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Natura umana e persona

LUIGI ALICI
Articolo pubblicato nella sezione Il futuro della natura umana

1. Natura e natura umana

1.1. La natura non esiste in natura: si potrebbe partire da questa evidenza paradossale per istruire, almeno in alcuni snodi fondamentali, il tema del rapporto tra natura umana e persona. Persino all’interno del paradigma biocentrico, sia pure con sfumature diverse, l’idea di natura incorpora impressionanti connotazioni antropomorfiche. Nella cosiddetta Shallow Echology, il rapporto tra natura e persona resta un dato irrinunciabile, non soltanto per censire il quadro delle responsabilità umane nei confronti della biosfera, ma anche per impostare correttamente l’insieme degli interventi di conservazione, preservazione e cura, che solo gli umani sono in grado di realizzare. Ma anche al fondo della Deep Echology, dove più forte e radicale è l’impianto anti-antropocentrico, la pressione normativa pesa unicamente sugli esseri umani: in negativo, vincolandoli a scendere dal piedistallo di un potere arbitrariamente costruito; in positivo, impegnando a modificare usi, consumi e abitudini di vita.
Se la vita umana non è altro che una forma evolutivamente più complessa all’interno di un ecosistema olistico, essa dev’essere riconsiderata dal punto di vista della vita naturale in senso lato; eppure, anche in tal caso, l’intero mondo della biosfera è spesso immaginato come un unico, gigantesco laboratorio vivente, che occupa la centralità un tempo attribuita alla storia umana: storia della natura e natura della storia tendono a sovrapporsi. La stessa “ipotesi Gaia”, elaborata da Lovelock, anche se molto discussa, manifesta delle evidenti fattezze antropomorfiche: il pianeta terra come unica forma vivente, che agisce e reagisce secondo dinamismi analoghi a quelli umani. Nelle etiche animaliste, in modo altrettanto evidente, l’abolizione dello specismo riduce le distanze tra esseri umani e mammiferi superiori, ma le ripropone più in basso, ai livelli più elementari e non soltanto unicellulari della vita, oltre che tra mondo organico e inorganico, riproponendo nuove gerarchie.
È la natura più prossima alla vita umana, in ogni caso, quella che attrae maggiore interesse e attenzione: nelle culture biocentriche, perché rivalutata come il grembo originario e accogliente nel quale reimmergersi dopo la grande sbornia prometeica della modernità; nel paradigma contrario della tecnoscienza, perché considerata come uno strumento posto al servizio di uno sviluppo che non vuole porre argini invalicabili al proprio futuro. La stessa utopia del postumano, che immagina di intrecciare evoluzione biologica e progresso tecnologico, promette nuove sintesi proprio nel segno di un oltrepassamento dell’umano, che ha comunque il segno inequivocabile di un iperumanismo. Ancora una volta, insomma, il rapporto tra natura e uomo continua ad oscillare fra due opposte tendenze, regressive o progressive, nelle quali la polarità umana resta in ogni caso un termine irrinunciabile di confronto.
Persino quando il pensiero umano s’interroga intorno agli sconfinati spazi siderali, oltre i confini dell’abitabile, dell’esplorabile e persino dell’immaginabile, siamo rinviati all’enigma di una distanza così sconfinata rispetto alla natura umana, per cui è possibile “tenere insieme” la totalità degli enti solo attraverso un atto di radicale interrogazione filosofica, che presuppone la capacità del pensiero stesso di astrarre dal particolare e dall’immediato, e intenzionare l’intero. Questa proprietà del nostro pensiero di “spoliazione rappresentativa” e di messa a distanza da se stesso può dunque spingersi fino all’esito estremo di abbracciare l’ordine intero dell’essere – massimamente distante, fino al punto da risultarmi materialmente estraneo, e massimamente prossimo, fino al punto da essere esclusivamente mio – come radice ultima e insieme originaria, che custodisce la differenza abissale tra essere e nulla.

1.2. Ogni tentativo di incapsulare e irrigidire la nozione di natura umana, impoverendola dentro la semantica – tipicamente moderna – dell’autoppartenenza corporea, sconfessa questa radicale vocazione metaempirica dell’umano e costituisce la vera premessa di ogni arroganza antropocentrica. È innegabile che la storia umana presenti anche non pochi esempi di segno contrario, che ricavano da una presunta superiorità della natura umana una sorta di mandato dominativo nei confronti del mondo “inferiore”; ma in questi casi siamo sempre in presenza di un irrigidimento di tipo essenzialistico, che fa dell’individuo il fondamento di se stesso, ponendosi agli antipodi di quella apertura interale alla quale sto cercando di richiamarmi.
È proprio la semantica del “mio” all’origine della distorsione antropocentrica che cerca la propria legittimazione speculativa in un privilegio “naturale”: in nome sia di un essenzialismo spiritualistico, sia di un corporalismo individualistico. Tuttavia, rispetto a tante altre forme opposte di spiritualismo evasivo, che marcano maggiormente la distanza dal mondo naturale, proprio la riduzione naturalistica, assimilando l’essere umano a un animale dotato di passioni insaziabili, padrone incontrastato del proprio corpo, ha forse avuto le maggiori responsabilità nell’incentivare un atteggiamento dominativo e strumentale nei confronti delle risorse naturali: da Hobbes a Locke, dove la legge naturale dell’autoconservazione perde ogni connotazione di autodifesa e acquista una formidabile spinta espansiva, fino a Hume, in cui il centro di gravità della vita pratica rimanda a un dinamismo di azioni e passioni rispetto al quale la ragione appare moralmente inerte.
In ogni caso, siamo agli antipodi della migliore tradizione dell’umanesimo rinascimentale, del tutto estraneo al paradigma baconiano e alla successiva assolutizzazione dell’homo faber; tale tendenza raggiungerà il suo apice in quella metafisica dell’“umanismo” che pensa l’uomo come padrone dell’ente, più che pastore dell’essere (Heidegger 1987, p. 295), potenziandosi nell’«imperialismo planetario dell’uomo tecnicamente organizzato», in cui il soggettivismo «raggiunge quel culmine da cui l’uomo non scenderà che per adagiarsi sul piano della uniformità organizzata e per installarsi in essa» (Heidegger 1968, p. 97, n. 9). Una deriva, tuttavia, a cui lo stesso Heidegger non sarebbe estraneo, a detta di Hans Jonas, proprio in quanto anch’egli resterebbe lontano da una filosofia della natura come teoria generale dell’essere e della vita, che comprenda in sé filosofia dell’organismo e filosofia dello spirito, oltre ogni nichilismo deresponsabilizzante.


2. Il paradosso della persona

2.1. Che cosa aggiunge la semantica personale alla nozione di natura umana? La risposta a questa domanda comporterebbe un lungo e complesso détour, che rimanda al dibattito trinitario dei primi secoli cristiani e solleva una questione di fondo: come riconoscere e interpretare la singolarità personale, alla luce della polarità di universale e particolare, di cui la nozione stessa di persona vive? Come ha scritto Mounier, rispetto ai filosofi che «non prendono in considerazione se non il pensiero impersonale e il suo ordine immobile, che regola la natura come le idee», la «comparsa del singolare è come un'incrinatura nella natura e nella coscienza» (Mounier 2004, p. 32). La scoperta di tale incrinatura nel pensiero antico è all’origine -in un certo senso, una genesi ulteriore- dell’interrogazione filosofica, quasi una sorta di meraviglia alla seconda potenza. Secondo gli antichi filosofi, lo stupore autentico è generato dalla sconfinata complessità della physis che ci oltrepassa; ma da quando Socrate esplicita il valore autoimplicativo racchiuso nel motto del tempio di Delfi (“conosci te stesso”), si assiste a uno spostamento decisivo dell’oggetto della meraviglia: l’ulteriorità si annuncia nel cuore stesso della profondità umana.
Platone colloca in uno scenario più articolato la “meraviglia” di Socrate, che in un certo senso ne esplicita le potenzialità speculative ma in un altro senso rischia di disperderne le valenze soggettive: ricordando che non c’è nulla di più alto dell’anima, la quale è per noi come una voce interiore che rimanda a sua volta a una voce divina, in quanto «ci ordina di conoscere colui che comanda di conoscere se stessi» (Alc. ma., 130), d’ora in avanti si farà sempre più chiaro che l’approssimazione di sé a se stesso implica una dislocazione riflessiva che provoca il pensiero, impegnandolo a riconoscere e custodire la differenza inscritta nella profondità interiore; nello stesso tempo, però, l’incrinatura di cui parla Mounier rischia di essere assorbita e superata nel primato di un ordine immobile, che conferisce al vertice metafisico verso cui la tensione dell’eros potentemente si proietta un carattere insuperabilmente impersonale, confermato a livello antropologico dalla dottrina della reincarnazione, che presuppone e consacra una disinvolta scissione tra anima e corpo.
2.2. Una possibile articolazione di questo statuto paradossale della persona umana, in cui universale e particolare si congiungono, è già contenuta nella scansione delle tre persone verbali, che evoca una relazionalità originaria, rintracciandola nel cuore stesso di tale statuto, alle spalle dell’oscillazione tipicamente moderna tra individualismo e collettivismo. Quest’aspetto è già evidente nell’autorelazione in cui si attua la natura riflessiva dell’io, tematizzata da una lunga tradizione di pensiero, verso la quale hanno un debito importante ed esplicito autori come Taylor e Ricoeur. Contrariamente a quel che si potrebbe pensare, il “punto di vista di prima persona” (Taylor 1993), non rappresenta una contrazione dell’orizzonte relazionale ma, al contrario, il presupposto per la sua apertura in senso universale.
Nella seconda parte del suo De Trinitate (in particolare il libro IX), Agostino riconosce nel vertice spirituale della persona una sorta di privilegio riflessivo, che si esprime, sia pure in una condizione di finitezza e mutabilità, in una autocoscienza originaria, attuandosi nell’incontro di essere (mens), conoscere (notitia) e amare (amor). Alla mens è dato di conoscere e amare se stessa in una condizione di immediatezza originaria, che non dipende da mediazioni esterne. In questo senso la natura personale, come il mistero trinitario, ha un’essenza anomala: il dato originario dell’autocoscienza impedisce qualsiasi cattura rappresentativa. Jankélévitch lo direbbe così: «Io sono il solo ad essere me stesso» (Jankélévitch 2000, p. 130). Questo statuto autoimplicativo fa della persona umana un ente sui generis, non oggettivabile in senso naturalistico, in quanto si sottrae per principio al paradigma della ragione moderna, basato sul principio del “controllo mediante il distacco” (Taylor 1993). Un’intera tradizione di pensiero si può evocare al riguardo: da Pascal a Kierkegaard, dalla fenomenologia fino a Heidegger, che assume il tema della Cura, come autoaffezione fondamentale, proprio da Agostino.
Ciò naturalmente non esclude la possibilità di una rinuncia volontaria a vivere all’altezza della propria vocazione, lasciandosi trascinare in un processo di autodegradazione alienante. Non vale, invece, l’inverso: la persona può patire le forme più feroci di violenza esterna – dalla tortura all’omicidio, fino all’umiliazione e al misconoscimento della sua dignità – ma nello stesso tempo mettere in campo degli atti di resistenza, che ne aumentano anziché diminuire la statura morale. Purtroppo la storia non è avara di esemplificazioni toccanti: basterebbe leggere Bonhoeffer o Florenskij.

2.3. Anche il rapporto io-tu, tra prima e seconda persona, ripropone una analoga apertura della scala etica, percorribile nelle due opposte direzioni: tra l’eccellenza oblativa della dedizione e l’abisso oscuro dell’abbrutimento, la persona umana scopre la sua vocazione più propria e irrinunciabile, che impedisce la via breve delle facili definizioni e disegna un perimetro inviolabile, rispetto al quale ogni invadenza del potere, più o meno formalmente legittimato, diventa immediatamente una profanazione.
Qui incontriamo un ulteriore punto di resistenza, che nasce dal dislivello incommensurabile tra l’altezza del vis-à-vis, in cui il riconoscimento raggiunge la forma più alta di reciprocità interpersonale, e ogni altra forma di relazione tra la persona e tutti gli altri individui viventi (e a fortiori non viventi); in quest’ultimo caso l’autentica reciprocità è impedita da una asimmetria qualitativa (relativa cioè non a una disparità di funzioni, ma a una differenza di “natura”), potendo quindi surrogarla solo con esperienze circoscritte di relazionalità impropria. Ciò è evidente già per l’assenza di un logos condiviso, da cui dipende quella forma essenziale di comunicazione pubblica che è il presupposto e l’essenza stessa della politica.
Il grande tema del rapporto tra natura in senso generale e natura umana in senso specifico, al centro della svolta biocentrica già ricordata, è interpellato direttamente da questa sfida, che s’interroga intorno alla differenza fra relazione personale (io-tu) e impersonale (io-esso). Lo statuto stesso della politica può essere esteso solo in modo indiretto al mondo della natura, in quanto quest’ultimo è unicamente oggetto di attenzione politica e non certo soggetto e protagonista attivo. È il motivo ultimo del difficile equilibrio tra etica privata ed etica pubblica: al di là dell’oscillazione estrema tra individualismo libertario e Stato etico, la necessità di distinguere senza separare rappresenta un compito di cui si fanno carico tradizioni di pensiero anche molto diverse: nella linea di Tommaso, si tratta di promuovere «un’opera comune da compiere da parte del tutto sociale come tale», senza dimenticare che «ciò che c’è di più profondo nella persona, la sua vocazione eterna, con i beni connessi a tale vocazione, è sovraordinato a quest’opera comune e la finalizza» (Maritain 1973, p. 174); nella linea della migliore tradizione liberale, si tratta di assegnare alla politica il compito di tutelare nello spazio pubblico soprattutto una ”libertà negativa”, evitando di ipostatizzare tale spazio come se fosse una gigantesca entità sovrapersonale, soggetto di “libertà positiva”, di cui i singoli individui non sarebbero altro che momenti particolari (Berlin 1989).

2.4. In tale prospettiva anche l’appello alla “terza persona” conferma il carattere illimitatamente aperto della relazione interpersonale: c’è sempre un “lui” che può diventare un “tu” proprio in quanto riconoscibile come un “io” (Alici 2004). Dietro la mobilità funzionale delle persone verbali s’intravede lo statuto della persona ontologica, che fonda e garantisce una relazione aperta, consentendo a “chiunque” di essere “ciascuno”. Dietro questa singolare triangolazione delle relazioni interumane s’intravede la capacità eminentemente personale di tenere insieme prossimità e distanza, immediatezza e mediazione: il terzo impedisce al “noi” una deriva regressiva e identitaria, assimilabile alle forme primitive o addirittura subumane del clan e del branco.
L’inclusione del terzo nel circolo aperto e inclusivo del “noi” esige peraltro anche una dimensione di “terzietà” a livello istituzionale, postulata proprio dall’esigenza di trasformare una concessione paternalistica in un diritto inalienabile. La differenza evocata da Aristotele tra la mandria al pascolo e la forma politica del vivere insieme (Eth. Nic., IX 9, 1170 b 10-14) lo conferma: nel branco non c’è reciprocità, ma solo contiguità fisica, indotta da un fattore naturale esterno (il pascolo), che addirittura può scatenare una lotta per la soddisfazione dei bisogni; in una comunità di cittadini, invece, dalla comunicazione reciproca – vera e propria amicizia civile –scaturisce una istituzione “terza”, che garantisce uno spazio comune condiviso (anche se, rispetto ad Aristotele, si deve allargare drasticamente in senso quantitativo il cerchio della partecipazione).
È precisamente grazie alle strutture istituzionali dell’essere insieme – dalla famiglia alla società civile allo Stato, nell’articolazione e separazione dei suoi poteri – che la natura umana si prolunga in cultura, diventando una sorta di seconda natura, come tale generatrice di storia. La tesi posta all’inizio di Umanesimo integrale, fatta risalire proprio ad Aristotele («Proporre all’uomo soltanto l’umano […] è tradire l’uomo e volere la sua infelicità»: Maritain 1973, p. 58) testimonia che la natura umana non riesce ad essere soltanto “naturale”; appartiene al suo statuto singolare, in cui eccedenza e insufficienza s’incontrano, la possibilità di essere sorgente di cultura e di storia. Non dobbiamo dimenticare, in proposito, che l’obiezione mossa dalla filosofia moderna e contemporanea al paradigma classico, che avrebbe confuso leggi naturali e leggi morali, «trascura precisamente il fatto che nel paradigma classico non c’è contrapposizione tra natura e cultura, cioè la natura non è la condizione primitiva dell’uomo, la sua animalità, il puro dato biologico, ma è al contrario la sua umanità, cioè la cultura» (Berti 2015, p. 27).
Ancora una volta siamo dunque rinvati alla natura inoggettivabile e insieme irriducibile dell’umano, nel quale essere e divenire, singolarità e universalità, autonomia e partecipazione, natura e cultura, finito e infinito si toccano. Nasce da qui l’impossibilità di assegnare un prezzo alla persona umana (come anche Kant ha riconosciuto, distinguendo tra prezzo e dignità), proprio in quanto capace di riconoscere e “dare del tu” ad ogni altra persona, senza mai essere equivalente ad alcuna di esse.
La conclusione che si può ricavare da queste considerazioni è semplice ma non banale: rispetto all’approccio sostanzialista ed essenzialista, che tradizionalmente ha connotato la nozione di natura umana, a volte contribuendo a cristallizzarne l’identità in forme irrigidite e statiche, la semantica personale – assunta nel suo paradigma più autentico – fornisce un antidoto potente contro questa deriva, grazie all’idea di intenzionalità relazionale riflessiva, aperta e dinamica. Ogni volta che una definizione troppo “sostantiva” di natura umana rischia di diventare oggettivante e riduttivamente “naturalistica”, il confronto con la nozione di persona introduce un correttivo importante, evidenziandone il carattere del tutto singolare: nel sintagma “natura umana” è l’aggettivo qualificativo, infatti, che prevale sul sostantivo, fino a riqualificarlo profondamente. La persona, da questo punto di vista, non individua un segmento, una porzione, una funzione della natura umana, ma attesta l’interezza dell’umano nella sua eccellenza, che tuttavia include anche una povertà radicale: non poter tenere in pugno la propria natura, da esibire come se fosse un possesso privato. È la fragilità, al contrario, che rende particolarmente preziosa la persona umana (Alici 2016), chiamando in causa la corresponsabilità della cura come compito comune e fattore di atentica reciprocità.


Riferimenti bibliografici

Alici L. (2004), Il terzo escluso, San Paolo, Cinisello Balsamo.
Alici L. (2016), Il fragile e il prezioso. Bioetica in punta di piedi, Morcelliana, Brescia.
Berlin I. (1989), Due concetti di libertà, in Quattro saggi sulla libertà, tr. it. M. Santambrogio, Feltrinelli, Milano.
Berti E. (2015), Natura e cultura: il paradigma classico, “Dialoghi”, XV,2.
Heidegger S. (1968), L’epoca dell’immagine del mondo, in Sentieri interrotti, tr. it. di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1968.
Heidegger S. (1987), Lettera sull’«umanismo», in Segnavia, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano.
Jankélévitch V. (2000), La cattiva coscienza, a cura di D. Discipio, Dedalo, Bari.
Maritain J. (1973), Umanesimo integrale, tr. it. di G. Dore, Borla, Bologna.
Mounier E. (2004), Il personalismo, a cura di G. Campanini e M. Pesenti, Ave, Roma.
Taylor Ch. (1993), Radici dell’io. La costruzione dell’identità moderna, tr. it. di R. Rini, Feltrinelli, Milano.



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