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Sartre: la natura umana è non avere natura

PAOLO NEPI
Articolo pubblicato nella sezione Il futuro della natura umana

1. L’esistenza senza ragioni

Nel panorama della filosofia europea del Novecento Sartre occupa un ruolo fondamentale, soprattutto nel trentennio che va dall'inizio della seconda guerra mondiale al Sessantotto. Il filosofo francese riesce a fare del discorso filosofico un discorso impegnato, e quindi molto presente nel dibattito pubblico, in cui riesce a immettere brillantemente alcune ardue tematiche speculative. Scriveva Armando Rigobello: «La posizione di Sartre è divenuta punto di riferimento quasi obbligato per le filosofie della crisi tra gli anni Trenta e gli anni Quaranta, ed è giunta fino ai nostri giorni accompagnando le varianti della crisi stessa ed impegnandosi anche a superarle in chiave marxista, un superamento mai effettivamente raggiunto. La posizione teoretica di Sarte sembra bloccare alla base ogni sviluppo il quale si rivela un compito etico piuttosto che teoretico, un commento culturale, o una partecipazione prammatica. L'io sartriano: il per-sé in conflitto insanabile con l'in-sé, è divenuto quasi una espressione nuova del cogito, un centro speculativo attorno cui si articola inevitabilmente il dibattito: Camus, Merleau-Ponty, Lévi-Strauss, Althusser, esistenzialismo, marxismo, culturalismo ed epistemologia non possono prescindere dal Sartre di L'être et le néant. Lo stesso Sartre ne è prigioniero» (Rigobello 1977, p. 11).
Mi sembra molto opportuna questa sottolineatura della centralità dell'io in Sartre, visto quasi come una versione aggiornata del cogito cartesiano. Una centralità che trova espressione anche in qualche vicenda che può apparire talvolta espressione di protagonismo. Nella motivazione con cui, nel 1964, veniva assegnato a Jean-Paul Sartre il Nobel per la letteratura, come sappiamo da lui rifiutato, si menzionava lo spirito di libertà che animava tutta la sua opera. Lo stesso rifiuto fu motivato dall'interessato con il fatto che i pubblici riconoscimenti rischiano di far perdere la libertà intellettuale. Penso abbia influito anche il fatto che, sette anni prima, lo stesso riconoscimento era stato attribuito ad Albert Camus, con il quale Sartre aveva avuto un rapporto di profonda amicizia intellettuale, trasformatosi tuttavia, nel corso del tempo, in una violenta polemica, anche di carattere personale.
Certamente è impossibile ridurre la complessa opera sartriana ad un'unica chiave interpretativa. Credo però che in qualsiasi autore si possa trovare un motivo dominante o, almeno, una traccia dominante, anche negli effetti prodotti dalla sua opera. Vedo tutto questo nella linea che unisce La Nausea (1938), L'essere e il nulla (1943) e L'esistenzialismo è un umanismo (1946). Possiamo considerarli una sorta di trilogia che, attraverso una molteplicità di prospettive e di generi letterari, approfondisce un'intuizione: l'essere si costituisce al di fuori di ogni garanzia metafisica e la coscienza è pertanto esclusivamente coscienza dell'angoscia esistenziale di fronte all'inconsistenza ontologica del mondo, in cui è tuttavia costretta a vivere. Tutto questo è espresso ne La nausea attraverso la finzione poetica del racconto; in L'essere e il nulla attraverso il tentativo disperato, e quindi condannato al fallimento, di costruire un'ontologia; in L'esistenzialismo è un umanismo tramite la prospettiva di un impegno morale incondizionato, l'unico in grado di conferire in qualche modo una parvenza di significato alla presenza dell'uomo nel mondo. L'intuizione originaria è contenuta inizialmente in questa disincantata constatazione: «ogni esistenza nasce senza ragione, si protrae per debolezza e muore per combinazione» (Sartre 1938, p. 180). Su questo registro, a mio parere, si costruisce la parte speculativamente più significativa del pensiero di Sartre, e sulla base di questo paradigma teoretico si può ricostruire la sua concezione del rapporto tra uomo e mondo, tra attività umana e natura.


2. La libertà come “condanna”

Il tema della libertà costituisce indubbiamente uno dei fondamentali temi di tutta la riflessione sartriana. Si tratta di una tematica che assume molteplici aspetti, attraversando diverse stratificazioni speculative ed esistenziali, da quella ontologica a quella antropologica, da quella politica a quella culturale e intellettuale. Anche per il tema di cui ci stiamo occupando, cioè la critica al concetto di “natura umana”, il tema della libertà costituisce dunque un passaggio obbligato, dal momento che l’idea di “natura” può far pensare a un qualcosa di dato e di sottratto all’iniziativa umana, e può sembrare quindi l'antitesi della libertà. Per indicare una sorta di identità tra la condizione umana e l'esperienza della libertà, egli arriva all'affermazione paradossale per cui l'uomo è in un certo senso “condannato” ad essere libero, come a dire che l'uomo è libero di qualsiasi cosa fuorché di essere libero.
Il tema della libertà, anche per Sartre, trova la sua più puntuale, convinta e sentita espressione nell'ambito dei rapporti sociali e politici. Sartre ha fatto parte, sempre peraltro con qualche accento di aristocratico dissenso e con un andamento altalenante nel corso degli anni, della sinistra. E qui risiede, a mio avviso, la fondamentale aporia speculativa della filosofia sartriana, sospesa tra il nichilismo ontologico che fa da sfondo a tutto il suo pensiero, e una appassionata, e probabilmente anche sincera, partecipazione alle sofferenze e al dolore dei propri simili.
Ma le ragioni della sua quasi ossessione per il tema della libertà si fondavano su qualcosa di più radicale rispetto alle sue possibili declinazioni sociali e politiche. La concezione sartriana della libertà rimanda a qualcosa che oserei definire originario e che rimanda alla costituzione ontologica della realtà in generale, e della condizione umana più in particolare. A questo livello va cercata la radicalità filosofica con cui egli afferma che l'uomo, a differenza della natura fisica, non costituisce una realtà data ma una realtà che si costruisce attraverso la sua capacità di autodeterminazione. In realtà neanche la natura fisica, come vedremo più avanti, costituisce una realtà data nella sua nuda oggettività, dal momento che è sempre l'uomo a trovarvi un senso e ad annettervi un valore o un disvalore.
L'opera di Sartre attraversa molteplici generi letterari, dal saggio psicologico al romanzo, dalle opere teatrali agli impegnativi testi di carattere filosofico. In uno dei suoi primi scritti, La trascendenza dell'Ego, che egli stesso vede come un saggio di psicologia in chiave fenomenologica, egli afferma che “l'Io non è un abitante della coscienza”. Con questo intende dire che l'Io non è prigioniero di una coscienza trascendentale in senso kantiano, segnata quindi da una fondamentale autonomia identitaria, dalla quale neanche Husserl sarebbe riuscito, secondo Sartre, a liberarsi, nonostante il concetto di intenzionalità; ma è il movimento stesso con cui la coscienza si apre, con una dinamica incessante, al mondo esterno. In questo contesto riveste un particolare rilievo l'immaginazione, vista come espressione di una coscienza che non è determinata né da forme a priori interne né tantomeno dagli oggetti esterni. L'immaginazione coincide dunque con la stessa libertà, in quanto esprime la condizione di totale assenza di condizionamenti dell'Io.
L'uomo si trova, dunque, condannato ad essere libero proprio in quanto tutto dipende dalla sua libera autodeterminazione, eccetto il fatto di esistere. È questo, per il filosofo francese,, il paradosso originario, una sorta di aporia ontologica, da cui è possibile uscire solo se l'uomo sceglie liberamente il senso del suo essere, dal momento che non ha potuto scegliere tra l'esserci e il non esserci o tra l'essere in un modo o nell'altro (maschio o femmina, bianco o nero, sano o malato....). Nelle pagine conclusive di L'essere e il nulla questa tesi è sostenuta con il ricorso ad una plastica e provocatoria immagine. Gli uomini, egli scrive, «scoprono nello stesso tempo che tutte le attività umane sono equivalenti. […] Così è la stessa cosa ubriacarsi in solitudine o guidare i popoli. Se una di queste attività prevale sull'altra non sarà a causa del suo scopo reale, ma a causa del grado di coscienza che essa possiede del suo scopo ideale; e, in questo caso, succederà che il quietismo dell'ubriaco solitario prevarrà sull'inutile agitazione del condottiero di popoli» (Sartre 1943, p. 752).
L'uomo si trova, dunque, ad esistere senza essere né avere nulla di predeterminato. Non esistono per Sartre né determinismi dell'origine né finalismi di tipo teleologico. «Ogni esistenza nasce senza ragione, si protrae per debolezza e muore per combinazione», come abbiamo visto sopra. All'origine della venuta dell'uomo al mondo sembra dunque esserci la pura casualità, e anche la sua fine sembra essere dettata da contingenze del tutto accidentali. Tra l'origine e la fine si snoda la vicenda esistenziale della libertà. Nella concezione che fa da sfondo alla nausea sembra che solo la debolezza consenta all'uomo di raggiungere la morte naturale. Ma anche la morte “naturale” non ha niente di determinato, dal momento che è connessa a imprevedibili e puramente casuali fenomeni di combinazione.


3. La morale oltre la malafede

Come ultimo tentativo di uscire dall'angoscia del nichilismo potremmo ricorrere a tutto quel mondo di bisogni e desideri che costituiscono il lato psicologicamente più interessante dell'uomo, anche se la psicologia da sola non basta a spiegare quale sia la loro funzione e soprattutto il loro significato. Occorrerebbe una ontologia, ma un'ontologia fondata sul primato dell'esistenza sull'essenza, dove l'essenza è svuotata di ogni contenuto oggettivo e normativo, non solo risulta fondamentalmente inutile, ma alla fine, come afferma lo stesso Sartre nelle pagine conclusive di L'essere e il nulla, “ci abbandona”. Dobbiamo, dunque, seguire il pensiero sartriano anche in quest'ultimo passaggio, dove perfino la dimensione emotiva viene affidata esclusivamente al potere nullificante del per sé, senza che possa trovare nessun oggetto per cui valga la pena di seguire una regola e realizzare un valore.
La psicologia dei bisogni e desideri, una volta che l'ontologia ci ha abbandonato, apre la porta al discorso morale, senza tuttavia che tra ontologia e morale si costituisca un passaggio logico necessario. L'essere e il nulla si conclude con l'affermazione che l'ontologia per se stessa non può formulare delle prescrizioni morali. «Essa si occupa unicamente di ciò che è, e non è possibile trarre degli imperativi dai suoi indicativi» (Sartre 1943, p. 750). In questa frase sembra di riascoltare il divieto, che ha caratterizzato il vasto filone della filosofia analitica, di passare dalle descrizioni alle prescrizioni. In realtà Sartre non contravviene al divieto, dal momento che non fa derivare nessuna prescrizione morale dalla descrizione ontologica. Per lui si tratta solo di prendere atto, dopo la fine di ogni illusione metafisica, che in ogni caso rimane la condanna della libertà, a cui l'uomo non può in alcun modo sottrarsi.
Nel corso della filosofia moderna, secondo Sartre, molti pensatori hanno ritenuto di superare la classica idea di una natura umana costituita di un'essenza specifica, frutto del progetto creatore di Dio, che opererebbe sulle cose del mondo come un artigiano che costruisce un tagliacarte, avendo in mente come deve essere realizzato tecnicamente l'utensile a cui lavora e sapendo bene ciò a cui deve servire. Essi non hanno però fatto l'ultimo passo conseguente all'aver negato l'esistenza di Dio, o comunque la sua conoscibilità in relazione al mondo. Ed è il passo che giunge quindi alla negazione, assieme all'idea dell'esistenza di Dio, anche di una realtà umana oggettivamente determinata. Non hanno dunque rinunciato all'idea della natura umana costituita in una essenza specifica, che ritengono anzi rafforzata dal fatto che tale essenza si giustifica ormai nella sua totale autonomia dall'essere Assoluto. «Questa idea – scrive Sartre – noi la ritroviamo un po' dappertutto: in Diderot, in Voltaire e nello stesso Kant. L'uomo possiede una natura umana: questa natura, cioè il concetto di uomo, si trova presso tutti gli uomini, il che significa che ogni uomo è un esempio particolare di un concetto universale: l'uomo. In Kant da questa universalità risulta che l'uomo delle foreste, l'uomo della natura, come l'uomo civile, sono soggetti alla stessa definizione e possiedono le stesse qualità fondamentali. Così anche nel pensiero di Kant l'essenza di uomo precede quell'esistenza storica che incontriamo nella natura» (Sartre 1946, p. 50).
Se invece, come sostiene Sartre, non esiste una natura umana che ci guidi, né con una sorta di “archeologia del soggetto” né con la controfinalità di una “teleologia del soggetto” (come si può dire prendendo a prestito alcune categorie della ermeneutica di Paul Ricoeur), non resta che assumersi la responsabilità della propria scelta personale, che non può ricorrere a nessuna forma di delega. Ognuno è responsabile delle proprie scelte, da cui soltanto dipende il significato delle relative azioni. Questo vuol dire però che nessuno può pretendere il riconoscimento della bontà o meno del proprio agire, pena la caduta inesorabile nella malafede, che per Sartre costituisce il pericolo più grave di ogni comportamento morale.
Come scrive lucidamente Armando Rigobello, nel momento in cui l'ontologia ci abbandona, resta dunque solo la «disincantata presa di coscienza del carattere di malafede che investe la serietà della vita. Per serietà del vivere si intende qui l'atteggiamento compunto ed enfatico che discende dalla convinzione che cose ed avvenimenti, ordinati razionalmente e quindi finalisticamente da una Volontà superiore, attendano da noi, e proprio personalmente da noi, una risposta» (Rigobello 1977, p. 27).
L'uomo sartriano non è tuttavia predisposto per dare risposte, al massimo per fare domande, anche se a questo punto si aprirebbe il problema seguente: a chi potrebbe rivolgere le sue domande?
Alcuni ritengono che l'opera di Sartre non sia totalmente riconducibile alla prospettiva fondamentalmente nichilistica che abbiamo appena delineato. In effetti, a partire dalla sua riflessione sugli eventi connessi alla seconda guerra mondiale, e adottando alcune categorie del marxismo, Sartre maturerà nel secondo dopoguerra l'idea di un impegno sociale e politico all'insegna dell'idea di responsabilità, che costituisce una sorta di limitazione dell'idea di una libertà assolutamente incondizionata. La svolta del pensiero sartriano verso posizioni di un umanesimo positivo e non nichilista sarebbe rappresentata dalla Critica della ragione dialettica (cfr. Sartre, 1960). In quest'opera si prefigura una sorta di compimento dell'impegno umano di liberazione, quando, di fronte a situazioni di inaccettabile ingiustizia e di alienazione, alcuni uomini si ribellano e formano il “gruppo in fusione”, ovvero un “insieme pratico” che, almeno per un breve periodo, sembra realizzare una vera e propria comunione di valori umani condivisi e quindi oggettivi. Tuttavia si tratta, come si è detto, di un momento di breve durata. La rivoluzione, nata dalla ribellione, si rovescia immediatamente nel suo opposto, la “fraternità terrore”. La rivoluzione vittoriosa si consolida infatti attraverso la creazione di una piccola minoranza di custodi della verità. Questi, attraverso un “giuramento” di reciproco rispetto, si pongono al di sopra di tutti e fanno sì che la spinta rivoluzionaria si rovesci in nuove forme di alienazione.
Anche l'esperienza rivoluzionaria, sorta all'insegna della difesa di alcuni valori oggettivi connessi ad una certa idea di natura umana non alienata, si conclude dunque nella “condanna” a cui è esposto il destino nichilista della libertà. Non vi è dubbio, quindi, che la prospettiva nichilista di Sartre sia stata quella che ha influenzato il pensiero filosofico nei decenni centrali del Novecento. E potremmo dire che, con questa filosofia, egli ha influenzato non solo la filosofia accademica, ma anche il pensiero diffuso, diventando una sorta di vulgata fino a diventare una moda intellettuale.


Riferimenti bibliografici

La numerazione delle pagine nel corso del testo, in caso di edizione italiana, è sempre riferita a quest'ultima.
Rigobello A. (1977), L'impegno ontologico. Prospettive attuali in Francia e riflessi nella filosofia italiana, Armando Armando Editore, Roma.
Sarte J.-P., (1938), La nausée, Gallimard, Paris; trad. it. di B. Fonzi, La nausea, Einaudi, Torino 1990.
Sartre J.-P. (1943), L'être et le néant. Essai d'ontologie phénoménologique, Gallimard, Paris; trad. it. di G. Del Bo, L'essere e il nulla. Saggio di ontologia fenomenologica, il Saggiatore, Milano 1980.
Sartre J.-P., (1946), L'existentialisme est un humanisme (1946), Gallimard, Paris; trad. it. di G. Mursia Re, L'esistenzialismo è un umanismo, Mursia, Milano 1986.



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