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Lutero: dalla relazionalità ontologica all’individualismo autocentrato

GABRIELLA COTTA
Articolo pubblicato nella sezione Il futuro della natura umana

1. Le radici del pensiero luterano

Abitualmente si usa attribuire a Cartesio -almeno nel campo della filosofia- il ruolo di fondatore della modernità, ruolo che gli fu icasticamente attribuito da Hegel nelle Lezioni sulla storia della filosofia, e che, dopo di lui, fu poi ripreso in modo pressoché automatico. A Lutero, invece, si è soliti attribuire il ruolo di ‘liberatore delle coscienze’ e, in questa prospettiva, anche il Riformatore è entrato nel Pantheon dei ‘modernizzatori’. Penso tuttavia che il suo contributo nel superamento dell’orizzonte del pensiero medioevale andrebbe precisato meglio, anche perché non si può non sottolineare subito la patente contraddizione tra colui che ebbe a proclamare -contro Erasmo- l’insuperabile servitù dell’uomo e della sua volontà al male (M. Lutero, Il servo arbitrio), e colui che, secondo Nietzsche, fa discorrere ‘senza cerimonie’ l’uomo con il suo Dio (F. Nietzsche, La genealogia della morale, III, 22) diventando così, appunto, il liberatore delle coscienze individuali. Blumenberg, con la sua finezza interpretativa, ha colto bene questa contraddizione sottolineando l’appartenenza di Lutero alla linea dell’assolutismo teologico e alla interna ambivalenza di questa linea di pensiero (Blumenberg, La legittimità dell’età moderna, Marietti 1992, p. 187 ss.). Circa questa problematica contraddizione, mi limito per ora a questo breve cenno che riprenderò in seguito.
Tornando ora a una valutazione del ruolo rivestito da Lutero nella sua funzione modernizzatrice, ritengo che questa sia stata in qualche modo sottovalutata, nonostante gli universali riconoscimenti tributatigli. Questi, infatti, sono per lo più limitati, come si è detto, all’ambito della coscienza umana e della sua liberazione, garantita dall’eliminazione della mediazione ecclesiastica nel rapporto dell’uomo con Dio. La tesi che intendo rapidamente esporre, al contrario, intende mettere in luce conseguenze molto più rilevanti, seppure più ambivalenti, causate dalla rivoluzione luterana, che ho esposte altrove in modo più ampio (G. Cotta, La nascita dell’individualismo politico. Lutero e la politica della modernità, Il Mulino 2000). Ritengo infatti che Lutero, accanto a Machiavelli e ben prima di Cartesio, sia il vero iniziatore dell’età moderna, portando a compimento una rivoluzione teologico-filosofica di amplissima portata, destinata a aprire il solco di un’anima della modernità differente dal razionalismo cartesiano, ma non meno importante di questa. Ciò che voglio dire, è che, accanto al paradigma razionalistico che istituisce il soggetto moderno, conoscente e oggettificante il reale, con il quale, da Nietzsche in poi, si vuole riassumere e unificare l’epoca moderna (e non solo), esiste anche un’altra linea –più sottotraccia ma non meno significativa- che percorre la modernità e che produce il paradigma del soggetto desiderante, legato strettamente al problema del male ontologico. Questa linea, tra l’altro, è ben più significativa della prima per comprendere il formarsi del postmoderno.
Prima di entrare nel vivo del pensiero di Lutero, occorre precisare il suo debito con quell’ambito del pensiero teologico-filosofico medioevale cui egli, facendosi interprete finale in grado di portarne a definitivo sviluppo le premesse, riesce ad imprimere, con la capacità di penetrazione propria della nuova confessione, un’enorme diffusione. Infatti, anche le altre vie in cui il protestantesimo immediatamente si frammentò, condivisero e contribuirono a diffondere alcune delle premesse fondamentali del pensiero di Lutero e, soprattutto la sua antropologia pessimistica. Fatta questa premessa indispensabile, poche parole sulla linea scotistico-nominalista su cui Lutero si formò in contrasto radicale con la via antiqua della scolastica, la cui metafisica di ispirazione tomista e di tradizione aristotelica aveva come suo punto di riferimento il tema dell’analogia entis e della mediazione tra trascendenza e immanenza (E. De Negri, La teologia di Lutero, rivelazione e dialettica, Firenze 1967). Centrale in questa linea è, evidentemente, il tema della relazionalità ontologica sotto la cui prospettiva, prioritariamente e necessariamente, ogni ente è leggibile: relazionalità che affondava le sue prime, fondamentali articolazioni nella metafisica platonica.
La via moderna, al contrario, è molto schematicamente identificabile con due questioni principali: quella del ristabilimento della assoluta alterità -e assoluta libertà- di Dio, il Creatore ex nihilo, e quella dell’univocità dell’essere -ormai comune a infinito e finito, inconoscibile nella dimensione dell’Assoluto e fonte di conoscenza limitata e confusa per quanto riguarda il finito. Entrambe sono esposte con radicale novità da Duns Scoto (Cfr., E. Gilson, Giovanni Duns Scoto, Milano 2008, A. Ghisalberti, Ragione e Rivelazione: a proposito della epistemologia teologica di Giovanni Duns Scoto, in Giovanni Duns Scoto, filosofia e teologia, a c. di A. Ghisalberti, Milano 1995). Non potendo soffermarmi qui sulla complessità teoretica del pensiero di Scoto, né sull’enorme articolazione delle conseguenze che il tema dell’univocità dell’essere porta con sé -intuibili peraltro se si pensa che l’orizzonte monistico che qui si pone sarà poi ampiamente ripreso e sviluppato da Spinoza e che, nel ‘900, significativamente, proprio a Scoto e a Spinoza si rifarà Deleuze (G. Deleuze, Differenza e ripetizione, Il Mulino, 1971)-, mi limito a segnalare il fatto che, nonostante le critiche che il nominalismo rivolge a Scoto, è a partire dalla rivoluzione introdotta dal pensiero di questi che Ockham elabora il tema importantissimo della conoscibilità esclusiva della singolarità concreta. È inutile sottolineare quanto questo mutamento di prospettiva sia di capitale importanza per la successiva storia del pensiero. Ma è possibile comprendere il peso di questi argomenti anche per la filosofia politica, nel momento in cui se ne registrino gli effetti su due versanti di capitale importanza: quello antropologico e quello, immediatamente connesso, della legge naturale e delle radicali mutazioni che a poco a poco ne trasformarono i contenuti, riconducibili, appunto, alla rivoluzione nominalistico-luterana. È a partire da Scoto e dalle sue affermazioni circa l’assoluta inconoscibilità di Dio e, per l’uomo, della finalità -che pure continua ad essergli riconosciuta propria- della visio Dei, infatti, che nella natura di questi si offuscano sempre di più le tracce della ontologica relazione al bene. Da Platone in poi, questa era stata elemento fondamentale del pensiero metafisico, tale da rendere centrale la ricerca conoscitiva -solo in un secondo momento resa pratica- del bene e da giustificare il finalismo al bene di tutti gli enti ma, soprattutto, dell’uomo: nel pensiero classico leggibile, per il sapiente, nell’ordine dell’essere, in quello cristiano, per tutti gli uomini, negli indirizzi generalissimi nella legge naturale. Per entrambe le epoche, la vita buona e l’ottimo stato raggiungono il proprio perfetto compimento precisamente nella conoscenza e nel raggiungimento del bene.
Con Ockham l’intento di sottolineare definitivamente la radicale alterità di Dio e l’impossibilità di ogni dimostrazione della Sua esistenza, si approfondisce al punto da fargli teorizzare la tesi ad absurdum dell’inesistenza totale di qualsiasi legame ontologico tra l’uomo e il bene, sì da attribuire a Dio la possibilità di emanare comandamenti del tutto contrari alla sensibilità comune, come rendere lecito -anzi comandare- l’assassinio, il furto, l’adulterio etc. All’uomo, come si è detto più sopra, rimaneva, per Ockham, la capacità di conoscere il singolare concreto e di misurarsi -per discernere il bene dal male- con i contenuti della Rivelazione: la legge divina positiva. Quella legge che Dio, nella Sua infinita bontà, ha rivelato all’uomo per rendergli possibile conoscerLo nella sua potentia ordinata: quanto, cioè, Egli ha voluto rivelare del mistero della propria potentia absoluta. È chiaro che, persa la capacità di comprendere e aderire al bene in una naturale anche se imperfetta partecipazione ad esso -il tommasiano ens et bonum convertuntur, ma anche l’agostiniano fecisti nos ad te et inquietum est cor nostrum, donec requiescat in te- la natura dell’uomo viene vista sempre di più come potenzialmente malvagia, mentre il concetto di bene rimane legato -e progressivamente si identifica- con la legge divina positiva, che non porta con sé significati ontologicamente fondati, ma puri precetti volontaristicamente emanati.


2. La rivoluzione antropologica di Lutero

Una simile rivoluzione teoretica, qui riportata esclusivamente in alcuni suoi punti fondamentali, influisce profondamente su Lutero e sul suo pensiero, pur nella convinzione -che progressivamente gli diviene sempre più chiara- che essa non sia stata portata a definitivo compimento. Mentre nella Disputa di Heidelberg, che fa seguito alla Disputa contro la teologia scolastica, il futuro Riformatore formalizza la più dura condanna dei ‘teologi della gloria’, e di quello che viene giudicato il loro irredimibile peccato, con l’attacco alla loro superba, razionalistica pretesa di comprendere -sia pure indirettamente, parzialmente e in modo generalissimo- i disegni di Dio per come risuonano nella natura umana si viene precisando il suo apporto di decisiva novità rispetto ai nominalisti. Questo è identificabile nella teorizzazione dell’impossibilità assoluta di alcuna forma di conoscenza di Dio, neppure nella lettura della potentia ordinata di Dio, il quale si rivela sub contraria specie e solo a chi vuole, rendendolo destinatario della Sua grazia. Tutto ciò porta con sé la teorizzazione di una vera e propria specularità tra l’uomo e Dio, che costituisce l’ultimo residuo di ‘relazione’ (G. Cotta, La nascita ..., cit. soprattutto p. 56-62). Prospettive del genere potrebbero essere tranquillamente lasciate alle discussioni teologiche se non fosse per l’immensa serie di conseguenze che trascinano con sé e la cui discussione costituisce la seconda parte di questo contributo, esplicativa delle importanti ricadute politico-giuridiche della rivoluzione luterana. Parlare di vera e propria ‘specularità’ dell’uomo rispetto a Dio, infatti, significa non solo ribadire in modo radicale la finitezza del primo rispetto all’assolutezza del Secondo, ma, molto di più, stabilire il principio della malvagità totale, costitutiva dell’uomo. Per la prima volta, da quando Agostino aveva teorizzato con la massima chiarezza la natura del male come carenza, mancanza di essere, impossibile perciò da radicalizzare -nessun ente può essere totalmente malvagio pena la non esistenza, dato che già questa di per sé è un bene in quanto dono di Dio- orientando così nettamente e fino a Scoto l’intera quaestio de malo-, si giunge in Lutero ad affermazioni così drastiche circa la malvagità degli uomini -di tutti gli esseri umani- da aprire un orizzonte speculativo completamente nuovo. La malvagità degli uomini –di tutti gli uomini-, infatti, si manifesta, per il Riformatore, in volontà pulsionale, desiderante sé in opposizione a Dio (M. Lutero, Il servo arbitrio, Torino 1993, p. 360-361 e, ancora, 271); come si vede, emerge qui, ancora non risolta, l’ambiguità di un pensiero che da una parte teorizza un orizzonte di individualità totalmente singolari, autocentrate nel desiderio di sé e nell’espansione di tutti gli altri desideri, mentre dall’altra elabora una vera e propria onto-antropologia negativa. Questa tensione interna al pensiero di Lutero costituisce un importante problema teoretico, e lo dimostra la riflessione metafisica -di poco successiva- di Francisco Suárez, che consente di sorpassare la contraddizione luterana. Suárez, infatti, salda la conoscenza della res a partire dalla realtà singolare, dotata di effettività, esistenza, positività, mutuata dal nominalismo ockhamiano, con la cogitatio mentis la quale ‘è tanto più «reale» quanto più è «oggettiva» … Da questo momento il conceptus objectivus non è soltanto ciò che tiene il posto delle cose individuali e concrete, ma è ciò che costituisce il loro stesso essere’ (J.-F. Courtine, Il sistema della metafisica. Tradizione aristotelica e svolta di Suárez, a c. di C. Esposito, Vita e Pensiero, Milano 1999, p. 161). Insomma, il passaggio svolto da Suárez -denso di significato nel fondare l’ontologia moderna- utilizzando il puntello del nominalismo, passa poi, come sintetizza Courtine, a descrivere l’unità formale reale dell’essenza, scaturita appunto dalla cogitatio mentis. Questa, infatti, ‘sta alla radice dell’elaborazione di una natura … vale a dire che è sufficiente a porre un fondamento reale’ (idem). L’unificazione di singolarità e di ontologia essenzialistica è compiuta, anche se proprio questa universalizzazione razionalistica del singolare individuale diventerà l’oggetto della critica più radicale avanzata al moderno a partire dallo stesso Hegel (Habermas, Il discorso filosofico della modernità, Roma-Bari 1997).
Si rivela qui la chiave di volta per comprendere Lutero, che è quella della totale alterità di Dio rispetto all’uomo -conformemente alle premesse, molto meno radicali, tuttavia, poste a suo tempo da Scoto e approfondite dal nominalismo-, di cui la teoria del deus alienus è il cuore. E si comprende come, in quest’ottica, l’essere umano non possa essere/fare altro che male. Mentre l’alterità di Dio, infatti, pur terribile e avvolta nel mistero di una volontà insondabile –Dio ama e odia per sempre in modo del tutto incomprensibile per l’uomo, come si legge nel Servo arbitrio- può essere presunta benevola nei confronti dell’uomo data la Sua innegabile bontà, quella dell’uomo -vera simia Dei secondo la stessa definizione usata da Lutero per definire Satana- è presentata dal Riformatore come volontà rovesciata rispetto a quella divina, e, dunque, sempre, completamente negativa.
Come si vede, molti dei capisaldi del pensiero classico e cristiano vengono qui a cadere e l’immagine luterana dell’uomo introduce novità ancora più decisive rispetto a quelle formulate dall’indagine machiavelliana sulla ‘tristezza’ della natura umana (G. Sasso, Niccolò Machiavelli, Bologna 1980, pp. 419 e 421), proprio perché essa è il frutto ultimo -e decisivo- del lungo percorso teoretico di dissoluzione della metafisica classica. Caduto ogni possibile legame al bene, impossibile per l’uomo e le sue capacità non solo da conoscere, ma ancor più da perseguire e realizzare, cambia in profondità l’idea di ‘natura umana’. Persa, infatti, ogni relazionalità ontologica all’essere, esprimente l’uguale struttura e il legame tra esseri umani, l’idea di ‘natura umana’ si contrae in una singolarizzazione dell’uomo divenuto ‘individuo’ -oggetto singolare concreto!- per poi attivare nuovamente -come segnalato da Courtine- un processo di universalizzazione della singolarità intorno all’idea di desiderio, prima di tutto autoconservativo. Poiché l’individuo, come si è detto, è autocentrato -la volontà è la sua polarità costitutiva-, autoreferenziale, ma, soprattutto, a-relazionale -ontologicamente ma anche praticamente, data la malvagità che lo connota-, il problema che si pone con urgenza è un ripensamento radicale della politica. Lutero ne è perfettamente consapevole quando sottolinea che la terra lasciata agli uomini sarà ben presto ‘fatta simile ad un deserto’, poiché gli uomini, lasciati a se stessi, si divorerebbero l’un l’altro (M. Lutero, Sull’autorità secolare).


3. Lutero, la politica, le conseguenze

Poiché l’antropologia luterana, con la sua teoria della conflittualità immediata e irrefrenabile di tutti contro tutti, divenuta rapidamente un vero e proprio paradigma, ha ormai obliterato ogni naturale tendenza alla socievolezza, escludendo il formarsi di spontaneo della comunità politica, il problema centrale della politica viene a coincidere sempre più spesso con quello del potere, della sua acquisizione e del suo mantenimento. E i modelli che vengono elaborati si rivelano frutto di artificio. Hobbes è colui che raccoglie per primo e nel modo più manifesto tutta questa serie di tematiche introdotte dalla rivoluzione luterana, pur trasformandone completamente la giustificazione originaria. Se l’elemento propulsivo della ricerca di Lutero deve essere ricercato nella drammatica volontà di pensare l’infinita distanza di Dio dall’uomo e la Sua indicibile libertà, l’intento di Hobbes è mutato completamente e il suo nominalismo, ormai profondamente contaminato dall’orizzonte della nascente scienza moderna, si muove a partire dall’ ‘osservazione’ di ciò che, a suo avviso, è più singolare e, in quanto tale, più concreto: l’atomo. Come si sa, per Hobbes l’uomo diviene un insieme di atomi in movimento, guidati da spinte attrattive o repulsive, primi ‘piccoli inizi di movimento all’interno del corpo umano … chiamati conati’. La profonda diversità di questo quadro teoretico rispetto all’orizzonte luterano rivela la condivisione di una medesima prospettiva antropologica, nient’affatto giustificata dalle premesse pseudo-scientifiche con le quali Hobbes la vuole avallare con pretese di obiettività. Anche per Hobbes il movimento primo dell’uomo non è la volontà, ma, appunto, quella pulsionalità originaria che tanto lo avvicina al Riformatore e alla malvagità incomprimibile del desiderio umano da questi tematizzata, pur in un’ottica totalmente depurata dalla cupa visione morale del teologo. ‘L’alternanza di appetiti e avversioni, di speranze e timori’ che per Hobbes rimangono tali fino a che non intervenga la deliberazione, di cui la volontà è ‘l’ultimo appetito’ (T. Hobbes, Leviatano, I, 6, trad. A. Pacchi, Roma-Bari 2001), oltre a segnalare l’originarietà della pulsione a caratterizzare l’individuo -universalizzato-, è la versione oggettivata di una visione dell’uomo assunta dal dominante orizzonte protestante e dalla ormai generalizzata condivisione della antropologia negativa di Lutero. Se in Hobbes manca la valutazione morale caratteristica di Lutero, non è meno vero che gli individui che popolano il ‘suo’ stato di natura, sono preda delle passioni e cercano di sopraffarsi l’un l’altro. Perciò nella prospettiva hobbesiana -come in quella di Lutero- l’ordine politico è creato artificialmente, poiché i singoli individui non hanno più alcun terreno condiviso a partire da cui costruire strutture di convivenza, ad eccezione della medesima pulsione autoconservativa.
Le conseguenze di questo profondo rivolgimento sono visibili nella visione hobbesiana del potere irresistibile di cui Leviathan è l’espressione, che echeggia la visione luterana di un ‘regno della terra (che) è un regno dell’ira e severità, perché non sa che punire, vietare, giudicare e condannare, per tenere a freno i malvagi e proteggere i buoni’ (m. Lutero, Una lettera sul duro libretto dei contadini, in Sulla guerra dei contadini, in Scritti politici, p. 510). Se, ancora una volta, in Lutero è evidente l’enfasi moralistica posta sulla malvagità dell’uomo, tanto indomabile da richiedere al sovrano di esercitare il proprio potere attraverso mezzi coercitivi e autoritari per garantire la sopravvivenza di ciascuno, l’analisi di Hobbes è ben più articolata e Leviathan è quella figura artificiale, ‘inumana’ cui è demandato il compito di produrre la legge, per garantire ordine e protezione. Come ricorda Sheldon Wolin, ancora più significativa è l’altra azione fondamentale compiuta dal Sovrano: quella di costruire il linguaggio politico, del tutto mancante nello stato di natura, dove vigono l’incomprensione reciproca e l’impossibilità di confrontarsi su concetti comuni. Il compito del ‘Grande Definitore’ sarà quello -rivelatore del mutamento profondo della ‘natura umana’ ormai decretata incapace di individuare contenuti reali a termini come ‘giustizia’, ‘diritto’, ‘bene’, ‘male’ etc.- di ‘creare’ un senso comune politico, appunto un linguaggio condiviso (S. Wolin, Politica e visione, Bologna, 1996, p. 364 ss., soprattutto 373).


4. Conclusioni

Il brevissimo schizzo tracciato indica in modo esplicito il profondo mutamento causato dall’antropologia luterana nella visione della politica e dei suoi problemi, evidenziando, con la tematizzazione dell’uomo/individuo autocentrato e mosso dal desiderio, la distruzione del paradigma della naturale coesistenzialità e la conseguente impossibilità di fondare la politica sulle naturali aggregazioni umane comunitariamente strutturate. Emerge inoltre il problema –pur interpretato in modo profondamente differente- dell’incomprimibilità del male e del conflitto, cui fa obbligatoriamente seguito l’artificialità della politica, che trova espressione paradigmatica nella teoria contrattualistica (G. Cotta, Il contrattualismo moderno, in La democrazia nell’età moderna, Roma 2008). Gli esiti della rivoluzione luterana, tuttavia, sono ambivalenti. Non c’è dubbio, infatti, che l’acquisita centralità della singolarità, così come l’eliminazione della mediazione in ambito teologico-ecclesiastico introdotte con forza da Lutero, pongano l’accento sull’autonomia del singolo e aprano la strada a quel lungo percorso, che, dopo essere sfociato nella teorizzazione dell’uguaglianza universale degli individui, ne sancirà poi l’uguaglianza dei diritti (G. Cotta, L’individuo in Lutero, in Filosofia politica, 1/2001). Dall’altra, oltre alla criticità evidente insita nel paradigma pessimistico e conflittuale, l’individualismo autocentrato e desiderante che, nonostante le profonde evoluzioni, continua a segnare largamente l’antropologia moderna e postmoderna, costituirà sempre un fondamento problematico per una politica che si voglia democratica, come già segnalato ab origine da Tocqueville, mentre le tensioni prodotte dagli orientamenti strumentali e utilitaristici che da tale antropologia discendono costituiscono il rischio più grande di realtà politiche statuali e sovrastatuali che sembrano aver perso ogni idea di bene comune.



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