i suoi codici, contribuiva a produrre senso,
allorché si trattava di creare nuovi equilibri su un’area geografica in espansione.
A un certo punto, più o meno dalla fine della seconda guerra mondiale,
ha cessato di svolgere quel ruolo.
Come mai le regole del gioco sono improvvisamente saltate?
E come mai la razionalità politica ha finito per diventare impotente?
Si tratta di domande degne di suscitare tutto il nostro interesse.
René Girard, Portando Clausewitz all’estremo
(Achever Clausewitz)

1. È singolare, ma non incomprensibile, che uno dei massimi studiosi della violenza come fenomeno sociale – Girard appunto – sia giunto solo molto tardi, quasi alla fine della sua opera, a confrontarsi con l’aspetto più importante e distruttivo della violenza, la guerra. Girard è per eccellenza il teorico del conflitto mimetico, della violenza fondativa e del sacrificio, ma la guerra appare solo di passaggio nel corso della sua vastissima opera, fino allo scritto su Clausewitz del 2007, uno dei suoi ultimi, forse l’ultimo importante. Lui stesso sottolinea questa stranezza e riconosce le sue difficoltà in proposito: «Nei miei libri mi accade spesso di parlare della guerra, in particolare nella Violenza e il sacro, ma da un punto di vista strettamente antropologico. Non ero in grado di accostarmi a questo tema su un piano teorico» (Girard 2008, p. 25).
Può aiutare a comprendere le ragioni di questa difficoltà l’efficace sintesi di tutta la sua opera che Girard presenta nell’introduzione.

Finora l’intero mio lavoro si era presentato come un approccio al religioso arcaico nella prospettiva dell’antropologia comparata. Il suo scopo era chiarire ciò che si chiama processo di ominizzazione, l’affascinante passaggio dall’animalità all’umanità avvenuto da migliaia di anni. La mia ipotesi è mimetica: è per il loro imitarsi in misura maggiore rispetto agli animali che gli uomini hanno dovuto trovare un rimedio a una somiglianza contagiosa che poteva portare alla pura e semplice scomparsa della loro società. Il meccanismo capace di reintrodurre una differenza, là dove ciascuno veniva a somigliare sempre più all’altro, è il sacrificio. L’uomo è generato dal sacrificio, vale a dire che è figlio del religioso. Quello che io chiamo, ispirandomi a Freud, assassinio fondatore - l’immolazione di una vittima espiatoria che è insieme colpevole del disordine e restauratrice dell’ordine - è stato costantemente ripetuto nei riti, all’origine delle nostre istituzioni. Sin dall’alba dell’umanità, milioni di vittime innocenti sono state immolate in tal modo, per consentire ai loro simili di vivere insieme; o piuttosto, di non autodistruggersi. […] Il momento decisivo di questa evoluzione è rappresentato dalla rivelazione cristiana, sorta di espiazione divina dove Dio, attraverso suo Figlio, domanda perdono agli uomini per aver loro rivelato con tanto ritardo i meccanismi della loro violenza (Girard 2008, pp. 11-12).

Se sono milioni le vittime innocenti immolate nei secoli nel sacrificio, certamente molti milioni in più sono le vittime della guerra. A maggior ragione risulta singolare il relativo silenzio sulla guerra mantenuto da Girard fino a quest’opera tarda. Ma lo si comprende. La guerra presenta per lui un grave problema teorico, perché la sua struttura, in quanto fenomeno di violenza, ha un andamento del tutto diverso rispetto alla violenza sacrificale. Il sacrificio è la risoluzione preventiva di una crisi mimetica. Un conflitto in sé insanabile che porterebbe alla distruzione reciproca dei contendenti e si potrebbe estendere per cerchi concentrici all’intero gruppo sociale viene superato mediante un mutamento di direzione della violenza, da centrifuga a centripeta. I diversi membri del gruppo sociale che la violenza aveva contrapposto gli uni agli altri si trovano improvvisamente uniti e unanimi nello scatenare, insieme, la loro distruttività verso la vittima, che li accomuna e li riconcilia. Non appena questo meccanismo comincia a diventare consapevole - e tale consapevolezza coincide con il sorgere dell’umanità stessa che si distacca dalla sua origine animale - si trasforma in istituzione regolamentata, in rito sacrificale, dando origine alla religione e da essa a ogni altra istituzione sociale. Un breve riferimento alle opere antecedenti di Girard potrà aiutare a comprendere gli snodi fondamentali di questa costruzione teorica.
Il legame sociale fondamentale è mimetico: a livello di socialità animale, la coesistenza e il coordinamento dei comportamenti del gruppo si realizza mediante l’imitazione reciproca dei suoi membri. Nel mondo animale c’è però un limite istintuale alla mimesi: non vengono imitati i comportamenti appropriativi, e ciò previene il conflitto.

Presso certi mammiferi, l’individuo unico o i pochi individui che dominano il resto del branco occupano di frequente una posizione centrale. Sono costantemente osservati e imitati dagli altri maschi che si tengono alla periferia. È come dire che l’imitazione verte su tutti gli atteggiamenti e i comportamenti degli animali dominanti esclusi i comportamenti di appropriazione. […]
Cacciata dall’ambito in cui suscita la rivalità, l’imitazione si rafforza in tutti gli altri ambiti e si orienta sull’animale più potente, più capace di assicurare la protezione del gruppo, non da solo ma in quanto modello e capo di tutti gli altri; è lui che determina l’atteggiamento del gruppo, che dà il segnale dell’attacco o della fuga, ecc. (Girard 1983, pp. 118-119).

Con lo sviluppo del processo di ominizzazione, il controllo istintuale viene meno e i comportamenti appropriativi, quelli attraverso cui un individuo si impadronisce di risorse vitali e le consuma, cominciano a essere imitati, anzi è l’appropriazione da parte di altri che indirizza i vari membri del gruppo a desiderare e tendere all’acquisizione dei beni appetiti. La mimesi di appropriazione determina necessariamente conflitto.

Due desideri che convergono sullo stesso oggetto si fanno scambievolmente ostacolo. Qualsiasi mimesis che verta sul desiderio va automaticamente a sfociare nel conflitto (Girard 19862, p. 194).

Il desiderio verso ciò di cui un altro soggetto si appropria tende a risolversi in un nuovo tipo di desiderio: quello di essere come colui che si appropria, e perciò di essere lui. Il soggetto desiderato è un modello-ostacolo: indica come bisognerebbe essere, ma nello stesso tempo impedisce di esserlo, perché lui stesso occupa la posizione che gli altri, imitandolo, vorrebbero ricoprire. La mimesi appropriativa degenera in mimesi dell’antagonista. A questo punto il desiderio ostile accomuna tutti coloro che sono polarizzati dallo stesso antagonista, e il gruppo, immerso in un parossismo violento, si scatena contro di lui, uccidendolo. È la violenza fondativa.

Se la mimesi d’appropriazione divide facendo convergere due o più individui su un solo e identico oggetto di cui tutti vogliono appropriarsi, la mimesi dell’antagonista, necessariamente, riunisce facendo convergere due o più individui su un identico avversario che vogliono tutti abbattere.
[…] Dato che la potenza d’attrazione mimetica si moltiplica con il numero dei polarizzati, arriverà necessariamente il momento in cui l’intera comunità si ritroverà raccolta contro un individuo unico. La mimesi dell’antagonista suscita dunque un’alleanza di fatto contro un nemico comune e la conclusione della crisi, la riconciliazione della comunità, non consiste in nient’altro (Girard 1983, p. 44; per una riflessione critica sul tema rinvio ad Alfieri 2017, pp. 306-307).

La ripetizione spontanea per innumerevoli volte di questo meccanismo lo fissa nella memoria collettiva e rende possibile riprodurlo artificialmente in via preventiva, anticipando il conflitto anziché reagendovi. Nasce la prima istituzione sociale, il sacrificio, intorno a cui si struttura la religione e, attraverso trasformazioni interne del sistema sacrificale, ogni altra istituzione d’ordine. La vittima della violenza fondativa, la cui morte ha pacificato la comunità, viene vista retrospettivamente come causa del disordine sociale che ha portato alla sua uccisione. Fonte tremenda di conflitto per punire il male e datrice benefica di pace dopo l’espiazione cui la sua stessa morte ha dato luogo, la vittima originaria sacralizzata è l’inizio della religione. Diventa il primo dio e la ripetizione cerimoniale ad infinitum di questo stesso scenario nei riti sacrificali viene a costituire la sostanza del suo culto.

La comunità sfoga la sua rabbia contro questa vittima arbitraria, nell’assoluta convinzione di aver trovato l’unica causa del suo male. Si trova poi priva di avversari, purificata da ogni ostilità nei riguardi di coloro contro cui, un istante prima, manifestava una rabbia estrema.
Il ritorno alla calma sembra confermare la responsabilità di questa vittima nei disordini mimetici che hanno turbato la comunità. La comunità si percepisce come del tutto passiva di fronte alla sua vittima, che appare, invece, il solo agente responsabile della vicenda. Basta capire che l’inversione del rapporto reale tra vittima e comunità si perpetua nella risoluzione della crisi per comprendere perché questa vittima passi per sacra. Essa passa per responsabile del ritorno alla calma così come dei disordini che la precedono. Passa anzi per operatrice della sua stessa morte (Girard 1983, pp. 44-45).

Mediante il sacrificio, dunque, la violenza si trasforma da fattore di disordine in fondamento dell’ordine sociale. Riesce a radicarsi nella comunità senza distruggerla, anzi garantendone la durata. Ma come è possibile ricomprendere in questo schema anche la guerra? E se la guerra non può esservi ricompresa, come sarebbe possibile ritenere che questo schema renda conto esaustivamente del ruolo sociale della violenza? È questo il nodo teorico che Girard per tanto tempo ha evitato di affrontare. La guerra esiste da tempi remotissimi, è uno dei fenomeni più ricorrenti nella storia. Non è dunque di per sé incompatibile con l’ordine sociale e la sua durata. Ma come è possibile questo se non c’è nella guerra un mutamento di direzione e di funzione sociale della violenza analogo a quello riscontrato nella violenza fondativa e nella sua istituzionalizzazione rituale? La guerra è conflitto senza risoluzione sacrificale. Perché dunque non provoca la definitiva devastazione del sociale? E se finora non l’ha provocata, non potrebbe provocarla in un prossimo futuro, in conseguenza dei terribili mutamenti manifesti nella storia contemporanea della guerra?


2. Il problema non è di poco conto. Nell’ottica di Girard, può mettere in crisi l’intero sviluppo della sua teoria. Oppure, ricondotto nell’ambito della sua teoria, può spingerla a scenari catastrofici prima impensati. È appunto ciò che accade quando Girard scopre tardivamente il maggior teorico della guerra dell’Ottocento, Clausewitz. In lui Girard trova un aggancio preciso con la propria teoria: la visione della guerra come duello, che apre la possibilità di riportarla nell’ambito del conflitto mimetico. Così ne parla Clausewitz:

Non daremo della guerra una grave definizione scientifica; ci atterremo alla sua forma elementare: il combattimento singolare, il duello.
La guerra non è che un duello su vasta scala. La moltitudine di duelli particolari di cui si compone, considerata nel suo insieme, può rappresentarsi con l’azione di due lottatori. Ciascuno di essi vuole, a mezzo della propria forza fisica, costringere l’avversario a piegarsi alla propria volontà; suo scopo immediato è di abbatterlo e, con ciò, rendergli impossibile ogni ulteriore resistenza.
La guerra è dunque un atto di forza che ha per iscopo di costringere l’avversario a sottomettersi alla nostra volontà (Clausewitz 1970, p. 19; citato in Girard 2008, pp. 29-30).

In realtà, quest’interpretazione della guerra come duello non ha sviluppi davvero decisivi nel seguito del vasto sebbene incompiuto scritto di Clausewitz e rappresenta un tributo da lui reso a una concezione della guerra tradizionale negli studi di diritto delle genti dell’età moderna: la guerra come duello, appunto, di due sovrani che usano i loro eserciti (composti di mercenari) come arma in uno scontro che presuppone il reciproco riconoscimento, legittima l’avversario come iustus hostis e impone, nell’atto stesso in cui si esercita la violenza, il suo assoggettamento a regole e limiti. Schmitt, che Girard utilizza largamente, ha ben presente questo punto nella sua trattazione della guerra in forma (cfr. Schmitt 1991, pp. 168-175). All’epoca in cui Clausewitz scrive, dopo le guerre napoleoniche che forniscono tanta materia alla sua trattazione, questa concezione era già stata messa in crisi dalla nuova strutturazione degli eserciti come nazioni in armi e non più come strumenti di una raffinata ed elegante competizione per il potere tra magni homines (cfr. Alfieri 2012, pp. 244-248, e Alfieri 2015, pp. 63-69). Girard coglie però subito l’occasione di utilizzare questo spunto per ricondurre la guerra nell’ambito della propria teoria, come manifestazione di mimetismo, conflitto di doppi. Nel contrapporsi all’avversario, ciascuno dei contendenti ha l’illusione di distinguersi da lui e di marcare la propria differenza, ma giacché ogni atto del conflitto risponde alle mosse dell’avversario e ne è determinato, i contendenti mancano completamente di autonomia e sono come travolti dalla forza impersonale del conflitto. Come accade nella crisi mimetica da cui emerge la violenza fondativa, sono indifferenziati: nulla li distingue tranne il loro vuoto contrapporsi.

Clausewitz sente evidentemente che l’“azione reciproca”, intesa come un bilanciamento accelerato tra eguali, che io chiamo principio mimetico o principio di reciprocità, è tanto più pericoloso quanto più diventa visibile. Quando le differenze oscillano sempre più velocemente tra gli antagonisti […], quando perciò si avvicina alla reciprocità l’alternanza delle sconfitte e delle vittorie, in cui per battersi gli antagonisti devono convincersi delle loro differenze, ci si avvia verso quella che chiamo crisi sacrificale. […]
Vengo così a definire la reciprocità come la somma di momenti non reciproci: essa non può di conseguenza essere percepita che da uno sguardo esterno al conflitto, dato che dall’interno si deve sempre credere alla propria differenza e rispondere all’altro sempre più in fretta e sempre più forte. A questo sguardo esterno gli avversari appaiono allora per quello che sono: semplici doppi (Girard 2008, pp. 43-44).

“Crisi sacrificale”, beninteso, non è la stessa cosa che “sacrificio”. È la situazione che lo precede e lo rende necessario, avendo come sola alternativa il caos autodistruttivo. Nel momento in cui i rivali hanno perso ogni differenza, distanza, separazione protettiva, e nello sforzo, per così dire, di occupare contemporaneamente lo stesso luogo stanno per distruggersi a vicenda, l’improvviso manifestarsi di una differenza visibile e insormontabile, quella della vittima, devia la violenza e rende i doppi unanimi nell’esercitarla insieme contro un terzo. È questa la matrice della violenza fondativa, la cui istituzionalizzazione è il sacrificio, e quindi la religione. Ma, nel conflitto dei doppi che è la guerra, dov’è il terzo che trasforma il conflitto in unanimità violenta? Non esiste una risoluzione sacrificale della guerra. Ed ecco dunque che il confronto con Clausewitz determina - o forse piuttosto ne è conseguenza - una crisi complessiva della struttura di pensiero di Girard. La guerra è violenza senza sacrificio, dunque violenza che tende in maniera unilineare alla distruttività totale. Solo una sorta di attrito interno a questo movimento ha determinato finora l’incepparsi del meccanismo, il fermarsi della guerra, presto o tardi, in una pausa di pace. Ma il meccanismo non reca in sé il proprio antidoto e se l’attrito per qualche motivo si riduce, la guerra in sé è fatta per giungere all’estremo. E questo è ormai sul punto di accadere perché ce ne sono tutte le condizioni. Girard si trova di fronte a un esito apocalittico del proprio pensiero che non aveva prima intravisto. In Clausewitz ne scorge appunto l’anticipazione, sebbene Clausewitz stesso - a suo parere - sia subito arretrato di fronte a questa prospettiva dissimulandola in un razionalismo tutto di superficie. Per questo bisogna pensare l’impensato di Clausewitz, completandolo. Achever Clausewitz, appunto.
Di fatto, è su un solo passo del libro di Clausewitz che Girard costruisce la sua interpretazione: in questo brano Clausewitz esclude che la logica interna della guerra possa essere assoggettata a considerazioni umanitarie che la mitighino.

Gli spiriti umanitari potrebbero immaginare che esistano metodi tecnici per disarmare o abbattere l’avversario senza infliggergli troppe ferite e che questa sia la finalità autentica dell’arte militare. Per quanto seducente ne sia l’apparenza, occorre distruggere tale errore poiché, in questioni così pericolose come la guerra, sono appunto gli errori risultanti da bontà d’animo quelli maggiormente perniciosi (Clausewitz 1970, p. 20; brano citato in Girard 2008, p. 30).

Come ben nota Girard, qui Clausewitz registra il decisivo mutamento apportato dall’esperienza napoleonica all’arte della guerra (cfr. ibidem). Non si tratta più di amministrare sapientemente costosi eserciti di mercenari cercando di ridurre al minimo gli scontri diretti con l’avversario: ormai si ha a che fare con eserciti di proporzioni molto più grandi basati sulla coscrizione obbligatoria, animati dallo sforzo di imporre con la massima efficacia possibile il predominio di una nazione sulle altre. L’intelligenza strategica impone dunque non il risparmio, ma la massima concentrazione e il più violento impiego della forza a disposizione.

Poiché l’impiego della forza fisica in tutta la sua portata non esclude affatto la cooperazione dell’intelligenza, colui che impiega tale forza senza restrizione, senza risparmio di sangue, acquista il sopravvento sopra un avversario che non faccia altrettanto e gli detta in conseguenza la propria legge; ed entrambi i principi di azione tendono così verso l’assoluto, senza trovare altri limiti che nei contrappesi insiti in essi (Clausewitz 1970, p. 20; citato in Girard 2008, pp. 30-31).

Di qui la conclusione, decisiva per l’interpretazione che Girard dà di Clausewitz, sul carattere estremo della guerra.

Confermiamo dunque: “la guerra è un atto di forza, all’impiego del quale non esistono limiti: i belligeranti si impongono legge mutualmente; ne risulta un’azione reciproca che logicamente deve condurre all’estremo” (Clausewitz 1970, p. 22; citato in Girard 2008, p. 31).

Immediatamente dopo, però, Clausewitz chiarisce che questo è vero solo in astratto; di fatto così non è, perché ci sono limiti alla mobilitazione di uomini e risorse, l’azione richiede tempo e affronta ostacoli, gli attori coinvolti non possono evitare dubbi ed esitazioni, la prudenza impone di non destinare tutta la propria forza a un unico colpo. L’estremo, dunque, è riportato nel limite. E ciò che Clausewitz intende per estremo, del resto, non è l’annientamento dell’avversario di per sé, ma la massima concentrazione e rapidità nell’uso della forza. Clausewitz non sta prospettando la guerra di sterminio, ma la necessità di puntare ad azioni decisive, senza risparmiare sangue e mettendo da parte le considerazioni umanitarie, certo. E, da generale prussiano che la guerra non la teorizza solo, ma l’ha fatta e l’ha vista fare da comandanti come Napoleone e Kutuzov, Clausewitz sa bene che non è mai possibile compiere sino in fondo quel che in astratto sarebbe necessario e che l’estremo della guerra è frenato da mille contingenze. Non che la guerra diventi mai umanitaria, ma il colpo unico e decisivo che scompagina l’avversario e porta alla vittoria totale di fatto non si riesce a realizzarlo. La guerra non è pura teoria e il pensiero strategico non è onnipotente (cfr. Clausewitz 1970, pp. 23-41).
Questo disincantato realismo da professionista, però, Girard lo interpreta diversamente. Clausewitz, per lui, si accorge di essere arrivato sull’orlo di un abisso, ne ha paura e se ne ritrae dietro considerazioni razionalistiche di comodo (cfr. Girard 2008, pp. 32-37). Da ritenere valida, dunque, è la tendenza all’estremo della guerra, non la negazione da parte di Clausewitz che questa tendenza si possa affermare nella realtà. Questa posizione di Girard sarebbe confutabile con facilità attraverso un’analisi più minuziosa del testo clausewitziano, ma il punto non è decisivo, perché se Girard ha probabilmente torto sul piano dell’analisi testuale, ha ragione se si ha riguardo alle trasformazioni della guerra successive al periodo napoleonico. Non c’è dubbio che, se nel corso dell’Ottocento in Europa non si verificano più guerre paragonabili a quelle napoleoniche per durata e distruttività, l’estremo della guerra emerge all’improvviso, da nessuno previsto e voluto, nelle trincee della prima guerra mondiale, sino alla distruttività senza precedenti della seconda. La tecnologia delle armi porta a devastazioni catastrofiche, l’entità delle perdite umane va completamente fuori scala rispetto a ogni esperienza bellica precedente, è la semplice appartenenza a una nazione, senza differenze di sesso ed età, e non la condizione di combattente che espone alla violenza del nemico, la mobilitazione delle risorse economiche e umane ai fini della guerra raggiunge proporzioni titaniche. Fino alla condizione in cui siamo: il conseguimento della possibilità tecnica di distruggere la vita sulla terra. Clausewitz percepisce con lucidità, da testimone partecipe e competente, l’inizio di questo sviluppo e probabilmente Girard lo sopravvaluta quando cerca in lui l’intuizione dello sviluppo intero, ma che la guerra sia giunta all’estremo è un fatto, il fatto per eccellenza della nostra epoca, il nostro insormontabile orizzonte esistenziale, la base di una nuova antropologia (cfr. Alfieri 2012, pp. 194-195). Girard vi vede la conferma definitiva della propria teoria della violenza mimetica, ma nello stesso tempo ne sente con angoscia il limite. La sua teoria della violenza prevedeva due vie d’uscita: una relativa, parziale, contingente, il sacrificio, e una assoluta, totale, metafisica, la rivelazione soprannaturale dell’innocenza di ogni vittima da parte del cristianesimo. Ma nella guerra, così come oggi la sperimentiamo, la violenza mimetica giunge all’estremo senza essere deviata nel sacrificio, rendendo attuale e non rimediabile la prospettiva dell’autodistruzione totale. La guerra perde la sua definitezza, in un certo senso non esiste più, non ha più regola, scopo, governo.

Gli uomini vivono […] contemporaneamente nell’ordine e nel disordine, nella guerra e nella pace, ed è quindi sempre meno possibile decidere categoricamente tra queste due realtà, che fino alla Rivoluzione francese erano codificate e ritualizzate. Oggi non esiste più differenza. L’azione reciproca si è talmente amplificata per opera della mondializzazione, questa reciprocità planetaria dove il più piccolo avvenimento può avere ripercussioni dall’altra parte del globo, che la violenza ha sempre una lunghezza di vantaggio. La politica rincorre la violenza […]. È in questo che Clausewitz affascina, attrae e nello stesso tempo respinge, incutendo paura. La vittoria non può più essere relativa, può solo essere totale. Il principio di polarità è il movimento stesso di questa catastrofe differita. […] La polarizzazione arcaica si effettuava su una vittima che permetteva il ritorno all’ordine, mentre oggi viene a confondersi con la tendenza all’estremo […] (Girard 2008, p. 50).

E il cristianesimo? Il cristianesimo è fallito, o forse piuttosto il cristianesimo è il fallimento: smascherare la violenza non la annulla, ma la rende peggiore perché le toglie il limite che solo il suo misconoscimento poteva imporle, lasciando aperta solo una via d’uscita escatologico-apocalittica: forse il mondo deve finire per essere salvato.

È […] necessario che gli uomini, per avere un po’ di pace, stiano nella menzogna. L’accordo tra menzogna e pace è fondamentale. Se la Passione porta la guerra, è perché dice la verità sugli uomini, che si trovano privati di ogni meccanismo sacrificale. Il religioso normale, quello che crea gli dèi, è lo stesso che ha bisogno di capri espiatori. Dal momento in cui la passione insegna agli uomini che le vittime sono innocenti, essi si combattono - cosa che precisamente le vittime espiatorie impedivano loro di fare. Una volta scomparso il sacrificio, rimane solo la rivalità mimetica, ed essa tende all’estremo. Si potrebbe dire che la Passione conduce alla bomba a idrogeno […]. L’apocalisse altro non è che l’incarnazione del cristianesimo nella storia (Girard 2008, pp. 287-288).

Naturalmente, questa è una prospettiva non scientifica, irrazionalistica, fideistica, religiosa, con l’aggravante di non poter essere ricondotta a una qualsiasi ortodossia, di non essere avallata da nessuna autorità, di non avere posto in nessun tipo di discorso religioso ufficiale con cui la cultura del nostro tempo possa essere disponibile a un qualche dialogo. Ma questa è una considerazione banale e priva di rilevanza. Non c’è proprio nulla di scientifico, razionale, politico che sia possibile contrapporre alla prospettiva girardiana. Solo un silenzio impotente o un futile parlar d’altro. E allora…


3. E allora, se non si vuole cadere nella futilità di un discorso completamente irrelato con quello di Girard, conviene confrontarlo con l’unico altro discorso contemporaneo che verta sugli stessi temi e gli sia pari per radicalità, indifferenza alle mode, libertà dalle idee ricevute, lunghezza e profondità di sguardo: quello di Canetti. Quest’ultimo ha un vantaggio su Girard: una concezione molto più complessa e plurale della massa. Girard la considera sotto il profilo dell’indifferenziazione: la scomparsa di ogni differenza protettiva tra individui scatena il disordine sociale e solo la violenza convergente verso una vittima comune ripristina l’ordine delle differenze (Cfr. Girard 1987, pp. 29-32). Per Canetti, la massa è caratterizzata piuttosto da uguaglianza, nel senso che il venir meno delle differenze individuali produce coesione emotiva: la massa non è in preda a una violenza interna caotica, ma, unificata e compatta, procede irresistibilmente verso uno scopo comune, che può essere terribilmente violento, ma non lo è sempre (cfr. Canetti 1981, pp. 34-37). Inoltre, se per Girard l’ordine sociale implica l’esistenza di differenze interindividuali garantite da istituzioni, per Canetti la struttura istituzionale, nella massa chiusa, non esclude un forte vincolo comunitario, e quindi appunto una dimensione di massa che può essere stabile e duratura (cfr. Canetti 1981, pp. 20, 24-27). Riguardo alla guerra, questa differenza implica che per Girard è difficile concepire il passaggio dal conflitto interindividuale allo scontro bellico di masse fortemente unificate al proprio interno: nello scritto su Clausewitz lo dà per acquisito, ma sostanzialmente non lo spiega. Per Canetti, invece, un rapporto conflittuale tra masse rappresenta precisamente la struttura istituzionale più solida e ne garantisce la durata. La pressione ostile di una massa contrapposta è avvertita come minaccia angosciosa, ma nello stesso tempo rassicura sulla propria identità e rafforza la coesione interna. È l’ambivalenza tipica della massa doppia, complessivamente diversa da quella del modello-ostacolo girardiano. L’aspetto comune è quello della reciproca dipendenza tra rivali, ma, mentre per Girard questo spinge irresistibilmente a un parossismo violento, per Canetti si tratta piuttosto di complementarità: la massa doppia non è una relazione tra due masse, è un sistema duale che il conflitto alimenta e non distrugge (cfr. Canetti 1981, pp. 75-87). È sostanzialmente un fenomeno di massa doppia a determinare le nazioni moderne, il cui ambiente naturale di esistenza è dunque la guerra. La forte affinità con Girard, pur in presenza di divergenze fondamentali, si manifesta qui nel fatto che Canetti attribuisce alle nazioni una natura essenzialmente religiosa. L’appartenenza nazionale non è un dato storico-sociale con fondamenti oggettivi, è una fede.

Essi dicono d’aver un nome […], come francesi, tedeschi, inglesi, giapponesi. Ma cosa vogliono dire queste parole negli uomini che le usano per se stessi? In che cosa si crede di essere diversi quando si comincia a combattere come francesi, tedeschi, inglesi, giapponesi? Qui non importa affatto in che cosa si sia davvero diversi. Un’indagine sugli usi e i costumi, sul governo, sulla letteratura, potrebbe sembrare esauriente, e tuttavia trascurare del tutto quel determinato elemento nazionale che scaturisce come fede in tempo di guerra.
Le nazioni devono dunque essere considerate qui come se fossero religioni. Esse hanno la tendenza ad acquistare veramente, di tempo in tempo, quella condizione. Un’attitudine in questo senso è sempre latente; in tempo di guerra le religioni nazionali si acutizzano in modo particolare (Canetti 1981, p. 202).

L’appartenenza nazionale, in quanto profondamente con-sentita e convissuta, è una religione di guerra. E qui emerge il paradosso intrinseco alla guerra: la distruttività estrema è potentemente costruttiva, l’atto sociale più violento consolida la socialità. C’è una possibilità di autocontrollo della violenza alternativa al sistema sacrificale girardiano, ed è proprio ciò che determina la straordinaria e apparentemente insensata proclività degli uomini alla guerra. È utile avere un nemico da fronteggiare: finché la guerra non è ancora scoppiata, ciascun rivale è il sostegno dell’altro, «L’una massa tiene in vita l’altra» (Canetti 1981, p. 75). Quando poi la guerra scoppia, le due masse confluiscono in una. Il mutamento di direzione della violenza, da centrifuga a centripeta, che Girard vede nel sacrificio, Canetti lo vede nella guerra stessa. In un certo senso, nell’atto stesso in cui si combattono i due avversari diventano alleati, fanno insieme la stessa cosa, uccidono insieme. Per questo normalmente non si odiano, per questo si riconoscono reciprocamente il diritto a combattere e non si considerano criminali. Nel darsi a vicenda la morte si tolgono a vicenda la morte: ognuno offre all’altro, mentre sta cercando di ucciderlo, il potere più di tutti sovrano, il potere letteralmente infinito di uccidere la propria morte.

La morte, da cui in verità ciascuno è sempre minacciato, dev’essere proclamata come condanna collettiva perché ci si possa opporre ad essa attivamente. Ci sono, per così dire, dichiarati tempi di morte durante i quali la morte si volge verso un intero gruppo determinato, scelto arbitrariamente. “Ora si va contro tutti i francesi”, oppure “Ora si va contro tutti i tedeschi”. L’entusiasmo con cui gli uomini accolgono una dichiarazione di tal fatta, ha la sua radice nella vigliaccheria del singolo dinanzi alla morte. Da solo, nessuno vorrebbe guardarla in faccia. È già più facile in due, quando due nemici eseguono per così dire la reciproca condanna; e non è più affatto la medesima morte quando migliaia la affrontano insieme. Il peggio che possa capitare agli uomini in guerra - e cioè morire insieme -, risparmia loro la morte individuale che essi temono più di tutto (Canetti 1981, pp. 86-87).
Il nemico, nel minacciarci di morte in massa, ci libera dalla paura della nostra morte individuale. Ma fa di più, perché, presentandosi a noi come uccidibile, ci offre la preziosa, miracolosa, infinitamente seduttiva opportunità di scaricare su di lui la nostra morte. Diventa il nostro «para-morte» (Todableiter), dice Canetti.

Ma essi non pensano nemmeno che quel peggio possa accadere. Vedono la possibilità di allontanare e di trasferire su altri la condanna che è stata pronunciata contro di loro. Il loro para-morte [Todableiter] è il nemico, e devono quindi preoccuparsi soltanto di precederlo. Si deve soltanto essere veloci e non esitare un istante nel somministrare la morte. Il nemico giunge come se fosse chiamato; egli ha pronunciato la condanna, egli per primo ha detto: “Morite!”. Ciò che egli ha rivolto contro gli altri, ricade su di lui (ibidem).

Ed ecco allora che alla massa doppia amici/nemici se ne intreccia un’altra, la massa dei vivi e dei morti. Chi muore porta con sé la morte di chi gli è sopravvissuto. I morti muoiono per i vivi. Tutti i morti per tutti i vivi. Amici e nemici. “Sopravvivere” (Überleben) per Canetti è l’atto elementare del potere, è il trionfo di chi è vivo su chi è morto. E si sopravvive a tutti i morti, amici e nemici. Canetti non usa questo linguaggio, ma non sarebbe difficile né forzato accostare la sua prospettiva a quella sacrificale girardiana. La guerra è il sacrificio della propria vita che tutti offrono a tutti, ciascuno mette in gioco la propria vita per salvarsi la vita, ciascuno vive per uccidere o muore perché si possa uccidere. La violenza bellica è, contemporaneamente e al massimo grado, congiuntiva e disgiuntiva. Quelli che uccidono costituiscono, tutti insieme, l’unica massa dei sopravvissuti. Quelli che sono uccisi costituiscono, tutti insieme, l’unica massa di coloro che morendo hanno portato via con sé la morte degli altri che sono rimasti vivi. La guerra è una struttura d’ordine, la più stabile struttura di potere esistente.

Di fronte a questi mucchi di caduti, il sopravvissuto è il privilegiato, il favorito dalla sorte. È portentoso che egli conservi la sua vita, mentre altri che un istante prima erano con lui l’hanno perduta. I morti giacciono inermi; egli si erge fra di essi, e pare quasi che la battaglia sia stata combattuta affinché egli sopravvivesse. Ha stornato da sé, sugli altri, la morte. Non che egli abbia sfuggito il pericolo. In mezzo ai suoi compagni, egli ha affrontato la morte. Essi sono caduti. Egli vive e trionfa.
Chiunque sia stato in guerra conosce questa sensazione di superiorità sui morti. Magari può essere mascherata sotto l’afflizione per i compagni caduti; ma i compagni sono pochi, i morti sempre molti. La sensazione di forza che scaturisce dal sopravvivere è fondamentalmente più forte di ogni afflizione: è la sensazione di essere eletti fra molti che hanno un comune destino (Canetti 1981, p. 274).

Beninteso, per Canetti il potere è sempre un inganno, prima di tutto un autoinganno. Finché per non morire si uccide, è sempre la morte che vince. La guerra è la peggiore complicità con la morte e la più supina e vergognosa sottomissione a essa. Canetti non vede nessun eroismo nella guerra. In definitiva, l’aggressione è una fuga, la violenza è ubbidienza servile alla morte (su questo punto debbo rinviare ad Alfieri 2011). Finché si giunge, anche per Canetti, all’estremo della guerra, che per lui, a differenza che in Girard, ha una tonalità di speranza, pur non potendo escludere, naturalmente, la possibilità dell’esito apocalittico. L’arma assoluta, la possibilità tecnica di distruggere il mondo intero in un solo atto bellico, determina un nuovo paradosso della violenza. Mai è esistito potere più grande, ma mai il potere è stato tanto miserabile. L’atto con cui si distrugge il mondo distruggerebbe anche il distruttore. La morte non è più scaricabile sugli altri, non c’è più un “para-morte”. La guerra assoluta è contemporaneamente possibile e impossibile: l’atto bellico più devastante di tutti i tempi potrebbe verificarsi in ogni momento, ma lo paralizza l’universale consapevolezza che non vi sarebbe che sconfitta. Chi distrugge tutto distrugge in definitiva solo se stesso. L’estremo della guerra è ciò che la trattiene.

Il sopravvivente stesso prova angoscia. Ha sempre provato angoscia. Ma ora, insieme con le sue possibilità, la sua angoscia è cresciuta a dismisura e intollerabilmente. Il suo trionfo può essere cosa di un minuto o di un’ora. Tuttavia la terra non è in nessun luogo sicura, nemmeno per lui. Le nuove armi arrivano ovunque; ovunque, anche lui può essere raggiunto. La sua grandezza e la sua invulnerabilità sono in lotta fra loro. Egli è divenuto troppo grande. I potenti oggi tremano in modo diverso per la propria vita, come se fossero uguali agli altri uomini. La struttura primordiale del potere, il suo cuore e il suo nucleo – la difesa del potente a spese di tutti gli altri –, si è spinta all’assurdo e giace in frantumi. Il potere è più grande ma anche più fuggevole che mai. Tutti sopravviveranno o nessuno (Canetti 1981, p. 570).

L’estremo della guerra è un katechon schmittiano, la forza frenante che trattiene l’Apocalisse (cfr. Schmitt 1991, pp. 42-47). La trattiene recandola in sé, sospendendola, esattamente come una spada di Damocle. Non la allontana, non la respinge più in là. La trattiene sempre vicinissima, sempre a un solo istante di distanza. Non è la soluzione del problema, non è la salvezza. È uno stallo, che può durare molto, forse pure per secoli, ma non per sempre. Poi la salvezza verrà in un altro modo, oppure verrà la distruzione. L’esistenza attuale dell’umanità, fino a ogni prevedibile futuro, si colloca dentro questo nodo. Canetti spera, senza nessuna particolare fiducia, che il potere ne sia smascherato e paralizzato per sempre, Girard, più metafisicamente, vede una speranza nella distruzione stessa. Qui non c’è decisione possibile, le differenze tra le due prospettive obiettivamente si annullano. Lo si può dire poeticamente: «Nel pericolo cresce la salvezza» (è l’inno Patmos di Hölderlin; cfr. Girard 2008, pp. 186-194). E dirlo così forse è già una piccola vittoria.


Bibliografia

L. Alfieri (2017), La violenza di massa in Elias Canetti e René Girard, in “Teoria Politica”, nuova serie, n. VII/2017, pp. 287-312.
- (2015), La Prima Guerra Mondiale e l’epoca dell’uccidibilità illimitata, in AA. VV., La filosofia e la Grande Guerra, a cura di P. Amato, Mimesis, Milano-Udine, pp. 57-78.
- (2012), La stanchezza di Marte. Variazioni sul tema della guerra, nuova ed. accresciuta, Morlacchi, Perugia.
- (2011), La morte felice. Osservazioni sulla dinamica della massa aperta, in L. Alfieri e A. de Simone (a cura di), Leggere Canetti. «Massa e potere» cinquant’anni dopo, Morlacchi, Perugia.
E. Canetti (1981), Massa e potere, tr. it. di F. Jesi, Adelphi, Milano.
K. v. Clausewitz (1970), Della guerra, tr. it. di A. Bollati ed E. Canevari, Mondadori, Milano.
R. Girard (2008), Portando Clausewitz all’estremo, tr. it. di G. Fornari, Adelphi, Milano.
- (19862), La violenza e il sacro, tr. it. di O. Fatica ed E. Czerkl, Adelphi, Milano.
- (1983), Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, tr. it. di R. Damiani, Adelphi, Milano.
C. Schmitt (1991), Il nomos della terra, a cura di F. Volpi, tr. it. di E. Castrucci, Adelphi, Milano.



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