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Natura umana, utilitarismo e riforma nella filosofia di Jeremy Bentham

ANNAMARIA LOCHE
Articolo pubblicato nella sezione Il futuro della natura umana

1. Etica, politica, diritto, problema delle carceri, linguaggio sono campi in cui Jeremy Bentham (1748-1832) apporta contributi profondamente innovativi, conservando, negli anni, una sostanziale unità d’intenti e utilizzando un costante riferimento ad alcuni assunti psicologici minimali. Partendo da questi ultimi, egli studia l’uomo e le sue relazioni esterne.
Bentham ritiene che nei campi indicati sia necessario impegnarsi in un’opera di riforma minuziosa e attenta che trovi il proprio fondamento su oggettive basi osservative; con accenti illuministici, scrive nella Preface di A Fragment on Government (1776): «The age we live in is a busy age; in which knowledge is rapidly advancing toward perfection. In the natural world [...] every thing teems with discovery and with improvement. [...] Correspondent to discovery and improvement in the natural world, is reformation in the moral» (Bentham 1977, p. 393). Egli, dunque, intende contribuire all’improvement e alla reformation di morale, politica, diritto, linguaggio, attraverso l’analisi “scientifica” della natura umana; Long, infatti, precisa che il filosofo «as an experimental scientist and a philosophe» tende «to perfect a “science of man” modelled on the Newtonian physical sciences» (1977, p. 3; cfr. pp. 13 sgg.; Guidi 1991, pp. 58 sgg.).
Sebbene sia il primo a utilizzare il termine “utilitarismo” (Long 1990, pp. 12-13), Bentham, senza nascondere mai le sue fonti, non considera un problema che altri prima di lui (Helvétius, Hume, Beccaria) abbiano formulato il principio di utilità (Bentham 1984b, pp. 289-291; Bentham 1984c, pp. 322-326; Rosen 1996, pp. xxxi e li sgg.; Hart 1982, pp. 41 e 50; Long 1977, pp. 26 sgg.; Harrison 1983, pp 113 sgg.; Lecaldano, 1998, p. 9). Specialmente in Utilitarianism, costruisce con Hume un positivo confronto (Long 1990, pp. 21 sgg.), attraverso il quale, per un verso, tende a rendere ancora più “scientifica” l’analisi della natura umana, approfondendo lo studio dei comportamenti e delle loro motivazioni; per un altro, vuole assegnare al principio di utilità e alla sua capacità di regolare piacere e dolore un ruolo fondamentale nella determinazione dei principi morali, politici e giuridici. Per questo egli viene considerato come il primo filosofo ad aver esposto in modo conseguente una filosofia utilitaristica; scrive, in proposito, Crimmins che Bentham rese la teoria utilitaristica «in its recognisability secular and systematic form and made it a critical tool of moral and legal philosophy and political and social improvement» (2015, p. 1).
Ciò implica, come è stato osservato (Hart 1996, p. lxxxii), che il filosofo consapevolmente vuol fare di quella che ritiene essere una precisa scienza della natura umana la via per una decisa opera di riforma, portando a conseguenze radicali un’esigenza comune a molti philosophes. Egli pone come punto di partenza di tale progetto l’analisi dei modi in cui piacere e dolore, assunti quali dati “empirici”, incidono sui comportamenti dell’essere umano.
La riforma deve condurre – e questo è il principale interesse di Bentham – a un miglioramento generale e universalizzato; la natura umana ha caratteristiche complesse, prevalentemente non positive, sulle quali è necessario intervenire per guidare l’uomo verso una compiuta realizzazione del principio di utilità (Hart 1982, passim). Questa è l’argomentazione che Bentham propone e sulla quale interviene già il Censor del Fragment (Bentham 1977, pp. 397-404). Contrariamente a quanto è stato sostenuto recentemente (Pellegrino 2010, pp. 8 e 10), proprio perché ha una concezione selfish della natura umana, Bentham è convinto della necessità di una riforma di stampo utilitaristico, in grado di guidare correttamente tale natura. Questa necessità è legata al ruolo primario che egli assegna alle relazioni tra gli uomini in società, da cui scaturisce la centralità della riforma nel diritto e nella politica. È sua convinzione che l’utility, l’happiness o il well-being (Bentham 1984a, pp. 125 e 130-132) di ciascuno si possano realizzare solo attraverso il raggiungimento di un’utilità più vasta, che coniughi la realizzazione delle esigenze del singolo con quelle della comunità. Tale realizzazione sarà possibile grazie a un intervento esterno capace di regolare, indirizzandoli correttamente, gli aspetti auto-interessati della natura umana.


2. È ora opportuno soffermarsi brevemente sui caratteri psicologici fondamentali che il filosofo individua a partire dalla nota frase di apertura di An Introduction to the Principles of Morals and Legislation (1789): «Nature has placed mankind under the governance of two sovereign masters, pain and pleasure» (Bentham 1996, p. 11).
Solo pena e piacere sono in grado «to point out what we ought to do, as determine what we shall do» e di individuare ciò che è bene e ciò che è male; compito dell’utility (o greatest happiness) principle (Ib. e nota a; Bentham1984a, pp. 193-195) è riconoscere che la natura umana è soggetta a questi due sovereign masters e indicare quale azione vada approvata «according to the tendency which it appears to have to augment or to diminish the happiness of the party whose interest is in question» (Bentham 1996 pp. 11 e 12; cfr. Bentham 1984c, p. 320; Schoefield 2006, p. 29). Il principio mostra di avere una funzione sia descrittiva sia normativa (Harrison 1983, p. 107), in quanto precisa modalità e tipologie di soluzione dei problemi, verso le quali guida il comportamento atto a conseguire l’utilità e/o la felicità (Kelly 1990, pp. 41-42).
La struttura di questa argomentazione viene elaborata per la prima volta in modo coerente nell’Introduction, opera complessa, di cui non si può dire, come scrive Rosen (1996, pp. xlvii- xlviii), che sia «neither an introduction nor a general work». In essa, infatti, Bentham traccia un disegno della natura dell’uomo in termini che vogliono essere scientificamente esaustivi: la frase di apertura già citata è il filo dal quale si dipanano, nei vari capitoli, la definizione del principio di utilità, le sources, il value e i generi di piacere e dolore; la ricaduta che tutto ciò ha sul modo in cui gli esseri umani agiscono; le conseguenze delle loro azioni nel determinare il giudizio sulla moralità. Di seguito, l’analisi di tali azioni in general, dell’intenzionalità, della consapevolezza, della coscienza preludono all’articolato capitolo X sui moventi (motives). E da qui si ritorna al ruolo che Bentham assegna a piacere e a dolore nella guida dei comportamenti. L’intreccio di questi temi (sviluppati anche più tardi in opere quali la Deontology e A Table of the Springs of Action, risalenti alla metà del secondo decennio del XIX secolo) consente di conoscere in termini oggettivi la psicologia dell’essere umano e di indirizzarne la condotta al perseguimento dell’utilità. Infine, i temi conclusivi dell’Introduction si spostano sul piano della legislazione (mischievous act, punizioni, proporzione tra punishments and offences).
Sebbene sia corretto sostenere che la filosofia morale di Bentham non si esaurisce nell’Introduction (Kelly 1990, p. 39), è proprio in quest’opera che egli inserisce, come si può evincere anche dai pochi accenni fatti, l’importante riferimento all’utilità della parte il cui interesse «is in question», espressione polisemica che, si vedrà, consente a Bentham di tener conto delle diverse interazioni in cui l’individuo viene a trovarsi. Tale espressione può riferirsi soltanto a quest’ultimo o estendersi a tutta la sfera degli esseri senzienti; ma è evidente da tutti i suoi scritti che Bentham pone in primo piano la comunità statale, corpo fittizio, formato da individui il cui interesse è la somma degli interessi di coloro che lo compongono. Si tratterà allora di studiare qual è l’interesse dei singoli e come realizzarlo nella comunità, con modalità che, seppure questi potranno non sempre condividere, hanno lo scopo di far loro conseguire l’utilità. Tale assunto, se è evidente in tutto il corpus benthamiano, è esplicito già nell’Introduction, dove, a proposito dell’utility principle, Bentham afferma che esso si riferisce a ogni azione e quindi anche a «every measure of government» (Bentham 1996, p. 12). Viene ribadito così che l’analisi scientifica della natura umana può utilizzare il principio di utilità come guida per il comportamento in tutte le circostanze in cui l’individuo si trova ad agire e che essa rende possibile la riforma, indicando come intervenire sull’interesse sostanzialmente autocentrato dell’uomo. La preoccupazione di Bentham diventa dunque impedire che l’egoismo individuale ostacoli l’attuazione ad ampio raggio del principio di utilità. Se questo è l’intento fondamentale del filosofo, il problema è allora come conciliare i caratteri propri della natura umana, che potrebbero condurre a esiti differenti o, addirittura, opposti. Eppure la natura umana è una: la soluzione è per Bentham, come vedremo, nell’operato di un legislatore che interviene a livello sia morale sia politico-giuridico.


3. La tesi del ruolo dominante di pena e piacere come “fatti” capaci di indicare come si agisce e si deve agire è basata sul carattere assiomatico del principio di utilità che ne riconosce il valore. Ciascuno, sempre, persino quando creda di compiere un sacrificio, obbedisce a piacere e dolore, cerca l’uno ed evita l’altro (Bentham 1996, pp. 17-21); e, ove si tenti di liberarsi da tale governance, ciò non servirà che «to demonstrate and confirm it» (Ivi, p. 11). Sono i verbi utilizzati dal filosofo a essere particolarmente significativi, perché esplicitano la sua convinzione che, individuati questi “fatti” ed elaborato il principio di utilità, il suo progetto di riforma potrà esser attuato.
In questo panorama s’inserisce il problema, molto dibattuto dalla critica, della conciliazione tra la natura selfish dell’essere umano e l’esigenza di perseguire la felicità della parte il cui interesse “è in questione”. Si tratta quindi di capire che cosa significa, nel progetto benthamiano, tale espressione. Bentham è convinto che i singoli individui cadano in errore se si convincono che sia per loro vantaggioso occuparsi unicamente del proprio utile. Egli ritiene, si è detto, che la felicità di ciascuno si realizza più compiutamente attraverso la massimizzazione della felicità collettiva; inoltre, nel suo sistema etico, Bentham inserisce un’articolata relazione tra prudenza, probità, beneficenza (Bentham 1984a, pp. 201-211; Fagiani 1989) che non si può esaurire entro i rigidi schemi dell’egoismo individualistico. C’è quindi da chiedersi in che modo il carattere egoistico e individualistico della natura umana si situi entro un orizzonte etico e politico propositivo. In tale dialettica si colloca il ruolo del legislatore – figura che Bentham riteneva di poter impersonare – il quale si presenta con aspetti non del tutto coincidenti, ma neppure diversissimi, dal Fragment al Constitutional Code (1830).
Il legislatore, superando la prospettiva smithiana della naturale armonia degli interessi, interviene per coordinare i caratteri almeno apparentemente contrastanti della psicologia umana. Tra le diverse interpretazioni in merito (Kelly 1990, pp. 39 sgg.), spicca quella di Fagiani, secondo il quale Bentham «ritiene di poter tracciare una netta distinzione tra azioni che, fattualmente, hanno come conseguenze soltanto la felicità del soggetto che le compie e azioni che, fattualmente, hanno conseguenze sulla felicità di altri, oltre che su quella dell’agente» (1989, p. 39). Tale distinzione è possibile, nota lo studioso (Ivi, p. 42), perché la natura dell’uomo benthamiano è semi-sociale, solo in parte tesa all’armonia degli interessi tra gli uomini e solo in parte implicata in un conflitto radicale di interessi. Questo carattere semi-sociale è ciò che dà ragione della coesistenza della società e dello Stato. Ne consegue che «la “convergenza” o “armonia” degli interessi rappresenta [...] per Bentham in parte un dato di fatto e in parte un obiettivo che il legislatore deve proporsi di realizzare nel maggior grado possibile» (Ib.).
Il ruolo del legislatore appare forte e incisivo; egli, agendo sui caratteri almeno apparentemente contraddittori della natura umana, riesce a realizzare tra gli uomini un’armonia non naturale, ma stabile.
Non potendo occuparmi di tutti gli aspetti della filosofia benthamiana nei quali si dipana l’intreccio tra concezione antropologica ed esigenza di riforma, vorrei limitarmi, per concludere, ad alcuni accenni al pensiero politico, in particolare nella fase matura, e cioè nel Constitutional Code, se è vero -com’è stato, a mio parere con ragione, sostenuto- che è proprio l’aspetto della riforma nella società, nella politica e nel diritto quello che lo interessa maggiormente (Harrison 1983, p. 4; Pellegrino 2010, pp. 5-9), e se è vero che «the character of Bentham’s “science of human nature” determined the character of his political thought» (Long, 1977, p. 213).


4. La teoria democratica del Code è in parte differente da quella giovanile; vi è tuttavia un forte aggancio tra i due momenti temporali, costituito dall’insieme dei temi legati a dolore, piacere, felicità, utilità e dalla riflessione sui modi per garantire il buongoverno, malgrado la natura selfish di ogni singolo essere umano e il potere difficilmente controllabile dei governanti. La differenza maggiore sta, come è ovvio, nel diverso progetto politico; sorvolando sul problema dei tempi e i modi in cui Bentham si accosta alla democrazia rappresentativa (Schoefield 2006, pp. 109 sgg.), l’esigenza comune al Fragment e al Code di capire quali sono le peculiarità di un buongoverno, tracciate in linea all’utility principle, viene esposta nell’ultima opera in termini più complessi, ove maggiormente evidente è il ruolo del legislatore come ideatore della costituzione democratica.
Se nei suoi studi di riforma della politica (che sono in stretta connessione con la sua critica del diritto inglese di common law e del giusnaturalismo moderno) Bentham affronta molte questioni, è l’esito democratico che pone in luce come solo la democrazia rappresentativa sia in grado di portare a termine il compito di garantire la massimizzazione della felicità, che – si deve ricordare – è il fine principale del buongoverno. Il greatest happiness principle, secondo Bentham, esprime nel modo più corretto la direzione in cui la riforma, partendo dall’osservazione di pain e pleasure, possa condizionare la politica. Il complesso progetto descritto nel Code (Schoefield 2006, pp. 254 sgg.; Rosen 1983, pp. 130 sgg.) vede la democrazia come lo strumento con il quale ciascuno, scegliendo i propri rappresentanti, può influire direttamente sulla realizzazione del fine della felicità individuale, la quale, grazie all’intervento del legislatore che ha elaborato la costituzione democratica, si trasforma nella massimizzazione della felicità collettiva, cioè nella massima felicità per il maggior numero. È solo a causa di tale intervento, dunque, che l’individuo può massimizzare, più o meno consapevolmente, la sua privata felicità, in quanto gli input psicologici individuali non sono in grado di guidare con certezza in modo autonomo le azioni dell’essere umano nella direzione indicata dal principio.
Tuttavia, si è già detto, per un verso, che la natura umana ha anche altri moventi, come la benevolenza e la beneficenza, le quali possono intervenire per correggere il comportamento; ma, per altro verso, è anche vero che più si ha la possibilità di realizzare il proprio interesse privato perché se ne ha il potere, più è facile che l’individuo lo persegua, lasciandosi trascinare dagli aspetti selfish della propria natura. Questo è, in particolare, il caso dei governanti.
Per tale motivo la democrazia rappresentativa diventa per Bentham l’unico strumento idoneo a frenare quelli che egli definisce i sinister interests dei ruling few (Bentham 1983, p. 284), attraverso un sistema ferreo di checks and securities, che sono disseminati lungo tutti gli articoli del Code. Questi sono pensati da un legislatore che ha le conoscenze e le capacità “tecniche” e “professionali” per organizzarli in modo da risolvere la dialettica tra gli impulsi della psicologia individuale e le esigenze della collettività (ivi, pp. 18-19; p. 45), e da conciliare la natura umana con la norma morale. La necessità di far prevalere nello Stato la felicità per il maggior numero è quindi frutto di un intervento esterno, che tiene conto della natura del singolo essere umano e la indirizza a una realizzazione della felicità che l’individuo da solo non è in grado di conseguire. Unicamente il governo democratico, con il complesso sistema piramidale delle Authorities e l’intreccio di checks and securities, può operare in questa direzione. La democrazia è, così, in Bentham strumentale ed eterodiretta. Il legislatore o il censore è il riformista che opera su dati oggettivi e per questo può conseguire risultati fruttuosi; tali dati sono pena e piacere, controllando i quali si può massimizzare la felicità, anche al di là di ciò che l’individuo è in grado di capire. Costui fornisce, con gli aspetti psicologici oggettivi e immutabili (e quindi “scientificamente” conoscibili) della sua natura, della sua psicologia, sia il materiale su cui il legislatore deve agire, sia quello che deve essere il fine della sua azione (il perseguimento della felicità per il maggior numero). Ma l’individuo è solo molto limitatamente protagonista di questo processo. Lo è in democrazia nella misura in cui segue le regole della costituzione e partecipa al voto, divenendo l’unico sovrano dello Stato, un sovrano con grande potere iniziale e funzioni estremamente limitate. La sovranità, scrive Bentham, «is in the people. It is reserved by and to them. It is exercised, by the exercise of the Constitutive authority» (Ivi, p. 25); ma il suo contributo al raggiungimento del fine termina qui, perché è il Legislativo che, pur controllato e limitato, si pone a capo della struttura piramidale in cui è organizzata la democrazia benthamiana: «The Supreme Legislature is omnicompetent. [...] To its power, there are no limits. In place of limits, it has checks. These checks are applied, by the securities, provided for good conduct on the part of the several members» (Ivi, pp. 41-42; Rosen 1983, pp. 44-46).
È dunque evidente che, pur non avendo molta fiducia nelle capacità di azione politica propositiva del singolo, il quale persegue felicità e utilità quasi senza rendersene conto, l’utilitarista e illuminista Bentham è certo che lo studio della natura umana sia la condizione imprescindibile per elaborare qualunque progetto di riforma.


Riferimenti bibliografici

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