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Il (dis)crimine della tratta a scopo di sfruttamento sessuale

CONSUELO BIANCHELLI
Articolo pubblicato nella sezione “Schiavitù contemporanee”


Introduzione

Nuove schiavitù, tratta e grave sfruttamento sono recentemente tornati alla ribalta nelle testate giornalistiche, mentre numerosi rapporti di ricerca segnalano la sempre maggiore presenza di vittime di tratta fra le persone che chiedono protezione internazionale (Save the Children 2016, OIM 2015). Questi denunciano l'esistenza di organizzazioni criminali transnazionali e ramificate, pronte a scendere a patti con le mafie autoctone per la gestione del territorio.
Generalmente i capitali investiti nella tratta sono connessi al mercato delle armi e della droga, i costi sostenuti per il reclutamento delle vittime sono notevolmente inferiori agli alti tassi di guadagno derivanti dal loro sfruttamento. A farne le spese sono donne, uomini e minori sfruttati nel mercato del sesso, in ambito lavorativo, dell'accattonaggio o del prelievo d'organi.
In questo contributo ci occupiamo esclusivamente di tratta a scopo di sfruttamento sessuale. In particolare presentiamo i risultati di una ricerca etnografica svolta fra giugno 2014 e febbraio 2015 presso il Tribunale di Bologna. L'indagine mira a individuare le criticità dell'iter giudiziario per reati di riduzione in schiavitù e tratta di esseri umani, analizzando i processi epistemologici che influenzano l'espressione dell'autorità giudiziaria nel cogliere, interpretare e giudicare questioni inerenti schiavitù e trafficking.
Grazie all'autorizzazione del Presidente del Tribunale è stato possibile consultare le sentenze emesse fra il 2001 e il 2013 per i reati di riduzione in schiavitù (art 600 c.p.), tratta di esseri umani (art. 601 c.p.) e acquisto o alienazione di schiavi (art. 602 c.p.); all'acquisizione di fonti scritte si è affiancata l'osservazione di udienze di primo e secondo grado per i reati sopra menzionati. Nella tratta e riduzione in schiavitù a scopo di sfruttamento sessuale si verifica una molteplicità di condotte violente e degradanti che le autorità giudiziarie sono chiamate a qualificare in fattispecie giuridiche.
Nonostante le recenti definizioni concertate in sede internazionale, le criticità nel definire il limen tra lo sfruttamento della prostituzione (L. 75/1958) e la riduzione in schiavitù o tratta chiama in causa diversi fattori.
Interrogati sul punto, i nostri interlocutori hanno risposto che di fronte allo slittamento dei traffici est europei verso forme negoziate o consensuali, la prostituzione nigeriana sembra testimoniare la persistenza del fenomeno della tratta a scopo di sfruttamento sessuale; eppure dalla ricerca emerge che i processi per artt. 600 e 601 c.p. contro reti criminali nigeriane si concludono nel 82% dei casi con l'assoluzione delle imputate perché il fatto non sussiste. Quali elementi investigativi, processuali ed epistemologici rendono possibile la discrasia tra le rappresentazioni degli operatori del diritto e gli esiti delle sentenze?


1. La tratta di esseri umani

Per lungo tempo abbiamo considerato tratta e schiavitù come fenomeni rilegati in un'alterità storico-geografica e culturale. Tuttavia, almeno dagli anni Novanta, si è tornati a riflettere su quanto le contemporanee relazioni di dipendenza personale si avvicinassero a nuove forme di schiavitù o, per usare una categoria più puntuale elaborata da Francesco Carchedi, di «para-schiavitù» (Carchedi 2004).
Erano gli anni Ottanta quando alle donne italiane che si prostituivano in strada si affiancarono ragazze con un importante percorso migratorio alle spalle. Migranti asiatiche e latino americane in locali notturni, transessuali brasiliane che lavoravano in outdoor, a cui si unirono nei primi anni Novanta ragazze provenienti dai paesi balcanici e dalla Nigeria.
Ben presto fu chiaro che non solo l'ingresso sul territorio italiano, ma anche l'attività di prostituzione fosse legata a organizzazioni criminali. Fra i primi a cogliere tale trasformazione furono le Unità di Strada che entrarono in contatto con chi si prostituiva. Le giovani migranti descrivevano una realtà profondamente diversa da quella che fino ad allora aveva caratterizzato il mercato della prostituzione: esse riferivano strategie di reclutamento improntate su rapimenti, promesse di lavoro e di matrimonio non rispettate; abusi, percosse, stupri di gruppo, aste alla frontiera dove le donne venivano comprate a prezzi variabili in base alla giovinezza, al colore della pelle e alla verginità.
A partire dagli anni Duemila le reti criminali hanno privilegiato strategie di assoggettamento subdole, imperniate su rapporti di fiducia, talvolta sentimentali e inizialmente consensuali. Minacce, violenze fisiche e sessuali rimangono sullo sfondo come atti incombenti che giungono ai primi segni di ribellione. I dispositivi di assoggettamento psicologico, basati su riconoscenza, timore e violenza, permettono agli sfruttatori di mantenere un saldo controllo sulle prostitute senza ricorrere necessariamente a una continua sorveglianza. I legami psicologici e affettivi, nonchè l'oggettivo stato di isolamento in cui spesso vivono le prostitute, garantiscono infatti alle reti criminali un minor rischio di fuga e denuncia.
Nelle organizzazioni Est europee la contrattazione delle condizioni di lavoro e delle percentuali di guadagno, nonché la sempre maggior presenza di donne nella gestione della quotidianità con le prostitute, risultano essere elementi strategici al mantenimento del rapporto di dominio.
Dall'analisi delle sentenze emerge infatti la frequente presenza di donne al banco degli imputati. Escludendo le reti nigeriane per le quali lo stato di assoggettamento viene messo in atto prevalentemente dalle Madame, per quanto riguarda la tratta est europea nel 39% delle sentenze esaminate vi è almeno una donna fra gli imputati. Si tratta di prostitute o ex prostitute incaricate di istruire le nuove arrivate circa il lavoro da svolgere e fornire consigli su come adescare i clienti e ovviare ai controlli delle forze dell'ordine. Lavorando anch'esse sullo stesso marciapiede possono sorvegliare le colleghe e, al termine di ogni prestazione o a fine serata, ritirare i guadagni e consegnarli allo sfruttatore.
Che si tratti di prostituzione nigeriana o est europea, si può notare una sorta di mobilità sociale all'interno della stessa organizzazione criminale, una stratificazione di potere che mette in crisi la dicotomica categorizzazione fra sfruttate e sfruttatrici, imputate e parti lese.
Tale dinamica è presente con una complessità maggiore per quanto riguarda la tratta nigeriana. Attraverso un complesso network transnazionale, le Madame reclutano e sfruttano connazionali in situazioni di difficoltà economica o particolare vulnerabilità. Talvolta si tratta, come vedremo in seguito, di donne che giungono in Europa per chiedere protezione internazionale dopo essere fuggite da matrimoni forzati e abusi familiari.
Fino a pochi anni fa le sfruttatrici anticipavano il capitale necessario a intraprendere il viaggio, stipulando un debito che lega la vittima fino alla completa restituzione dello stesso.
Alla somma iniziale (solitamente dai 20.000 ai 50.000 euro) si aggiungono le spese di vitto, alloggio e l'affitto del marciapiede su cui la migrante si prostituisce, ampliando così il periodo di sfruttamento. Talvolta le Madame vincolano le giovani migranti alla restituzione del debito attraverso un giuramento di fedeltà (vodoo o juju) celebrato davanti a un sacerdote (native doctor). Il materiale (indumenti intimi, sangue, ciocche di capelli e peli pubici) viene conservato dalla sfruttatrice e diviene strumento di coercizione, costante minaccia di malattia, follia o morte nel caso in cui gli accordi non vengano rispettati. La restituzione del debito, suggellato da un cospicuo regalo alla Madame, segna il passaggio a un potenziale affrancamento e alla possibilità di sfruttare a propria volta altre donne.
Le reti criminali impongono un'organizzazione del lavoro che segue una logica di ipersfruttamento e massimizzazione del profitto: tempi di prestazione, orari di lavoro, tariffe e guadagno minimo giornaliero vengono determinati precisamente; l'obbligo a prostituirsi vige anche in caso di malattia, gravidanza o durante il ciclo mestruale. Inoltre gli sfruttatori obbligano le prostitute a una frequente rotazione sul territorio: dopo aver vissuto in una determinata città per qualche mese, devono spostarsi in altre regioni o vengono cedute ad altre organizzazioni criminali affiliate. Tale strategia è finalizzata a apportare un'offerta sempre nuova nel mercato del sesso e a destabilizzare eventuali relazioni sociali tra le prostitute e altre persone non appartenenti alla rete criminale (clienti, operatrici di associazioni, polizia etc).
Ad emergere come elemento di particolare novità negli ultimi venti anni è la complessità organizzativa dei network criminali coinvolti nel trafficking. Si tratta di organizzazioni criminali transnazionali, flessibili e capaci di riadattarsi rapidamente a eventi perturbanti, quali l'incarcerazione di alcuni membri o la reclusione in Centri di Identificazione e Espulsione.
Le reti criminali detengono un composito capitale sociale che agevola la realizzazione di consorterie in numerosi paesi oltre che contatti con ufficiali di polizia, guardie di frontiera e personale delle ambasciate. La loro prosperità si è attestata anche per aver prontamente sfruttato la discrasia tra le istanze sempre più pressanti di migrazione e l'irrigidimento delle politiche europee in materia.


2. Reato di riduzione in schiavitù e tratta nel codice penale italiano

Attorno alla definizione di trafficking in human beings si è dispiegato un ampio confronto fra diverse strategie politiche e prospettive culturali. Negli ultimi venti anni il Legislatore è tornato più volte sul testo degli articoli 600 e 601 del codice penale, sia per cercare di stare al passo con le evoluzioni del fenomeno, sia per venire incontro all'adempimento di obblighi assunti in sede internazionale e comunitaria.
Attualmente il codice penale alla voce “Riduzione o mantenimento in schiavitù o servitù” recita:
«chiunque esercita su una persona poteri corrispondenti a quelli del diritto di proprietà ovvero chiunque riduce o mantiene una persona in uno stato di soggezione continuativa, costringendola a prestazioni lavorative o sessuali ovvero all'accattonaggio o comunque a prestazioni che ne comportino lo sfruttamento, è punito con la reclusione da otto a venti anni.
La riduzione o il mantenimento nello stato di soggezione ha luogo quando la condotta è attuata mediante violenza, minaccia, inganno, abuso di autorità o approfittamento di una situazione di inferiorità fisica o psichica o di una situazione di necessità, o mediante la promessa o la dazione di somme di denaro o di altri vantaggi a chi ha autorità sulla persona. [...]».
Per quanto riguarda il reato di tratta di esseri umani possiamo osservare che il testo contenuto nel nostro codice penale ricalca sostanzialmente la definizione contenuta nel Protocollo di Palermo (2000), pietra miliare del dibattito internazionale sul trafficking. All'articolo 601 c.p. leggiamo
«È punito con la reclusione da otto a venti anni chiunque\ recluta, introduce nel territorio dello Stato, trasferisce anche al di fuori di esso, trasporta, cede l'autorità sulla persona, ospita una o più persone che si trovano nelle condizioni di cui all'articolo 600, ovvero, realizza le stesse condotte su una o più persone, mediante inganno, violenza, minaccia, abuso di autorità o approfittamento di una situazione di vulnerabilità, di inferiorità fisica, psichica o di necessità, o mediante promessa o dazione di denaro o di altri vantaggi alla persona che su di essa ha autorità, al fine di indurle o costringerle a prestazioni lavorative, sessuali ovvero all'accattonaggio o comunque al compimento di attività illecite che ne comportano lo sfruttamento o a sottoporsi al prelievo di organi».
Come possiamo evincere dal testo, l'esercizio di poteri corrispondenti al diritto di proprietà o il mantenimento in uno stato di assoggettamento continuativo sono le condotte caratterizzanti il reato di riduzione in schiavitù. In effetti, nel descrivere il fenomeno della tratta, gli operatori del diritto hanno fatto appello alla riduzione della parte lesa a oggetto di proprietà del padrone: comprovare lo stato di reificazione, passività e mercificazione della persona offesa rappresenta infatti il requisito probatorio fondante. In realtà il recente dibattito sviluppatosi attorno alle “nuove schiavitù” ha messo in discussione l'efficacia del riferimento alla proprietà privata. Innanzitutto dovremmo interrogarci sul suo significato. In quanto tale, il concetto, variando a seconda delle epoche storiche e dei contesti culturali, sembra corrispondere a «una costellazione complessa e diversificata di istituzioni» (Satta 2016, p. 9). Inoltre l'allusione alla proprietà privata, propria degli ordinamenti giuridici che prevedevano lo status servitutis, non può che essere metaforica.
La centralità del concetto di proprietà privata, seppur in via interpretativa, implicherebbe una riduzione della persona a pura res che risulta fuorviante rispetto ai rapporti di schiavitù e servitù contemporanee (Grenouilleau 2014). Nonostante la sempre maggiore estensione delle frontiere di mercificazione del corpo umano, la schiavitù resta un fatto del tutto ambiguo: se da una parte l'uomo diventa merce da vendere, valutare ed ispezionare, allo stesso tempo i dispositivi di assoggettamento attecchiscono proprio sulla sua umanità, sulle capacità intellettive, emotive e di astrazione.
Il riferimento alla proprietà privata rimanda a una dicotomizzazione che contrappone schiavitù e libertà, assoggettamento e autodeterminazione, coercizione e consenso, non rendendo al meglio la scala di grigi che caratterizza i rapporti di dipendenza personale.


3. Dati della ricerca etnografica

Trentuno sono state le sentenze emesse dal Tribunale di Bologna dal 2001 al 2013 per il reato di riduzione in schiavitù e tratta di esseri umani a scopo di sfruttamento sessuale: di queste solo 7 verdetti vedono un'imputazione per art.601 c.p.
Un dato importante riguarda l'esito dei procedimenti penali: mentre nel 98% dei casi si ha una condanna per sfruttamento e favoreggiamento della prostituzione, per quanto riguarda il reato di riduzione in schiavitù e tratta di esseri umani, le condanne si attestano rispettivamente al 45% e 25%.
In particolare risulta interessante analizzare il dato in relazione alla nazionalità degli sfruttatori. Infatti mentre per le reti criminali Est europee e balcaniche le condanne si attestano attorno al 63%, per imputati e imputate nigeriane solo nel 18% dei casi viene acclarata la responsabilità penale per reati artt. 600 o 601 c.p.
Come accennato nell'introduzione, questo dato è in contrasto con le dichiarazioni degli operatori del diritto intervistati che rappresentano la prostituzione nigeriana come ultima roccaforte della tratta sessuale. Com'è possibile spiegare questa discrasia?
Ipotizziamo che la rilevante percentuale di assoluzione per i trafficanti nigeriani sia connessa a molteplici fattori: da una parte vi è la difficoltà in sede investigativa di provare la concatenazione fra i vari anelli della rete criminale che operano nelle fasi di reclutamento, trasporto e sfruttamento. Inoltre entrambi i pubblici ministeri intervistati hanno evidenziato le criticità che si riscontrano nell'acquisizione di informazioni da parte delle vittime, aspetto molto importante per processi il cui quadro probatorio si regge prevalentemente sulle dichiarazioni delle parti offese: spesso le prostitute sono sottoposte a minacce da parte della rete criminale, inoltre l'assenza di un sistema di protezione per i familiari residenti nel paese di origine disincentiva le vittime a rilasciare dichiarazioni per timore di ritorsioni.
A questo si somma la difficoltà di ricostruire un vissuto traumatico a distanza di tempo. Alla teste viene richiesto di proferire una narrazione breve, concisa e puntuale, scevra da eccessi emozionali. Per costruire una solida e coerente struttura accusatoria è necessario depurare la testimonianza da ambivalenze, argomenti considerati irrilevanti, sentimenti di astio o risentimento nei confronti degli imputati, confinando così la narrazione della parte offesa entro gabbie semantiche e concettuali che oscurano la complessità dell'esperienza di oppressione (Gribaldo 2014).
Più in generale, possiamo notare che le Corti, sia in caso di condanna che di assoluzione, alludono alla reificazione della parte offesa e alla compressione totale di margini di autonomia. Il paradigma dicotomico che oppone schiavitù/libertà, padrone/schiavo, fatica a cogliere il carattere polimorfo dei rapporti di servitù e para-schiavitù. Nascondere i soldi guadagnati, tenere il conto delle somme consegnate agli sfruttatori così da poter conoscere l'ammontare del debito residuo, allontanarsi con clienti amici per dormire qualche minuto in macchina senza necessariamente consumare la prestazione sessuale, sono strategie di resistenza che spesso vengono interpretate dalle autorità giudiziarie come indici di autonomia e autodeterminazione, andando così a fiaccare l'imputazione per riduzione in schiavitù. Se scoperti, tali atti vengono puniti brutalmente attraverso punizioni corporali, sevizie e violenze sessuali. Tuttavia nella ricostruzione della verità processuale talvolta sono classificati come eventi isolati piuttosto che come violenze finalizzate a mantenere lo stato di assoggettamento, dunque sono inquadrati giuridicamente come reato di percosse e lesioni personali (artt. 581 e 582 c.p.).
Analizzando la dinamica processuale, emerge che la difficoltà principale nel provare il reato di schiavitù risiede nell'acclarare la condizione di soggezione continuativa. L'assoggettamento continuativo si manifesta sul piano fisico attraverso la segregazione, l'isolamento e la costante sorveglianza ma può anche svilupparsi a livello psichico ed emotivo attraverso dispositivi di umiliazione, oppressione, ricompense e concessioni atte a garantire il controllo e l'asservimento. La verità processuale tuttavia si basa su fatti osservabili, l'ambito della psiche e dell'emotività è considerato sfuggente e sostanzialmente secondario (Smart 1989).
Con riferimento alla tratta nigeriana possiamo affermare che la relazione di dipendenza personale si fonda su dispositivi di assoggettamento che non comportano necessariamente il controllo in strada o l'isolamento della vittima dal contesto sociale. Le Madame esercitano il loro potere tramite il coinvolgimento psicologico e affettivo, l'adesione da parte della vittima all'ideologia di sfruttamento che promette libertà e successo talvolta anche attraverso l'asservimento di altre donne.
La loro autorità socialmente riconosciuta nel gruppo delle sottoposte trae forza anche dalla reverenza per l'anzianità sociale, valore profondamente rispettato nel paese di origine e dalla consapevolezza che la Maman e la rete delle sue sister costituisce pressoché l'unico solido punto di riferimento nel paese di arrivo. In un contesto di questo genere l'esercizio di assoggettamento continuativo non è scalfito da un'apparente autonomia di movimento (come recarsi a lavoro con mezzi pubblici o continuare a prostituirsi in assenza della Madame) e dalla possibilità di intrattenere relazioni amichevoli o sentimentali. Eppure dall'analisi delle sentenze emerge che proprio la presenza di questi elementi andrebbe a invalidare il riconoscimento dello stato di soggezione continuativo. In altre parole le forme di assoggettamento adottate dalle Maman permettono che i “fatti” -per come questi sono categorizzati dalle autorità giudiziarie- non accadano, eludendo così la possibilità di provare un'evidenza processuale.


4. Verso un nuovo modello della tratta nigeriana?

Se fino al primo decennio del Duemila le organizzazioni criminali nigeriane controllavano l'intera filiera del reclutamento e trasporto delle vittime, con gli sconvolgimenti politici causati dalla Primavera Araba e dalla guerra in Libia, la rete criminale nigeriana è stata obbligata a rivedere l'organizzazione di alcune fasi del trafficking. Di fronte a un fenomeno illegale, sommerso e in continua evoluzione, è molto complesso riuscire a definire con precisione i cambiamenti che intercorrono. Le informazioni che seguono sono tratte dalla preziosa ricostruzione della Cooperativa “Be Free”, basata sulle dichiarazioni di donne richiedenti asilo intervistate dalle operatrici della cooperativa.
Gli elementi che segnano una forte discontinuità rispetto a qualche anno fa sono rintracciabili nel ruolo svolto dalle Madame e nella cessione di alcune mansioni a bande criminali affiliate.
Mentre in passato le Madame organizzavano e controllavano l'intero percorso migratorio (dal reclutamento nel paese di origine allo sfruttamento nel paese di destinazione) viaggiando spesso con le vittime, adesso gestiscono il traffico prevalentemente dall'Europa attraverso contatti telefonici con alcuni anelli della rete criminale nigeriana.
Inoltre in precedenza le Madame anticipavano i costi del viaggio e le migranti erano consapevoli di aver contratto un debito alla partenza, aspetto che sembra essere mutato nel trafficking contemporaneo: dai racconti delle richiedenti asilo spesso emerge che, al momento di lasciare il proprio paese di origine, non viene chiesto loro alcun impegno economico per sostenere le spese del viaggio. Una volta in Libia l'organizzazione criminale nigeriana - che a causa dei conflitti locali non è più in grado di controllare le proprie reclute sul territorio libico- deve cedere le ragazze a bande di uomini arabi, spesso armati. Le donne, il più delle volte, sono inconsapevoli della compravendita avvenuta alla frontiera o, anche quando ne hanno intuito l'esistenza, raramente sono a connoscenza del prezzo al quale sono state vendute.
Giunte in Libia, le donne vengono condotte in luoghi chiusi, sovraffollati e sorvegliati. Può trattarsi dei cosiddetti “ghetti”, grandi capannoni in cui vivono ammassate centinaia di persone in attesa di essere imbarcate, oppure delle connection house, vere e proprie case di prostituzione. Alcune donne, invece, raccontano di essere state portate presso abitazioni private in cui hanno subito maltrattamenti, abusi sessuali, sfruttamento domestico e sessuale. In questa fase le bande di uomini arabi assicurano il controllo e lo sfruttamento delle reclute.
Talvolta durante la permanenza nei ghetti o nelle connection house le ragazze vengono avvicinate da presunti clienti innamorati o benefattori che si propongono di pagare il riscatto per la loro liberazione, operando in realtà su ordine della Madame e rappresentando di fatto un altro anello della catena di sfruttamento. Generalmente la permanenza in Libia si prolunga finché la Madame ordina ai “gestori” affiliati (cosiddetti boss) di prelevare un certo numero di ragazze da ghetti o connection house e organizzarne l'arrivo in Europa.
Una volta presi accordi, sarà compito di un trafficante accompagnare la giovane al punto di imbarcazione. Alla ragazza viene fornito un numero di telefono che dovrà chiamare al momento dell'approdo, così da mettersi in contatto con la Madame o con un suo affiliato.
La frammentazione e la concatenazione fra più bande criminali rendono ancora più complesso il lavoro delle autorità investigative; inoltre se in passato le vittime vedevano nella Madame la principale responsabile dell'intero percorso migratorio (dal reclutamento allo sfruttamento), adesso la molteplicità di figure che intervengono durante il viaggio offusca la consapevolezza circa l'esistenza di legami fra i membri della rete criminale.
Dobbiamo inoltre rilevare che il riconoscimento della propria condizione di vittima di tratta è particolarmente complesso, poiché alle richiedenti asilo viene fatto credere che lo sfruttamento in Libia era finalizzato a accumulare denaro per pagare l'attraversamento del Mediterraneo, occultando così i rischi di essere nuovamente sfruttate in Europa.
Una volta arrivate in Italia, infatti, il controllo delle reti criminali si estende nei Centri di Identificazione e Espulsione, ma anche nei centri di accoglienza per richiedenti protezione internazionale. Pare, inoltre, che la rete criminale nigeriana, per contenere le perdite che potrebbero verificarsi durante il viaggio, stia spostando un numero molto più elevato di donne rispetto al passato, attivando, per contro, svariate strategie per rintracciare le donne reclutate. In alcuni casi la richiesta di asilo politico può essere indotta dalla rete criminale che conosce bene la legislazione italiana e sa che l'iter della richiesta di protezione internazionale è una delle poche possibilità di regolarizzare la propria presenza sul territorio italiano. A volte sono gli sfruttatori stessi a suggerire quali elementi inserire nel racconto della storia personale per avere maggiore successo davanti alla Commissione Territoriale.
Inoltre, come denunciato dalla Cooperativa “BeFree”, talvolta sfruttatori e sfruttatrici si spacciano per mariti, fratelli, sorelle e madri delle ragazze reclutate, accedendo così agli stessi centri di accoglienza in cui risiedono le vittime e riuscendo a esercitare un controllo maggiore.
Attualmente è in corso un ampio dibattito sulla necessità di rinforzare il sistema di referral fra le Commissioni Territoriali e gli enti di protezione sociale per vittime di tratta: il fatto che le vittime presentino storie non credibili, cadano in contraddizione, non significa che debbano essere destinatarie di un provvedimento di diniego. Anzi, la loro condizione deve essere valutata alla luce della specifica situazione di vulnerabilità, motivo per cui è necessario che le Commissioni Territoriali acquisiscano una sempre maggiore consapevolezza circa gli indicatori che lasciano presupporre una condizione di tratta.
Il respingimento delle vittime di tratta in uno stato di irregolarità, infatti, non ha altro effetto se non quello di aggravare la loro condizione di vulnerabilità, esporle al rischio di essere sfruttate sul territorio italiano e rafforzare così le reti criminali.


Bibliografia

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Grenouilleau O., Qu'est-ce que l'esclavage? Une histoire globale, Paris, Gallimard, 2014.
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