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Condizione o natura? La risposta di Hannah Arendt

OLIVIA GUARALDO
Articolo pubblicato nella sezione Il futuro della natura umana

1.

Nel prologo al suo testo teoreticamente più denso, The Human Condition, (in italiano Vita Activa. La condizione umana) Hannah Arendt introduce la sua analisi discutendo di un fatto da poco avvenuto: il lancio del primo satellite in orbita, il 4 ottobre del 1957. Quel satellite è, naturalmente, lo Sputnik, e la valenza simbolica dell’evento non ha nulla a che fare, nella lettura di Arendt, con le rivalità spaziali tra le due superpotenze. Ciò che il lancio spaziale rappresenta è, invece, il radicale mutamento di prospettiva che il satellite rende non solo immaginabile ma anche praticabile. La terra vista dallo spazio, in altre parole, avrebbe finalmente reso possibile il raggiungimento del ‘punto di Archimede’, ossia quel punto esterno alla terra dal quale già lo scienziato greco sognava di poter sollevare il mondo (cfr. Arendt 1969). Non molto diversamente la scienza moderna, sin dai suoi esordi galileiani e newtoniani, ha presupposto uno sguardo sul mondo e sulla natura non più terrestre ma universale, nella misura in cui, afferma Arendt, tutto ciò che avviene sulla terra è divenuto ‘relativo’, ossia la relazione della terra con l’universo è divenuta il punto di riferimento di ogni misurazione (Arendt 1989, p. 200).
Cifra ineludibile della prospettiva scientifica è, in altri termini, la sua progressiva distanza dall’esperienza condivisa (come dimostra anche la riduzione della matematica all’algebra, che consiste nella riduzione della spazialità a segni privi di legami con la percezione umana dello spazio). Tale distanza coincide del resto con un’intraducibilità delle verità della scienza nel linguaggio comune. Cosa comporta tutto ciò in termini filosofici, o meglio, filosofico-politici? Per Arendt ciò che non può divenire oggetto di discorso non riguarda il mondo. Ciò di cui non si può discorrere, ciò che non si può trasformare in parola, ciò che non può formularsi in linguaggio pronunciabile e comunicabile, non riguarda la condizione umana. E’, appunto, “di un altro mondo”, come il satellite che lascia la terra e si inoltra nello spazio. Ma l’essere di un altro mondo non è garanzia di superiorità; per Arendt, semmai, è garanzia certa che questo mondo, lo spazio terrestre che abbiamo in comune e che determina la nostra condizione umana, è divenuto secondario e relativo: lo stiamo perdendo, forse lo abbiamo già perduto. Scienza e tecnica, sin dall’invenzione del cannocchiale di Galilei, contribuiscono ad allontanare l’uomo dalla sua posizione di bipede terrestre per proiettarlo in un altrove, oltre la terra, nello spazio, sia concretamente sia metaforicamente.
C’è una seconda questione che Arendt affronta nel prologo e che riguarda le conseguenze sociali della tecnica. La pensatrice sottolinea come l’automazione di molti processi produttivi abbia da una parte liberato l’uomo dalla fatica e dalla necessità, dall’altra abbia anche liberato dal lavoro una società di lavoratori, in un’epoca che ha conferito al lavoro un posto di preminenza tra i diversi ambiti della vita activa:
“L’età moderna ha comportato anche una glorificazione teoretica del lavoro, e di fatto è sfociata in una trasformazione dell’intera società in una società di lavoro.[...]E’ una società di lavoratori quella che sta per essere liberata dalle pastoie del lavoro, ed è una società che non conosce più quelle attività superiori e più significative in nome delle quali tale libertà meriterebbe di essere conquistata. [...] Ci troviamo di fronte alla prospettiva di una società di lavoratori senza lavoro, privati cioè della sola attività rimasta loro. Certamente non potrebbe esserci niente di peggio.” (Arendt 1989, pp. 4-5).
Alla luce della complessa situazione del mondo contemporaneo, in cui scienza e automazione paiono modificare in modo radicale la vita umana sulla terra, Arendt si propone di riconsiderare la “condizione umana dal punto di vista privilegiato che ci concedono le nostre più avanzate esperienze e le nostre più recenti paure” (Arendt 1989, p. 5). La pensatrice di Hannover ravvisa nell’epoca a lei contemporanea una “mancanza di pensiero” che si accompagna alla “ripetizione compiacente di ‘verità’ diventate vuote e trite” (p. 5), a fronte invece di innovazioni scientifiche e tecnologiche di grande impatto. E’ per questo che Arendt sente la necessità di tornare a “pensare a ciò che facciamo”.
L’attività del pensare (thinking) – in quanto distinta dal ‘conoscere’ (knowing)- consiste nell’abbracciare, con uno sguardo interrogativo e critico, ciò che ci circonda per “riconsiderare”, appunto, ciò che diamo per scontato, ciò che abbiamo smesso di interrogare. Un satellite lanciato per la prima volta in orbita nel 1957 è il simbolo della volontà umana di superare la condizione terrestre - così come la possibilità di sostituire la fatica del lavoro con le macchine realizzerebbe il grande sogno di liberare “il genere umano dal suo più antico e più naturale fardello, il giogo del lavoro e la schiavitù della necessità” (Arendt 1989, p. 4). Ciò che interessa la nostra, in altri termini, è, muovendo dalle esperienze contemporanee di ‘liberazione’ – dal pianeta terra, dalla fatica del lavoro – cogliere, al di là di una semplice adesione entusiastica ad un indiscutibile ‘progresso’, il senso del suo presente. Oppure la sua insensatezza.
Arendt dunque si chiede: che cosa cambia della nostra ‘umanità’ se cambiano le condizioni nelle quali essa si trova ad esistere? Ben oltre le certezze empiriche della scienza e della tecnica, l’attività interrogante del pensare muove dalla volontà di non limitarsi alla ripetizione automatica di banalità spacciate per ‘verità’, né di celebrare uno status quo che si nutre della costante speranza di raggiungere un generico ‘altrove’ (lo spazio, l’inconscio, l’utopia dell’assenza di condizionamenti materiali). Dove si colloca, in questa riflessione, la questione della ‘natura umana’? C’è spazio per essa nella riflessione arendtiana relativa alla human condition?


2.

Arendt afferma, sempre in Vita activa, che l’umano è un essere condizionato: sia dall’ambiente in cui vive (la terra) - per cui un cambiamento di ambiente cambierebbe radicalmente la condizione umana stessa – sia dagli oggetti, molto spesso prodotti dall’uomo stesso, che si trovano in quello stesso ambiente o mondo. In altri termini, l’umano è in grado di creare le proprie autonome condizioni di esistenza le quali, a loro volta, lo condizioneranno in maniera vincolante: “Tutto ciò che è in relazione prolungata con la vita dell’uomo assume immediatamente il carattere di una condizione dell’esistenza umana. Questa è la ragione per cui gli uomini, qualsiasi cosa facciano, sono sempre esseri condizionati” (Arendt 1989, p. 9).
Se la terra cessasse di essere l’unico pianeta vivibile, se, insomma uomini e donne dovessero cambiare radicalmente il loro ambiente di vita, ciò non potrebbe avvenire senza una trasformazione dell’ambiente estraneo, al fine di renderlo vivibile per gli umani. In questo caso, segnala Arendt, muterebbe non la ‘natura umana’, ma la condizione umana - che si troverebbe a dover determinare autonomamente le proprie condizioni di vita, per esempio rendendo abitabile un pianeta non adatto all’uomo. Il radicale cambio di ambiente (anticipato dal lancio del satellite, immaginato dalla science fiction del periodo) non farebbe che confermare che se c’è una ‘natura umana’ essa consiste nell’essere una natura condizionata ( p. 9).
Arendt infatti rifiuta la domanda attorno alla ‘natura umana’, in quanto ritiene che sia un atto di hybris poter definire in modo oggettivo e definitivo ciò che noi siamo, allo stesso modo in cui definiamo e conosciamo tutto ciò che noi “non siamo” - il mondo naturale, gli animali, lo spazio. In altre parole, mentre per la condizione umana possiamo oggettivamente osservare e determinare le condizioni nelle quali viviamo e il modo in cui ci determinano, non possiamo fare altrettanto per la nostra ‘natura’. La domanda agostiniana del “quaestio mihi factus sum”, “divengo domanda a me stesso” è destinata a restare senza risposta, perché, afferma Arendt, comporterebbe di necessità il saper “scavalcare la nostra ombra” (Arendt 1989, pp. 9-10). Se, in altri termini, cercassimo di definire l’uomo come definiamo gli altri esseri viventi, la definizione sarebbe parziale, non oggettiva. Eppure, si potrebbe obiettare, così fanno le scienze, che considerano l’umano da un punto di vista ‘naturale’, nella sua somiglianza con altre specie animali. Tuttavia sembra che Arendt intenda la domanda sulla natura umana non come una domanda intorno a “che cosa è l’uomo”, ma relativa a “chi siamo noi?” Solo questa è, per Arendt, la domanda filosofica sulla natura umana, alla quale, però, parimenti non c’è risposta. Oppure c’è l’insoddisfacente risposta filosofica per la quale “tutti i tentativi di definire la natura umana quasi invariabilmente finiscono con l’introduzione di una divinità, cioè con il dio dei filosofi, che, da Platone in poi, si rivela a un esame rigoroso come una specie di idea platonica dell’uomo” (p. 10). Questa hybris filosofica, che non a caso Arendt imputa a Platone, sarebbe ancora più sospetta di quella genericamente umana del voler autodefinirsi secondo canoni oggettivi che invece non possiamo possedere riguardo a noi stessi. In una sorta di pulsione auto-edificante, più che auto-oggettivante, il filosofo pone una versione ‘potenziata’ di se stesso come modello dell’umano, e così facendo getta una certa dose di discredito sulla sua capacità di dire davvero la verità sull’uomo: “[ma] il fatto che i tentativi di definire la natura dell’uomo conducano così facilmente a un’idea che ci si impone distintamente come ‘super-umana’ e che viene perciò identificata con il divino, può destare dei dubbi sulla possibilità di un adeguato concetto di ‘natura umana’” (p. 10).
E’ forse proprio per contrastare la pretesa filosofica che la natura umana si possa stabilire prendendo a modello il filosofo, che Arendt da una parte rifiuta la domanda attorno ad essa e dall’altra dedica l’intera sua opera a contestare il primato del theorein sulla praxis, della filosofia sulla politica. Se, appunto, la filosofia tende a “parlare dell’uomo al singolare”, come se esistesse un’unica ‘natura umana’ di cui il filosofo può scoprire le caratteristiche essenziali – oppure le può enunciare modellandole a partire da se stesso - la politica, nella peculiare accezione arendtiana, rifiutando la modalità astraente ed essenzializzante del theorein, non può che parlare degli uomini “al plurale”.
“La pluralità umana (…) ha il duplice carattere dell’eguaglianza e della distinzione. Se gli uomini non fossero uguali, non potrebbero né comprendersi fra loro, né comprendere i propri predecessori, né fare progetti per il futuro e prevedere le necessità dei loro successori. Se gli uomini non fossero diversi, e ogni essere umano distinto da ogni altro che è, fu o mai sarà, non avrebbero bisogno né del discorso né dell’azione per comprendersi a vicenda. Sarebbero soltanto sufficienti segni e suoni per comunicare desideri e necessità immediati e identici” (Arendt, 1989, p. 127).
Infatti, per Arendt, la pluralità umana – il fatto che “non l’uomo, ma gli uomini abitano la terra” – può mostrarsi in maniera inequivocabile solo sulla scena politica, nello spazio pubblico, dove appunto azione e discorso danno forma e voce a ciascuno/a – alla sua irriducibile differenza, che è tuttavia anche comunicabile e comprensibile. Detto altrimenti, contro la pretesa filosofica di postulare una ‘natura umana’ universale e definitoria, Arendt insiste sulla dimensione della pluralità come costitutiva della vita in comune, dello spazio pubblico, in cui ciascuno/a, attraverso parole e atti, discorso e azione, è in grado di mostrarsi agli altri, di rivelare la propria unicità. Se c’è una ‘natura umana’, quindi, essa consiste nell’irriducibile pluralità degli esseri umani, nella costituiva diversità di ciascuno rispetto a ciascun altro. Come a dire: ciò che accomuna gli umani (e li distingue dagli animali) è il loro essere irrimediabilmente unici, cioè diversi. E’ forse per questo che non è possibile, secondo Arendt, predicare in modo uniforme una ‘natura’ dell’umano, secondo un’omogeneità e un’invarianza costitutive?


3.

Significativamente, però, l’insistenza sull’impronunciabilità della ‘natura umana’ ha a che fare, nel pensiero di Arendt, con il carattere ossimorico dell’espressione: per lei natura umana è una contraddizione in termini. Non si dà ‘natura’ dell’umano in quanto ciò che definisce in maniera ‘naturale’ l’umano – la sua anatomia, la sua biologia, persino la sua psicologia – non ne coglie la specificità, la sua differenza rispetto all’animale. Tanto che, per Arendt, l’umano consiste nel trascendere tutto ciò che nell’umano stesso è ‘naturale’, tutto ciò che rimanda alla regolarità del biologico, alla tipicità del ‘naturale’. Ed è proprio per questa ragione che l’unicità non pertiene all’umano né nella dimensione del lavoro né in quella dell’opera.
La condizione propria del lavoro è, nella provocatoria analisi arendtiana, la vita stessa, nella sua accezione biologica. Il lavoro si fonda su una ciclicità ininterrotta, sul metabolismo del corpo che lavora per sopravvivere, per procurarsi i mezzi di sussistenza che poi consuma nuovamente lavorando. Nel lavoro siamo quindi ‘animali’, identici l’uno all’altro in quanto membri della specie. Ecco perché nel prologo sopra citato l’autrice mette in evidenza la paradossale situazione di una società di salariati, ossessionata dalla centralità del lavoro – e di conseguenza dalla centralità del benessere materiale – che sta per essere liberata dal lavoro stesso, a causa dell’automazione. Tale società è non solo incapace di trovare orizzonti di senso diversi da quelli del produrre e del consumare, ma è anche incapace di comprendere il valore della politica, la sua centralità per la piena umanizzazione. Solo l’azione infatti - e cioè la terza delle attività umane in cui si articola la vita activa secondo la tripartizione arendtiana (la seconda è la sfera dell’opera, dell’agire fabbricativo che costruisce oggetti) - è l’attività attraverso cui possiamo esperire la nostra radicale unicità e insostituibilità – che, per Arendt, sono quintessenza dell’‘umanità’. Detto con altre parole, l’umano è un essere condizionato, la sua esistenza dipende dalle condizioni in cui si trova ad esistere e persino dalle condizioni che egli stesso crea. Non è certo meno condizionato degli altri esseri viventi con cui condivide il pianeta, forse lo è in misura maggiore proprio perché produce e intensifica le ‘occasioni’ di condizionamento. Ciò che però distingue l’umano dall’animale è la capacità di trascendere la datità biologica, l’immanenza naturale. Forse anche questa capacità fa parte delle ‘condizioni’ entro cui l’umano si dà, una di quelle condizioni ‘create’, le quali poi, a loro volta, condizionano. La possibilità di staccarsi, distinguersi, separarsi dalla natura, costruendo uno spazio per il manifestarsi dell’umano nella sua ‘pluralità’ è ciò che Arendt chiama ‘politica’. Secondo la pensatrice tedesca, in sintesi, non è corretto porre la questione della ‘natura umana’ secondo il lessico dei filosofi; non è nemmeno lecito porsela secondo il lessico della scienza, perché ciò che caratterizza l’umano, nel lessico arendtiano, è proprio ciò che né la scienza né la filosofia riescono a cogliere: l’unicità di ciascuno che diviene, in comune, una pluralità.
Tale unicità dipende non solo dal fatto che siamo nati, ‘venuti al mondo,’ come esistenti potenzialmente unici – e non come esemplari della specie. Una volta intrapresa la strada dell’azione e del discorso, una volta solcata la scena pubblica in cui si prende parola, si esperisce la propria unicità solo di fronte e in mezzo ad altri. L’attore politico, infatti, esperisce la propria unicità solo ‘in comune’, nel momento pubblico dell’apparizione di fronte ad altri. Non c’è insomma unicità nello spazio privato della casa né in quello intimo dell’interiorità, così come non c’è unicità nello spazio fabbricativo dell’opera o in quello processuale e seriale del lavoro. Solo nello spazio pubblico in cui si pronunciano discorsi e si compiono azioni di fronte e insieme ad altri, solo nello spazio dell’iniziativa politica che ha per oggetto “il mondo comune” ciascuno/a può mostrare la propria unicità. Molte unicità riunite assieme fanno una pluralità: il fatto che si sia un “chi” anziché un “che cosa” diviene esperibile solamente nella sfera condivisa dello spazio pubblico, quando si agisce insieme ad altri:
“La distinzione degli esseri umani non si identifica con l’alterità – la curiosa qualità dell’alteritas inerente ad ogni cosa e quindi, nella filosofia medievale, una delle quattro caratteristiche fondamentali e universali dell’Essere, trascendenti ogni qualità particolare. L’alterità, è vero, è un aspetto importante della pluralità, la ragione per cui tutte le nostre definizioni sono distinzioni, per cui non riusciamo a dire ciò che ogni cosa è senza distinguerla da ogni altra.[…] Ma solo l’uomo può esprimere questa distinzione ed esprimere se stesso, e solo lui può comunicare se stesso e non solamente qualcosa – sete o fame, affetto, ostilità o timore. Nell’uomo, l’alterità, che egli condivide con tutte le altre cose e la distinzione, che condivide con gli esseri viventi, diventano unicità, e la pluralità umana è la paradossale pluralità di essere unici” (Arendt 1989, pp. 127-128, corsivi miei).
E’ all’interno del paradosso di un’unicità che accomuna nella diversità radicale che si modella quindi, nel lessico arendtiano, l’umano: essere condizionato per eccellenza, tanto da dipendere irrimediabilmente dalle condizioni che ha creato, l’umano esperisce la sua ‘natura’ di esistente unico solo nel rapporto con gli altri. Ed è proprio in questa dimensione relazionale – a cui lei dà il nome di ‘politica’ – che è possibile rintracciare la risposta di Hannah Arendt alla questione della ‘natura umana’. Se è vero che, come accennato sopra, Arendt rifiuta la domanda classicamente posta dalla filosofia su cosa sia l’uomo è altrettanto vero che entro la sua riflessione sulla vita activa la pensatrice tedesca colloca alcuni tratti essenziali dell’umano cui conferisce una preminenza. In vita activa, infatti, emerge fin da subito che il suo intento è soprattutto quello di rivalutare la praxis a fronte di una intera tradizione di pensiero che ha posto all’apice della scala valoriale delle attività umane la contemplazione. Ciò ha comportato la svalutazione della dimensione politica dell’esistenza umana – quella in cui l’umano esiste solo “al plurale” – a favore della dimensione solitaria e quieta della contemplazione. Se, infatti, sin dai tempi di Platone e Aristotele la vita attiva è caratterizzata da una dimensione di “inquietudine”, (“ascholia” per i greci, “nec-otium” per i latini), la vita contemplativa è invece una dimensione di quiete e tranquillità, il luogo silenzioso, lontano dal rumore del mondo, in cui solamente è possibile vedere la verità e ammirarla:
“Il filosofo può avere esperienza dell’eterno, che era per Platone arrheton (‘ineffabile’), e per Aristotele aneu logou (‘senza parola’) [...] soltanto al di fuori del regno degli affari umani e al di fuori della pluralità degli uomini” (Arendt 1989, p. 16).


4.

Risulta dunque chiaro che l’intera operazione genealogica intrapresa da Arendt - all’indomani della catastrofe totalitaria e della sua particolare hybris pseudo-filosofica e fabbricativa di voler non solo definire la ‘natura umana’ ma anche di modificarla - consiste invece nel tentativo di ripensare l’umano a partire da una rivalutazione della vita activa, ossia da una dimensione che rifiuta un’omogeneità di partenza. In essa gli uomini esistono solo “al plurale”, il che è un altro modo per dire che se partiamo dalla politica, dalla dimensione della vita activa, dobbiamo sgomberare il campo dalle certezze filosofiche relative ad una presupposta identità dell’umano. Lo sguardo rivolto alla politica, infatti, permette di presupporre solo una pluralità di esistenti, ai quali non è possibile attribuire alcuna identità sostanziale. Oppure, ogni tentativo di presupporre un’identità sostanziale tra essi significherebbe, ancora una volta, sottomettere la politica alla filosofia. Ad Arendt interessa invece un’altra operazione: provare a leggere l’umano non a partire dalla dimensione solitaria del soggetto pensante – che persegue la tranquillità favorevole alla contemplazione o l’omogeneità dell’identico che soddisfa il pensiero astratto - ma dalla dimensione plurale e inquieta del soggetto agente. L’inquietudine che caratterizza la praxis diviene del resto centrale per provare a sondare l’umano nella sua dimensione ‘non naturale’, ed è per questo che gli exempla tipicamente arendtiani, relativi a esperienze autentiche di agire politico, centrali nella sua operazione genelogico-immaginativa, ribadiscono la sua preoccupazione ‘anti-naturalistica’. Solo per fare alcuni celebri esempi: secondo la prospettiva grecoantica dell’etica aristocratica cantata da Omero, secondo quella della politica democratica esaltata da Pericle - che Arendt pone al centro della sua rivalutazione della vita activa - l’essere umano vuole agire di fronte ad altri per essere ricordato, per fare in modo che la sua vita non scorra identica a se stessa nel grande processo naturale di nascita e morte. Da questa e da altre valorizzazioni dell’agire politico come praxis, in cui ciascuno mostra la propria unicità, l’umano emerge come un vivente che ha bisogno di mostrarsi, di apparire agli altri per aver riconfermata la propria esistenza, prima che la propria unicità. Come Arendt dirà nel suo ultimo lavoro, pubblicato postumo, The Life of the Mind, vi sarebbe in ogni essere umano un “impulso all’autoesibizione”, che coinciderebbe con il “reagire con il mostrarsi all’effetto schiacciante dell’essere mostrati” (Arendt 1987, p.102). Il venire al mondo, l’essere mostrati, esposti allo sguardo altrui - una ‘condizione’ nella quale l’umano si trova ad essere, dall’inizio – instillerebbe in ciascuno/a un desiderio attivo di mostrarsi. Le forme che tale iniziativa esibitiva possono prendere sono potenzialmente infinite. Anche qui, è dunque chiaro, ciò che determina l’umano è ciò che in esso più si distanzia da una ‘natura’ intesa come dimensione del dato, dell’immodificabile, del tipico: “Il fatto che l’uomo sia capace di azione significa che da lui ci si può attendere l’inatteso, che è in grado di compiere ciò che è infinitamente improbabile” (Arendt 1989, p. 129).
Agire politicamente allora, per Arendt, significa dare una forma e un senso – rendendola efficace – all’ineludibile condizione umana della pulsione ad autoesibirsi: mostrarsi con parole e azioni di fronte a un pubblico, che è insieme testimone, giudice e co-protagonista delle imprese di ciascuno, significa tradurre in pratiche politiche collettive il bisogno del ‘vivente’ di mostrarsi per essere visto, considerato, confermato nella propria esistenza. La scena più propria per questa ‘esibizione consapevole’ è dunque la dimensione politica dell’azione e del discorso nello spazio pubblico.
Se c’è quindi un proprium dell’umano, potremmo concludere, esso coincide con una vocazione all’esibizione. Quasi che, in fondo, Arendt, pur rifiutando la domanda sulla ‘natura umana’, voglia comunque qualificare l’umano in una sua peculiare ‘essenza’, e lo faccia immaginandolo come il vivente che desidera venire riconosciuto nel suo mostrarsi. Un vivente già da subito tormentato dall’irrealtà, dal dubbio di ‘non contare’, di essere ‘superfluo’, bisognoso quindi di essere confermato nella sua esistenza, affamato di concretezza. Se questa è la più ‘essenziale’ delle condizioni a cui l’umano è consegnato, secondo Arendt, diviene allora chiaro come tutta la sua produzione teorica sia finalizzata non solo ad emendare le pretese filosofiche di stabilire una ‘natura umana’, ma anche a rintracciare un’ineludibile dell’umano, a cui è necessario, tanto più dopo gli esperimenti totalitari che miravano a negare l’unicità e sancire la superfluità di molti esseri umani, dare risposte. La sua risposta politica è che l’agire insieme ad altri, di concerto, è ciò che dà concretezza – e persino felicità, come dirà in Sulla Rivoluzione (Arendt 1983) - alla pulsione esibitiva di ciascuno/a, le conferisce senso legandola a un “mondo”.


BIBLIOGRAFIA

Arendt, H. (1969) The Archimedean Point, in “Ingenor” (Spring), pp. 4-9.
Arendt, H. (1983) Sulla rivoluzione, Edizioni di Comunità, Milano.
Arendt, H. (1987) La vita della mente, il Mulino, Bologna.
Arendt, H. (19892) Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano.



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