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Dalla media logic alla politica della paura

ROLANDO MARINI
Articolo pubblicato nella sezione “Tra le righe”

1. L'orizzonte scientifico della media logic

Nel corso degli anni Settanta del secolo passato, si è registrata una messe di studi sui media e sul giornalismo, alimentati da un clima intellettuale in cui matura la convinzione di essere all'apice di un processo di autonomizzazione del sistema dei media rispetto agli altri agenti di socializzazione, nella produzione di cultura e nella costruzione di conoscenza. Uno dei nuclei più importanti di tale impegno scientifico è costituito dagli studi sul giornalismo, come aspetto focale dell'impatto trasformativo dei mezzi di comunicazione di massa sulle società occidentali, attraverso appunto le rappresentazioni mediali della realtà.
Questo periodo delle teorie sui media ancora oggi appare importante, non certo da un punto di vista di “archeologia” degli studi sul rapporto media/società, ma per il fatto di avere offerto concetti e punti di vista che rappresentano ormai le basi di interi settori delle scienze sociali. Tra questi, il concetto-chiave sicuramente più rilevante, per la sua capacità fondativa e genetica, è quello di media logic, che nasce con l'omonimo lavoro di Altheide e Snow del 1979.
Si tratta di un concetto multidimensionale, rivelatosi in grado di costituire virtuosamente un terreno di convergenza di più livelli di concettualizzazione e di analisi; tuttavia, proprio la sua estensione semantica e nel contempo la “pretesa” epistemologica lo pongono in una posizione critica, forse anche di debolezza.
Quella della media logic è stata un'onda lunga e ampia, ovvero resistente nel tempo e con grande capacità di allargarsi dal filone di studi in cui ha trovato la sua iniziale definizione. Si pensi al concetto di mediatizzazione, venuto ad esprimere un processo di contaminazione e trasformazione a carico di molteplici sfere della cultura e della politica. Le idee di media logic e di mediatizzazione sono divenute il nucleo di consolidate aree di indagine e riflessione, come gli studi sulle trasformazioni della politica e della comunicazione politica (tra i più recenti: Esser & Strömbäck 2015). Questi concetti sono profondamente penetrati in un largo campo di interessi scientifici, che va dalla cultura all'opinione pubblica, alla democrazia, attraverso mutuazioni o traslazioni talvolta acritiche, quasi avessero una naturalità di senso comune. Ma non casualmente il concetto di mediatizzazione, per la sua importanza e però per la sua vaghezza, è stato più volte oggetto di dibattito e anche di controversia scientifica (Schulz 2004, Couldry 2008, Lundby 2009a, Moores 2012, Landerer 2013, Hjarvard 2013).
L'orizzonte scientifico aperto dagli studi sulle rappresentazioni mediali della realtà, svolti e pubblicati in sequenza negli anni Settanta, è primariamente caratterizzato da una frattura teorico-epistemologica rispetto al concetto di potere e al rapporto di questo con l'influenza, frattura originatasi dalle tesi della teoria tecnologica della cultura nel corso degli anni Sessanta, resasi nota attraverso il suo più popolare esponente, McLuhan (1962 e 1964). Privilegiando il rapporto tra innovazioni tecnologiche nei mezzi di comunicazione e cultura, quelle tesi avevano smontato l'impianto classico di un paradigma che aveva sempre legato la cultura alla struttura e all'esercizio del potere. Lo statuto stesso dei concetti di potere e di ideologia veniva radicalmente messo in discussione.
Poggiati in gran parte su tale base, questi nuovi studi sul rapporto tra media e costruzione sociale della realtà prendono decisamente le distanze dalla prospettiva che vede i media funzionali e subordinati alle strategie dei poteri forti – sia politici che economici – per affermare quella di un «potere dei media», che viene proposto come autonomo, ossia operante sul fronte simbolico-culturale in modo indipendente dagli interessi e dalla volontà di forze sociali ad esso esterne.
Si considera il sistema della comunicazione di massa, soprattutto dopo l'avvento della televisione, come avente una propria «logica», ossia uno specifico modo di concepire la comunicazione e di metterla in pratica: una concezione che si naturalizza e si reifica nella mente di chi fa intrattenimento e informazione, negli interscambi e nei meccanismi organizzativi (Altheide & Snow 1979 e 1991). La media logic è una subcultura professionale propria del sistema dei media che modella le rappresentazioni di realtà offerte al pubblico, o meglio la loro «forma» prima ancora del contenuto, che invece perde d'importanza. In questo modo, come «forma» culturale dei contenuti comunicati, come forma a priori dell'esperienza di realtà, diviene socialmente pervasiva, forma mentis e cultura dell'intera società (ivi; si veda anche Gili 2001 e 2006).
Una seconda frattura, conseguente alla prima, è quella di non considerare adeguato e quindi di superare il dibattito classico sugli effetti dei media, costruito fino a quel momento su concetti e problemi quali la cultura di massa, la manipolazione, la persuasione e l'influenza personale: dibattito costruito, in sostanza, su modelli relativi al rapporto tra emittente e ricevente. Il dibattito, secondo tale visione, è mal posto e necessita di un completo spostamento di prospettiva (Altheide & Snow 1979). L'implicazione sottesa è di sbaragliare del tutto il campo della diatriba, mai risolta nei decenni precedenti, sull'attività o passività del pubblico; anche se, come si argomenterà più avanti, proprio questo può essere considerato un punto critico di tutto l'impianto della media logic.


2. Il giornalismo e il newsmaking nella logica dei media

Si è detto dell'importanza che, entro tale quadro, assume lo studio del giornalismo, che viene visto come il settore che «costruisce» conoscenza attraverso l'informazione: un cruciale ruolo, svolto sulla base di logiche autoreferenziali e pertanto inadeguate, fuorvianti e dannose per il processo democratico. Già il primo lavoro di Altheide, Creating Reality (1976), propone una ricerca empirica sui telegiornali dei grandi network statunitensi, da cui l'autore rileva la cosiddetta «distorsione» della realtà, generata dal bias giornalistico, cioè dallo scarto dello sguardo giornalistico, risultato di un insieme di fattori endogeni al mondo editoriale e redazionale. Tra questi fattori, così Altheide come la Tuchman (1978) individuano la routine produttiva che consuetudinariamente si stabilisce e si istituzionalizza nella filiera che va dalla raccolta alla pubblicazione delle notizie.
Le analisi mostrano come il processo produttivo delle notizie acquisti una sua autonomia normativa (Desmond 1978). Sono sorprendentemente numerosi i titoli di studi che usano concetti come making, manufacturing, crafting: ma non sono esclusivamente riferiti ad un'insieme di pratiche di mestiere (termine e concetto molto adeguato alla natura etnografica di molte di queste indagini): si tratta appunto di un fare che si apprende facendo, e così diventa cultura professionale. Ciò peraltro spiazza qualsiasi ragionamento sulla deontologia professionale: la responsabilità e la consapevolezza nulla possono rispetto alle pratiche interiorizzate, alla routine e alla logica incorporata nel sistema (Bensman & Lilienfeld I973, Altheide & Snow 1979).
Tale cultura è stata forgiata omogeneamente dagli imperativi funzionali determinati dal «commercialism», ossia da un'ormai consolidato sviamento dei fini del giornalismo, da strumento di formazione della cittadinanza a strumento di profitto, sottoposto ai diktat dei consulenti di marketing (Altheide & Snow 1979). Ma la logica del profitto rimane sullo sfondo e i protagonisti della scena sociale sono i media, i costruttori di realtà (Altheide 1976, Tuchman 1978; Altheide & Snow 1979).
La subcultura mediale e giornalistica ha poco a che fare con la missione di rappresentare fedelmente gli eventi del mondo reale. Neanche si può parlare di strutture di rilevanza in senso stretto: piuttosto, si può parlare di «event needs», ossia del bisogno di particolari tipi di eventi, che siano congeniali ai vincoli di scopo che il sistema si è dato, e quindi possono utilmente essere prelevati dalla realtà e, per così dire, fatti accadere (Molotch & Lester 1974).


3. Quale influenza mediale, in quale prospettiva interazionista?

Rispetto a tale campo di studi, la teoria della media logic di Altheide e Snow aggiunge un più generale inquadramento relativo al concetto di potere dei media. Tale quadro propone una congiunzione tra approccio tecnologico e prospettiva interazionista simbolica; più esattamente una prospettiva in cui interazionismo e costruzionismo guardano ai rapporti tra istituzioni sociali.
Il carattere autonomo del lavoro giornalistico e delle visioni del mondo che lo sostengono acquista infatti centralità come esito secondario della «dominanza» dei media: questi, fattisi istituzione sociale come costruttori e distributori di conoscenza, invadono la sfera delle altre istituzioni (la famiglia, la religione, la politica, lo sport), e le permeano del loro modo di pensare e delle loro forme discorsive, appunto della loro logica (Altheide & Snow 1979). Tale prevaricazione sulle altre sorgenti della conoscenza già nel decennio precedente accomunava varie correnti teoriche e autori diversi, da McLuhan (1964) a Morin, che vedeva proprio in questo processo l'essenza dell'epoca ossia «lo spirito del tempo» (1962). I padri della media logic non possono essere più espliciti e radicali quando arrivano a sostenere che tale assorbimento delle istituzioni non mediali si spinge alle estreme conseguenze: si determina una specie di rispecchiamento (reflexivity), per cui le istituzioni che sono pensate come arene non mediali si assimilano ai media, fino a diventare «istituzioni mediali di second'ordine», e anche esse stesse «istituzioni mediali» (Altheide & Snow 1991, cap. 1).
Si tratta di un'opzione teorica non scontata di matrice interazionista. Per capire adeguatamente questa dichiarata affiliazione da parte degli autori della media logic, occorre precisare la loro posizione sia rispetto alle teorie dell'influenza dei media, sia rispetto all'interazionismo. Sugli effetti dei media, in sintesi, i punti salienti del loro approccio sono i seguenti:

In che senso, date tali premesse, gli autori dichiarano di collocarsi nell'area interazionista-simbolica? Su questo fronte, i concetti chiave sono potere e istituzione, ma come si vedrà, nella media logic contano molto anche i concetti di presentazione e di rituale, venendo a mostrare chiaramente l'influsso di Goffman, che viene citato dai nostri autori come riferimento per la visione drammaturgica dell'interazione (1979, p. 102). Innanzitutto il potere (abbandonando del tutto il terreno della tradizione che gli assegna una sostanza essenzialmente politica) viene definito come la capacità, nell'interazione, di definire la situazione. Riguardo poi all'esito costruttivo delle interazioni, Altheide e Snow ribadiscono più volte, con Berger e Luckmann (1977), che le pratiche della vita quotidiana si originano da ciò che è istituzionalizzato, perciò dato per scontato e considerato naturale, e convergono di nuovo verso la riproduzione delle istituzioni stesse. L'interazione sociale non è quindi aperta e creativa, come la si può riconoscere in Cooley (1902, si veda anche Ciofalo 2011); anzi le routine che possano nascere in base a strategie di adattamento tendono a reificarsi, acquistando un'autonomia normativa che ricade sulle attribuzioni di significato e sulle pratiche di vita quotidiana (come è evidente nella lettura interazionista-simbolica di Berger e Luckmann, 1977). Altheide e Snow, in linea con tale impostazione, calcano molto la mano sull'idea di istituzioni che presidiano i processi di costruzione e mantenimento dell'«ordine» sociale, sentinelle della «normalità» attraverso l'esercizio culturale del «controllo» (Altheide & Snow 1991, Altheide 2006, passim).

First, I start with a basic assumption that the most important thing that one can know about another person is what he or she takes for granted. What do people assume to be the order of things, the rock-bottom reality of how the world operates, the source of problems, and likely threats? Fundamental changes in the mass-mediated world cannot be understood without careful consideration of culture and symbolic construction of meanings that are produced by a few and shared by many. Second, I assume that it is the meaning of things that drives people to action or nonaction, and these meanings are derived through a communication process that involves symbols (e.g., language) and images (Altheide 2006, p. 8).

La connessione tra media e ordine sociale sta nel «taken-for-granted» costruito dalla prospettiva dei media:

The most significant media effect on social orders throughout the world is the folding in of media logic and perspectives into the daily routines and expectations of everyday life. The communication formats that mark off the time, place, and manner of social meanings, definitions, and activities constitute the taken-for-granted and largely nondiscursive features of everyday life. The media perspectives comprise the context and discourse through which the mundane and extraordinary events of our public order take place. (Altheide & Snow 1991, p. 244)

Tutto questo interpella il ruolo del pubblico. L'attribuzione al pubblico di una condizione di passività o di una capacità attiva nella ricezione-elaborazione delle informazioni costituisce un non-problema, poiché il pubblico, per interpretare i contenuti mediali, utilizza la stessa «logica» dell'organizzazione mediale che quei contenuti ha prodotto, anzi la stessa logica del sistema dei media. Discutendo degli approcci basati sulla intenzionalità persuasoria, affermano:

No doubt there is an intent to shape attitudes and «sell soap», but we
contend that what the controlling agents of media intend to accomplish
is not the critical factor in understanding media. Rather, we
see mass communication as an interactive process between media
communication as interpreted and acted on by audiences. There is no necessary cause and effect between what goes into media communication and how that communication is interpreted and act on by audiences. (…) we propose that both communicator and audience member employ a particular logic - a media logic - that is used to present and interpret various phenomena (Altheide & Snow 1979, p. 10).

In questo punto si capisce che l'uso diffuso e quasi inflattivo della parola «pervasività» non sia certo il risultato dell'adesione ad una moda terminologica condivisa con altri approcci tecnologico-culturali, ma invece riceva una pregnante sostanza teorica, che poi ri-conferisce al concetto principe della media logic. Al di là della derivazione tecnologico-culturale, tuttavia, si manifesta la forte vicinanza di tale visione a quella delle istituzioni totali di Goffman (Gili 2006).
Purtroppo, questo tipo di impianto concettuale (si potrebbe dire questo tipo di sociologia) non permette minimamente il dialogo con gli audience studies, e soprattutto con quelli che hanno, sin dagli anni Quaranta e all'interno di assetti teorici differenti, valorizzato l'attività e le competenze del pubblico. Appare difficile sostenere che occorra superare la dicotomia attività/passività senza tuttavia argomentare in che senso si affermi che il pubblico interpreta utilizzando come risorsa cognitiva la stessa media logic. È la difficoltà di dialogo evidenziata da Livingstone, in ordine alla contrapposizione di fatto tra due schieramenti intellettuali non compatibili (2009).
Tuttavia, come fa notare Lundby (2009b), l'interazione che la media logic sembra voler esprimere è quella della codificazione delle «rules of game» che fanno da premessa all'interazione possibile, da intendere come componenti di un «underlying interactive order» (2009b, p. 147). Semioticamente parlando, sono l'installazione nei testi mediali (come vedremo nei formati) delle immagini-modello, o simulacri, dell'emittente, del ricevente-pubblico e della relazione tra i due (Volli 2002, Manetti 2008). Quindi, la funzione simbolica svolta dal testo diviene determinante: in tal senso, come detto vi è un a priori rispetto al contenuto, che è costituito dal mezzo e soprattutto dal formato, ossia dalla struttura del discorso in termini di formule ricorrenti, di dispositivi scenici standardizzati e anche dalla preferenza assegnata a certi eventi o a certe caratteristiche delle persone.

Format consists, in part, of how material is organized. the style in which it is presented, the focus or emphasis on particular characteristics of behavior. and the grammar of media communication. Format becomes a framework or a perspective that is used to present as well as interpret phenomena. (Altheide & Snow 1979, p. 10).

Il formato (che solo parzialmente corrisponde al genere) fornisce lo schema prospettico con cui guardare la realtà: schema che successivamente gli autori chiameranno più convintamente frame (Altheide &Snow 1991, Altheide 2006), non esattamente nel senso di chiave di lettura o chiave d'interpretazione, ma come forma discorsiva che fornisce un pattern alla visione del mondo. Questo modello è senz'altro costituito dall'intrattenimento, che appunto vede l'incontro a distanza tra produttori e fruitori nella coincidenza di scopo.

Tale funzione di costruzione simbolica è anche prodotta dal carattere rituale delle ricorrenze e regolarità (e quindi aspettative, dal lato del pubblico) individuate dai nostri autori nei formati studiati (tutti televisivi): la liturgia del tele-evengelismo, lo spettacolo dello sport, gli show di informazione politica. Anche in questo caso sembra riecheggiare la lezione goffmaniana (Goffman 1967).
Ciò non toglie, però, che la concettualizzazione della media logic manchi di considerare la dimensione delle reali interazioni sociali e delle costruzioni simboliche che vi si producono più o meno stabilmente (Lundby 2009b), sia tra i membri del pubblico e i contenuti mediali (le quasi-interazioni mediate), sia tra i membri del pubblico (Thompson 1995).


4. I formati dell'informazione tra tecnologia, intrattenimento e immagini dell'audience

Che cosa formalizza, nella logica mediale, l'idea di uno schema relazionale tra mezzi e pubblico? Secondo Altheide e Snow, la forma di comunicazione-rappresentazione in cui si reifica tale definizione della situazione è il «format», che viene a costituire la fusione di più aspetti costitutivi della stessa media logic. Ciò ha anche a che fare con la «fiducia» che, stabilendosi tra media e pubblico, fa sì che la realtà mediale sia sovrapposta alla realtà della vita, anche nella pluralità delle attività che la compongono.

Media logic becomes a way of «seeing» and of interpreting social affairs. As logic they also involve an implicit trust that we can communicate the events of our daily lives through the various formats of media. People take for granted that information can be transmitted. ideas presented, moods of joy and sadness expressed. major decisions made. and business conducted through media. (Altheide & Snow 1979, p. 9)

Ma non può essere dato per scontato il modo in cui la media logic diventi, nel pubblico stesso, un modo di vedere la realtà. A spiegare tale connessione interviene, come già parzialmente visto, il concetto di format.

Nel format vengono a convergere e a fondersi: tecnologia; finalità sociale assegnata al medium; immagini del pubblico. Riguardo alla tecnologia, viene proposta una ricostruzione storico-sociale in cui però i passaggi cruciali come il telegrafo e l'avvento della trasmissione via etere e via cavo non sono passaggi della storia delle invenzioni, ma sono scansioni storiche del cambiamento della razionalità pratica implicata dalla tecnologia. È tale ad esempio il costituirsi della opportunità e della pratica della brevità nella redazione delle notizie; questo cambia lo stesso profilo del «newsworker», da scrittore a reporter; e la proprietà percepita della scrittura da soggettiva a oggettiva.
Ma la trasformazione tecnologico-razionale non può essere compresa senza il cambiamento del «purpose» costitutivo dell'informazione, che, con la nascita della stampa quotidiana popolare nella prima metà dell'Ottocento, diventa l'intrattenimento, come base dei proventi di un sistema orientato al profitto e sostenuto dal marketing, appunto il news business.
Mentre il marketing fa pagare il suo pedaggio al contenuto delle notizie, le immagini di un pubblico vasto e con una strumentazione culturale scarsa si traducono nell'immagine di una «target audience». Tale nuova configurazione va vista però, più esattamente, nella prospettiva para-ideologica che il sistema dei media si viene dando: nella costruzione retorica del mondo dei media avviene un'inversione del ruolo del pubblico «from mere recipients to significant definers and arbiters of what was presented as news» (ivi, p. 65). La media logic, anche in questo caso, mostra la sua natura autoreferenziale, che si esprime addirittura come costruzione retorica su ciò che è il pubblico.
In funzione del business, le notizie sono inserite e ridefinite negli «entertaining formats». La spettacolarizzazione e il sensazionalismo ne sono appunto la sostanza comunicativa in termini di presentazione. Il giornalismo subisce in questa fase una torsione «epistemologica», nel senso che nell'informazione cambiano lo scopo e le modalità di cognizione-rappresentazione della realtà. La razionalità e l'efficienza derivanti dall'innovazione tecnologica e dallo sviluppo degli apparati informativi in organizzazioni portano alla scomparsa di una scrittura di tipo letterario e piena di osservazioni soggettive: ecco come, di nuovo, la tecnologia, incorporando una razionalità pratica, afferma un principio sostantivo (o almeno dichiarato tale), quello della neutralità, ovvero dell'obbiettività come principio di legittimazione delle notizie a livello mondiale (ivi, p. 67). Ciò finirà tuttavia per trasformare l'obiettività in una retorica di facciata.
Il carattere commerciale dei media e la sua pregnanza sulla media logic, questa volta intesa come capacità di elaborare strategie di mercato, si accentuano nella fase dei mezzi elettronici, lungo il percorso che porta al dominio assoluto dei «ratings» forniti dalle rilevazioni dell'ascolto. Il successo di mercato come unico vincolo di scopo fa sì che la concorrenza diventi un fattore omogeneizzante del modo di fare informazione da parte delle varie testate, che, osservandosi reciprocamente, tendono a somigliarsi piuttosto che a diversificarsi. Questo è peraltro sempre stato un punto forte di tutta la letteratura sul giornalismo e sugli effetti dei media; sebbene si possa ipotizzare che tale livellamento sia stato dato troppo per scontato o sovrastimato, anche nel caso statunitense. Ma Altheide e Snow si premurano di proporre al lettore uno studio che confermerebbe le stesse tendenze anche nella Gran Bretagna della BBC e del servizio pubblico, cercando di dimostrare una sorta di universalità della media logic.
Ma dall'intreccio di tali fattori conviene ora isolare quello relativo all'immagine dell'audience, che, nell'epoca della televisione, come costruzione subculturale degli editori e dei «media workers», si precisa essenzialmente nella figura della vasta e indifferenziata audience, tipica della ideologia del broadcasting. Il numero delle persone che guardano gli ads è ciò che più conta e i programmi vengono quindi concepiti come pubblicità per la pubblicità.
Ma l'approccio della media logic è interazionista e quindi il pubblico non può essere considerato, come già detto, passivo, ossia vittima di una strategia altrui: il pubblico, al contrario, è «cooperativo» nell'interazione comunicativa mediale basata sui formati dell'intrattenimento:

We are not simply «vidiots» addicted to media, nor are we strictly victims of a conspiracy. Rather, we are cooperatives in a media communication system in which we have come to accept a media culture as the real world. And to a large extent that media culture is entertainment (Altheide & Snow 1979, p. 60).

La televisione ha intrapreso un cammino già segnato dall'associazione di «visualness» ed «entertainment», che ha sigillato i confini espressivi e discorsivi del mezzo. Ma questo non ha impedito di elaborare strategie testuali di coinvolgimento emotivo del pubblico. Nel mondo della cultura mediale televisiva si sono sviluppati, quindi, formati che coniugando e sicuramente confondendo informazione e intrattenimento, applicano tale principio in modo anche sofisticato: il genere passa sotto la definizione di video-realismo, con programmi che spettacolarizzano la vita delle città e delle persone con una parvenza, però, di grande fedeltà alla durezza di questa stessa realtà (ivi, pp. 76 e ss.).


Il post-giornalismo e la politica della paura

L'espressione usata da Altheide e Snow per etichettare la condizione di un giornalismo che ha subito gli effetti trasformativi e snaturanti dell'intrattenimento è «post-giornalismo» (già nel titolo del lavoro del 1991). Il loro giudizio è netto:

Journalism will not be reborn until information formats are recognized, evaluated, and altered with journalistic criteria in mind, rather than organizational and nonsubstantive mandates (Altheide & Snow 1991, p. xi)

Il carattere non sostantivo dell'informazione, come detto, dipende in gran parte dalla deriva commerciale e dal conseguente primato della logica dell'intrattenimento. Tale scambio tra fiction e realtà era già stato individuato come il «problema del giornalismo» (Epstein, 1975), autore pluricitato da Altheide e Snow. Nell'ottica interazionista dei nostri autori acquista ancora maggiore significato, proprio nella produzione di credibilità della realtà proposta come tale. In un panorama in cui dramma, conflitto e violenza diventano la grammatica della rappresentazione, lo slittamento finzionale avviene all'interno di formati nei quali la narrazione è predisposta secondo lo schema tipico della «narrativa del controllo», in cui cioè le minacce interne ed esterne vengono semplificate con logiche dicotomiche (buono-cattivo, noi-loro), a detrimento, ancora una volta, della complessità dei temi.

Ma, parlando di giornalismo, non si può non considerare la problematica del rapporto con le fonti. In effetti, pur all'interno di un quadro in cui la subcultura mediale e quella giornalistica sono considerate autosufficienti, anche Altheide e Snow affrontano la questione. Si possono però di poter individuare due fasi: la prima è connessa alla iniziale formulazione della media logic e sembra lasciare il tema del ruolo delle fonti in secondo piano; la seconda comincia con Media Worlds (1991) e si sposta sul fronte dell'ordine e del controllo sociale, e vede il coinvolgimento delle fonti in un gioco di opportunità e di sostanziale convergenza simbolica con i media.
Nel lavoro del 1979, i nostri autori si concentrano sul fatto che le fonti offrono ai giornalisti il vantaggio di riempire gli spazi senza troppo dispendio di energie e denaro; ma le fonti si autopromuovono in larga parte attraverso il rifornimento di fatti. Pertanto, in linea con i numerosi studi sul giornalismo che hanno preceduto quel volume, Altheide e Snow sottolineano l'invasione dei criteri di selezione e valutazione delle notizie messa in atto dalle fonti istituzionalizzate (1979, pp. 84 e ss.).
Nella seconda versione del tema, osservano che i media e le fonti svolgono essenzialmente lo stesso lavoro. Vediamo in che senso.

There is another form of news-source relationship that is more subtle, yet perhaps more significant. We refer to the way in which certain kinds of sources that offer a view of social order and social control may be preferred by news organizations because of the tendency for news organizations to treat stories about disorder as the ideal type of what news is. If the quest for stories about disorder, threats to order, and the efforts of certain agencies to enact and repair order in their own image come to dominate news content, then we must ask what it is about the news perspective that gives rise to such acceptance? This is an important question because it implies that the agencies and the organizations are doing the same work (1991, p. 70).

Le agenzie di cui si parla sono quelle governative e quelle che rappresentano la versione aggiornata delle relazioni pubbliche, in cui operano gli esperti d'immagine, che diventano media strategists. Tali «agenzie» hanno cambiato la natura delle notizie in tutto il mondo, proprio perché tra queste e i media si determina una corrispondenza virtuosa «di interessi e di prospettiva», appunto una convergenza sul piano delle finalità simboliche e quindi di costruzione del significato degli eventi, specialmente di quelli riconducibili a temi quali l'ordine e la sicurezza, e quindi la criminalità e il terrorismo (Altheide 2004). La complicità dei due fronti si realizza nella costruzione del «frame della paura» (Altheide 2006, p. x).

La politica della paura è, in senso stretto, l'uso da parte dei leader politici del sentimento di paura per acquisire legittimità e spenderla per realizzare politiche, interne ed esterne, non controllabili pubblicamente. In senso ampio, è la prospettiva conferita al discorso pubblico, una sua politica perseguita dall'asse media-politica (ivi).

(…) fear is perpetuated by entertaining media that rely on fear, which in turn encourages political actors to frame messages about fear in order to get the most public attention and gain support that they are looking out for the public's interest and well-being (ivi, p. 16).

In questa svolta teorica verso la convergenza simbolica si riconosce, quasi senza significative differenze, la teoria dell'uso politico dello spettacolo (Edelman 1964 e 1988). È sorprendente anche la corrispondenza nella sottolineatura dei cicli di crisi, della gestione simbolica dell'alternanza tra minaccia e rassicurazione, funzionale a ribadire e giustificare l'impegno dei politici e degli apparati di sicurezza a difendere i cittadini (Altheide 2006, capp. 1 e 3).

In Edelman però l'attore centrale è rappresentato dal leader politico e dagli apparati dello stato. Il che corrisponde a un'altra ancora tra le teorie similari, quella di Chomsky, in cui il controllo dei media è – oggi come ieri – uno degli «spectacular achievements of propaganda», cioè dell'infaticabile controllo simbolico sulla legittimazione delle azioni del governo, specialmente nella cosiddetta guerra contro il terrorismo, che crea (e ha creato nel tempo) un pervasivo clima culturale e di opinione, capace di generare un diffuso conformismo e di investire i mezzi d'informazione e anche il mondo intellettuale (2002).
Ugualmente, secondo Hall gli attori politici e le élite utilizzano i media per imporre una politica dell'ordine e della sicurezza simbolicamente favorevole al mantenimento della propria egemonia politico-culturale (Hall et al. 1978): gli attori politici sono quindi i primary definers del contenuto delle notizie e soprattutto della rilevanza nello spazio pubblico. Rispetto alla visione di Altheide e Snow, è interessante notare come Hall arriva a criticare gli studi sui media come un campo che ha programmaticamente occultato o «represso» il concetto di ideologia come costruzione simbolica incorporata nei e dai media (1982).
Evidentemente Edelman, Chomsky e Hall riversano sulla questione la loro impostazione teorica dominante, che si può collocare tra il marxismo e l'elitismo critico di Whright Mills, così influente per avere combinato il suo concetto di manipolazione alla sua visione del pubblico, fatto della nuova classe media americana, omogeneo e alienato (1951 e 1956). Altheide non è estraneo, come detto, a questa matrice intellettuale, ma introduce l'innovazione (e la frattura teorica) del potere dei media.


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