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Il pacifismo giuridico e le sue varianti. Rileggendo Norberto Bobbio

FEDERICO OLIVERI
Articolo pubblicato nella sezione Tra le righe

Introduzione

Il «pacifismo giuridico» si presenta a prima vista come un modello teorico coerente e unitario. In sintesi, tale modello affida la costruzione della pace all'istituzione di una comunità politica sovranazionale fondata sul diritto, capace di superare lo «stato di anarchia» in cui gli Stati sovrani ricorrono alla guerra per risolvere le proprie controversie o perseguire una «politica di potenza» (Bobbio 1981). A uno sguardo più attento, però, il pacifismo giuridico si articola in numerose varianti non tutte ugualmente suscettibili di cadere sotto le obiezioni dei critici, soprattutto dei «realisti» che nelle guerre dell'ultimo ventennio hanno visto il fallimento empirico e l’insostenibilità teorica della via giuridico-istituzionale alla pace (Zolo 2002, p. x). Per sostenere questa tesi intendo ricavare dalle riflessioni di Norberto Bobbio sia il modello teorico che le principali varianti del pacifismo giuridico, attraverso un lavoro analitico di astrazione e ricostruzione. L'originalità del filosofo italiano sui temi della pace e della guerra, accompagnata dalla consueta chiarezza espositiva, rendono la sua opera particolarmente idonea a questo tipo di rilettura sistematica.
In primo luogo, le tesi di Bobbio mettono in luce l'epistemologia del pacifismo giuridico, assumendo la pace come fine da realizzare praticamente nella storia umana con gli strumenti del diritto positivo. Tale orientamento etico-politico si declina concretamente attraverso le definizioni dei concetti base della teoria. A partire dalle varie concezioni della pace, della guerra, del diritto e delle loro reciproche implicazioni teorico-pratiche si creano le premesse per le varianti del modello, nonché per specifiche valutazioni degli eventi storici passati e presenti, e per diverse critiche al vigente sistema di regole internazionali.
In secondo luogo, il ricorso sistematico di Bobbio al ragionamento noto come «analogia domestica» (Suganami 1989) permette di riconoscervi la metodologia centrale del pacifismo giuridico, soprattutto per la definizione degli obiettivi della teoria. Chi ricorre a questo ragionamento intende avvalorare le proprie tesi sull’ordine mondiale pacifico riproducendo su scala sovranazionale il processo che ha condotto su scala nazionale alla regolazione dei conflitti, tramite la nascita dei moderni Stati di diritto. Lo stesso autore però intende l'analogia domestica in almeno due sensi: come passaggio contrattualistico dallo «stato di natura» allo «stato civile», ma anche come passaggio dal dispotismo alla democrazia. Le varianti del modello teorico derivano proprio dal fatto che l'analogia può focalizzarsi su uno o più dei fenomeni politico-giuridici – il monopolio dell'uso della forza legittima attraverso la nascita di uno Stato o di una federazione di Stati, la giuridificazione dei conflitti, la democratizzazione del potere, l’affermazione di una cittadinanza fondata sui diritti, la costruzione di una giurisdizione indipendente e imparziale, ecc. – che hanno condotto a una relativa pacificazione delle società nazionali.
In terzo luogo, gli sforzi di Bobbio di dare sostanza operativa ed efficacia al pacifismo giuridico permettono di articolarne la dimensione normativa in senso stretto, affrontando tre problematiche: le regole fondamentali di cui un ordinamento internazionale deve essere provvisto per impedire o fermare le guerre, e per limitarne la violenza distruttiva; le istituzioni internazionali, provviste di adeguati poteri coercitivi e giurisdizionali, necessarie per garantire l'efficacia delle regole e i risarcimenti in caso di violazioni; i principi entro cui le istituzioni devono operare e secondo cui le regole devono essere implementate. Questi tre elementi – regole, istituzioni, principi – costituiscono la griglia formale da cui derivano i contenuti normativi del pacifismo giuridico. Le varianti discendono dai diversi modi di declinare tale griglia e di valutare rispetto ad essa il diritto e le istituzioni internazionali esistenti, a partire dalle Nazioni Unite, individuando le «riforme» necessarie per avvicinare la realtà alla teoria.
Bobbio, infine, ha intuito la necessità di collegare le ragioni teoriche del pacifismo giuridico con una specifica base storico-sociale, costituita non da una generica «società civile globale» ma dalle cittadine e dai cittadini del mondo impegnati attivamente nella costruzione di una comunità umana libera dalle guerre. Influenzato dall’amico Aldo Capitini (Capitini e Bobbio 2012, pp. 90-113) e dalla diretta partecipazione alla Marcia della pace Perugia-Assisi, fin dalla sua prima edizione del 24 settembre 1961 (Bobbio 1961a; Capitini 1962, p. 31), il filosofo ha identificato una delle condizioni per il successo del pacifismo in generale, e di quello giuridico in particolare, nell’esistenza di un forte movimento per la pace, capace di usare il diritto per contenere e prevenire le guerre. Tale dimensione di massa non mi risulta sia presente in nessun altro autore che persegue la «pace attraverso il diritto», ma dovrebbe costituire un elemento portante di questo modello teorico.


1. Diritto, pace e guerra: epistemologia del pacifismo giuridico

Il pacifismo giuridico si presenta in Bobbio come una teoria orientata dal punto di vista etico-politico. L’autore non si pone in maniera neutra rispetto al suo tema di ricerca, ma fa propria in modo dichiarato una precisa scelta valoriale: a favore della pace, contro l’uso della violenza bellica. Ne risulta una teoria critica dell’esistente, orientata al cambiamento dello status quo e interessata a evidenziare quegli elementi di realtà anticipatori di un regime giuridico-politico alternativo a quello attuale, dominato dalla realtà o dal rischio della guerra. Al tempo stesso, tale eccedenza etica del pacifismo giuridico rispetto alla mera legalità costituisce uno dei motivi che hanno indotto alla fine sia Bobbio (1999) che Jürgen Habermas (1999) a giustificare, a mio avviso in modo paradossale, azioni militari condotte contro il diritto internazionale vigente, come l'intervento della NATO durante la Guerra in Kosovo nel 1999, nella speranza di vedervi nascere un ordinamento giuridico sovranazionale finalmente efficace cui affidare la garanzia della pace mondiale.
Nel caso di Bobbio l’opzione etico-politica sottostante il pacifismo giuridico non è nata nel cielo astratto delle idee, ma si è sviluppata a seguito del trauma del fascismo e della seconda guerra mondiale, ed è maturata nel vivo delle tensioni della Guerra fredda. Secondo l’autore «ciò cui ci obbliga, oggi più che in qualsiasi altro momento della storia, l’intelligenza è a capire che la violenza forse ha cessato definitivamente di essere l’ostetrica della storia, e ne sta diventando sempre più il becchino» (Bobbio 1979, p. 28). L’elemento di assoluta novità che determina questo scarto nella storia umana è dato dalla diffusione delle armi nucleari, con la conseguente mutazione radicale della natura della guerra moderna, d'ora in avanti in grado di distruggere il pianeta e la vita umana su di essa.
In maniera inedita per il contesto accademico italiano degli anni Sessanta, Bobbio affermava che «la guerra giunta alle dimensioni della guerra atomica è puramente e semplicemente una via bloccata» (Bobbio 1966, p. 33, corsivi miei) nella risoluzione dei conflitti internazionali. Occorreva prendere atto che, «con la scoperta delle armi atomiche sempre più micidiali il tema stesso della guerra aveva cambiato natura: la guerra minacciava di essere non più uno strumento di potenza, com’era sempre stata, ma rischiava di diventare uno strumento di morte universale, e quindi d’impotenza assoluta» (ivi, p. 20). Ne derivava che «di fronte alla minaccia della guerra atomica (…) avremmo dovuto essere tutti obiettori di coscienza» (ivi, p. 22, corsivi miei). Tale «coscienza atomica», sviluppata da Bobbio anche grazie al contatto con Günther Anders, promotore del movimento tedesco contro la guerra nucleare (Bobbio 1961b), costringe il pensiero filosofico-giuridico a una svolta epocale: non si tratta più di giustificare la guerra, quanto a motivazioni, circostanze, modalità di svolgimento, ecc. ma di rendere la guerra stessa impossibile: «poiché la guerra non può più essere limitata, bisogna eliminarla» (Bobbio 1966, p. 79).
Anche se il rischio di una guerra atomica può apparire oggi meno pressante che negli anni in cui scriveva Bobbio, i pericoli di escalation in un quadro di «guerra infinita» e di accresciuta interdipendenza globale, di proliferazione di armi di distruzione e di loro accessibilità a soggetti non statuali, fanno ritenere l'eliminazione della guerra un obiettivo attuale. Così come torna di drammatica attualità la regolazione dell'uso della forza, a fronte della natura asimmetrica di molti conflitti contemporanei e delle tendenze alla criminalizzazione assoluta del nemico che fanno saltare i classici principi dello jus in bello, dai criteri di necessità e proporzionalità nell’uso della forza, all'esclusione dei civili dalle operazioni militari, al trattamento dei prigionieri.
La scelta di perseguire l'eliminazione della guerra con strumenti giuridico-istituzionali costituisce, nel caso di Bobbio, l'esito naturale di una determinata concezione del diritto. Da un lato, l'autore lo definisce nella sua accezione più lata come «l’insieme delle regole per l’ordinamento pacifico di un gruppo» (Bobbio 1965, p. 101, corsivo mio), mentre identifica la pace come «il fine minimo», ma anche il «fine comune», di ogni ordinamento giuridico. In particolare, «la pace è la condizione necessaria per il raggiungimento di tutti gli altri fini [libertà, giustizia, benessere, nda], ed è dunque la ragione stessa dell’esistenza del diritto» (ivi, pp. 100-101, corsivi miei). Dall’altro lato, l'autore ha indicato nella guerra l’antitesi del diritto (ibidem), pensando all'avvento della guerra atomica che si presenta come legibus soluta, nel senso che la sua stessa natura la rende «incontrollata e incontrollabile dal diritto, come un terremoto o una tempesta» (Bobbio 1966, p. 65).
Nonostante l'ambizioso obiettivo di eliminare la guerra, il pacifismo giuridico ha costituito per Bobbio un'opzione realista rispetto alle altre strategie a disposizione, distinte dall'autore a seconda che cerchino di prevenire o eliminare i conflitti armati «agendo o sui mezzi o sulle istituzioni o sugli uomini» (ivi, p. 79). Tanto più la strategia pacifista è complessa e profonda, quanto più è efficace ma anche difficile da attuare. Da questo punto di vista l'autore ha collocato il pacifismo giuridico in una posizione intermedia, di maggiore attuabilità e minore efficacia rispetto ad una modifica del sistema sociale ed economico complessivo, ma anche di minore attuabilità e di maggiore efficacia rispetto a politiche di disarmo e pratiche di non violenza. C'è sempre stata, inoltre, nel filosofo la chiara percezione che lo strumento del diritto non fosse sufficiente rispetto all’obiettivo della pace mondiale, e che questo andasse affiancato alle altre strategie (Bobbio 1965, p. 117).


2. Analogia domestica: la metodologia del pacifismo giuridico

Il ricorso alla cosiddetta «analogia domestica» costituisce un tratto distintivo del pacifismo giuridico dal punto di vista metodologico. Si tratta di un tipo di argomentazione che vuole dare sostanza alla strategia della pace attraverso il diritto riproducendo a livello sovranazionale, nelle relazioni tra Stati sovrani, i processi di pacificazione avviati in età moderna tra i membri e i gruppi delle società nazionali con la concentrazione dei mezzi della violenza legittima in capo agli Stati territoriali e ai loro apparati repressivo-militari. Bobbio vi ricorre di frequente nei suoi scritti:


Allo stesso modo che agli uomini nello stato di natura sono state necessarie prima la rinuncia da parte di tutti all’uso individuale della forza e poi l’attribuzione della forza di tutti ad un potere unico destinato a diventare il detentore del monopolio della forza, così agli Stati, ripiombati nello stato di natura attraverso quel sistema di rapporti minacciosi e preari che è stato chiamato equilibrio del terrore, occorre compiere un analogo passaggio dalla situazione attuale di pluralismo di centri di potere (…) alla fase di concentrazione del potere in un organo nuovo e supremo che abbia nei confronti dei singoli stati lo stesso monopolio della forza che ha lo stato nei riguardi dei singoli individui (Bobbio 1966, p. 85, corsivi miei).


La matrice di questa argomentazione è quella del giusnaturalismo moderno. In particolare, come ha ben sintetizzato Danilo Zolo, Bobbio


interpreta e sviluppa il contrattualismo di Hobbes in senso kantiano, attribuendogli una valenza universalistica e cosmopolitica. Nello stesso tempo interpreta Kant in chiave hobbesiana, assegnando al federalismo kantiano il significato di un vero e proprio progetto di superamento della sovranità degli Stati nazionali e di costituzione di uno «Stato mondiale» (Zolo 2004, p. 49).


Chi ricorre all'analogia domestica presuppone già l'esistenza di due problemi strettamente connessi tra loro. Da un lato, lo «stato di anarchia» in cui si trovano gli Stati nell’arena internazionale, in quanto soggetti ugualmente dotati del «potere supremo ed esclusivo di prendere decisioni ultime riguardo all’impiego della forza» (Bobbio 1966, p. 83), è interpretato come condizione principale delle guerre. Dall'altro, la scarsa efficacia delle norme di diritto internazionale, specialmente in materia di limiti nell'uso della forza, è ricondotta all'assenza di un potere superiore capace di imporsi sui singoli Stati, ovvero di «un potere coattivo capace di rendere efficaci le norme dell’ordinamento» (Bobbio 1984, p. 134).
L'analogia domestica ha, da sempre, suscitato vivaci obiezioni sul piano strettamente argomentativo rispetto, ad esempio, alla reale comparabilità tra la condizione degli individui nell'ipotetico stato di natura e la condizione degli Stati nell'arena internazionale. Lo stesso Bobbio era consapevole di queste difficoltà quando, provando a spiegare perché Hobbes non avesse esteso lo stato giuridico, quale stato di pace, alle relazioni tra Stati ha affermato che «ogni Stato ha mezzi sufficienti per provvedere alla propria difesa, di cui gli individui nello stato di natura sono privi, e pertanto ha una possibilità di sopravvivenza (…) che gli individui naturali non hanno», così che «mentre per gli individui il timore reciproco è distruttivo, gli Stati hanno fatto sinora del timore reciproco (…) la base stessa della loro convivenza» (Bobbio 1985, pp. 12-13). La questione più controversa, tuttavia, riguarda il tipo di potere coattivo sovranazionale che il ragionamento dell'analogia domestica conduce a individuare quale garanzia della pace mondiale: per Bobbio e molti altri pacifisti giuridici tale potere «non può essere altro che uno Stato unico e universale al di sopra di tutti gli stati esistenti» (Bobbio 1966, p. 85, corsivi miei).
Vedere nell’istituzione del «super-stato» o dello «stato di stati» il punto di approdo del pacifismo giuridico non è, a mio avviso, né praticamente desiderabile né teoricamente necessario. La prospettiva del «governo mondiale» si presta a due tipi di critiche. Il primo tipo di critiche insiste sul carattere irrealistico di una cessione totale di sovranità da parte degli Stati nazionali, specialmente di quelli più potenti, tanto ampia e irreversibile da dar vita ad uno Stato federale mondiale in senso stretto. Il secondo tipo di critiche insiste sui rischi legati all’inedita concentrazione di potere politico-militare-giudiziario che si verrebbe a creare con la nascita di uno Stato mondiale, per di più in una situazione di forte distanza del suo governo e dei suoi apparati dalle fonti di legittimazione e dai meccanismi di controllo di tipo democratico radicati a livello nazionale. Al momento risultano difficili da superare le obiezioni contro l’esistenza di una reale «sfera pubblica mondiale» che funzioni da contro-potere rispetto a un governo planetario, così come le critiche sulla scarsa trasparenza e democraticità delle istituzioni internazionali esistenti, o i dubbi sull’indipendenza e sulla reale capacità di intervento delle corti penali internazionali, compresa quella permanente istituita nel 2002 col Trattato di Roma.
La via da percorrere sembra essere un'altra. Lo stesso Bobbio ha più volte sottolineato lo stretto nesso esistente tra pace, diritti e democrazia (Bobbio 1990, p. vii) ed ha concepito la democrazia come forma di politica non violenta: «mentre il dispotismo può essere considerato la continuazione della guerra all’interno dello Stato, la democrazia internazionale può essere intesa come il modo di espandere e di rafforzare la pace al di fuori dei confini dei singoli Stati» (Zolo 2004, p. 50). Non sembra necessario dunque che il pacifismo giuridico identifichi «il terzo assente» tra gli Stati sovrani con uno Stato o un governo mondiale. Più promettente appare la prospettiva di «una politica interna del mondo senza governo mondiale» (Habermas 2005, p. 131), perseguita attraverso la globalizzazione del paradigma dello Stato costituzionale di diritto (Ferrajoli 2011, pp. 118ss). A tale prospettiva ben si adattano le affermazioni dello stesso Bobbio sul senso ultimo dell'analogia domestica, che unisce la monopolizzazione internazionale della forza alla regolazione giuridica e democratica di questa stessa forza:


Un sistema politico stabilmente, durevolmente, pacifico è quello in cui è avvenuto il passaggio del terzo fra le parti al terzo sopra le parti. [...]. Per essere efficace nel dirimere i conflitti fra le parti, il Terzo deve disporre di un potere superiore alle parti. Ma nello stesso tempo un Terzo superiore alle parti, per essere efficace senza essere oppressivo, deve disporre di un potere democratico, ovvero fondato sul consenso e sul controllo delle stesse parti di cui deve dirimere i conflitti (Bobbio 1989, p. 9, corsivi miei).


3. Regole, istituzioni, principi: i contenuti normativi del pacifismo giuridico

Il pacifismo giuridico non mira a riprodurre meccanicamente, su scala internazionale, i successi del diritto moderno nel limitare il potere sovrano e la violenza, soprattutto armata: esso individua anche alcuni contenuti normativi specifici, in termini di regole, istituzioni e principi, chiamati a realizzare il progetto di una società mondiale pacifica. Bobbio ha delineato le quattro tappe logiche che dovrebbero condurre ad un regime giuridico-politico internazionale capace di prevenire e terminare le guerre. Queste tappe includono, nell’ordine:


1. un patto preliminare e negativo di non aggressione fra gli Stati che si propongono di costituire fra loro una associazione permanente; 2. un secondo patto positivo in cui gli Stati concordano una serie di regole comuni per la risoluzione delle controversie, evitando così il ricorso alla forza; 3. l’assoggettamento ad un potere comune che sia in grado di far rispettare i due patti precedentemente sottoscritti, ricorrendo eventualmente all’uso della forza; 4. il riconoscimento e l’effettiva protezione di alcuni diritti di libertà, civile e politica, che impediscano al potere così costituito di diventare dispotico (ibidem, corsivi miei).


Le prime due tappe si configurano come altrettanti pacta societatis, con cui gli Stati auto-limitano reciprocamente la propria sovranità, individuando alcune regole fondamentali in grado di prevenire e arginare il ricorso alla guerra. In primo luogo, gli Stati devono rinunciare nell’arena internazionale, entro limiti certi e consensuali, all’uso della forza in tutte le sue forme, dalla minaccia all’aggressione militare. In secondo luogo, gli Stati devono obbligarsi a seguire norme e pratiche comuni per risolvere pacificamente i conflitti tra di loro.
Si tratta di norme che esistono già nell’attuale ordinamento internazionale, definito da Richard Falk (1969) come «modello della Carta delle Nazioni Unite», per distinguerlo dal precedente «modello di Westfalia». Nel primo modello infatti, a differenza del secondo, gli Stati hanno formalmente rinunciato al diritto sovrano di farsi guerra, istituendo un divieto generale di ricorso alla forza (art. 2, par. 4), e limitandone a due soli casi l’uso legittimo: da parte degli Stati, nell'esercizio del diritto di autotutela individuale o collettiva, in caso di attacco armato (art. 51); da parte del Consiglio di Sicurezza, per far fronte a minacce alla pace, violazioni della pace e altri atti di aggressione (artt. 39-42). Allo stesso modo, con la Carta delle Nazioni Unite, gli Stati membri si sono teoricamente auto-vincolati all’impiego di mezzi nonviolenti nella gestione delle loro controversie.
A complemento nazionale di simili regole internazionali, ritengo vada inserita a pieno titolo tra gli strumenti del pacifismo giuridico la costituzionalizzazione del divieto di guerra aggressiva, compiuta ad esempio dalla Costituzione Italiana del 1948 (Benvenuti 2010). Tale divieto va sostanziato con una regolamentazione delle procedure parlamentari di autorizzazione e finanziamento di interventi militari, oggi assai poco rigorose e trasparenti, anche attraverso forme dirette di partecipazione della cittadinanza alle scelte. Ritengo possa essere questa, più che l’idea che le democrazie non (si) facciano guerra in nome dei loro «valori», la modalità migliore con cui sviluppare la lezione kantiana ripresa anche da Bobbio del nesso tra pace e democrazia, inteso come «visibilità del potere» e limitazione delle sue modalità segrete di procedere proprio in materia di politica estera (Bobbio 1991, p. 215).
Ovviamente per essere efficaci, oltre che valide in astratto, le norme di jus ad bellum e di jus in bello devono essere supportate dall’esistenza di tutele giurisdizionali e di poteri sanzionatori effettivi, in caso di violazioni da parte degli Stati o di altri soggetti dotati di forza militare. Deve essere in particolare garantito anche a singoli e gruppi, oltre che agli Stati, il diritto di accedere ad una forma di vera giustizia sopranazionale. Come ha affermato Bobbio:


Si potrà parlare di tutela internazionale dei diritti dell’uomo [incluso il diritto alla vita, nda] solo quando una giurisdizione internazionale riuscirà a imporsi alle giurisdizioni nazionali, e si attuerà il passaggio dalla garanzia dentro lo Stato […], alla garanzia contro lo Stato (Bobbio 1982, p. 95).


Scartata, per le ragioni esposte sopra, l’opzione del governo mondiale, il pacifismo giuridico dovrebbe dedicarsi a mettere a fuoco una forma di governance globale pluralista invece che monista, diffusa invece che centralizzata, multilivello invece che focalizzata sul livello superiore (Habermas 2005, pp. 173-176). Al di là degli specifici accorgimenti di ingegneria istituzionale, la principale sfida del regime giuridico internazionale resta quella della democratizzazione radicale delle istituzioni e delle modalità di azione sovranazionali, a partire da quelle relative all'uso della forza, come nel caso del Consiglio di Sicurezza, e della gestione delle missioni militari da esso autorizzate. Come ha sottolineato sempre Zolo


anche la più liberale e democratica forma di costituzionalismo mondiale resterà una pura finzione istituzionale finché gli organi dell’applicazione coattiva dell’ordinamento internazionale coincideranno con gli apparati militari di un piccolo numero di potenze formalmente sottratte, grazie al loro soverchiante potere economico e militare [e al potere di veto all’interno del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, nda] a qualsiasi controllo giurisdizionale (Zolo 2004, p. 145).


Nell'ottica di una simile giuridificazione democratica del potere coercitivo sovranazionale, nel caso in cui uno Stato violi in modo sistematico i diritti dei propri cittadini, il problema non è solo quello di limitare la sua sovranità in nome di una «responsabilità di proteggere», ma è soprattutto quello di stabilire in modo condiviso precise modalità di intervento, tra cui anche forme che non prevedano l’uso della forza armata. Le operazioni di «polizia internazionale» per essere realmente tali devono distinguersi rigorosamente dagli atti di guerra, non solo per il loro diverso titolo giuridico, ma anche per il modo con cui vengono condotte. Viceversa esse diventano «uno strumento inidoneo a garantire i diritti, dal momento che, per il modo con cui vengono concretamente realizzate, tendono a non rispettare la distinzione fra combattenti e non combattenti e finiscono col violare in modo generalizzato i diritti umani più elementari» (Ruiz Miguel 2011, p. 143). Sarebbe un capovolgimento paradossale del pacifismo giuridico passare dalla pace attraverso il diritto e i diritti, al diritto e ai diritti attraverso la guerra.


4. Il «quarto assente»: i movimenti per la pace come base sociale del pacifismo giuridico

Il diritto da solo non sembra capace di creare le condizioni per una società mondiale pacifica, a meno che non sia rivendicato da cittadine e cittadini del mondo che facciano un uso emancipativo degli strumenti giuridici nazionali e internazionali. Il pacifismo giuridico non può restare il prodotto di benintenzionati intellettuali, ma deve vivere sul terreno delle mobilitazioni popolari contro la guerra, contro la produzione e la vendita delle armi, contro la militarizzazione dei territori e delle coscienze, contro un modello di sviluppo fondato sulla crescita infinita, indifferente all’aumento delle diseguaglianze e degli squilibri ambientali. Solo su questa concreta base sociale il pacifismo giuridico può liberarsi dall’accusa di essere l’espressione della «supposizione illuministica che sia possibile disarmare gli Stati e abolire la guerra affidandosi essenzialmente a strumenti normativi» (Zolo 2004, p. 137).
L'importanza della dimensione di massa per dare concretezza ai propri ideali etico-politici era chiara allo stesso Bobbio, quando ha ritenuto di dover incoraggiare tutti gli obiettori di coscienza del mondo a unirsi, e soprattutto quando ha affermato che una marcia per la pace di dimensioni mondiali avrebbe potuto dare un contributo decisivo all’abolizione della guerra (Bobbio 1997, p. xvi). La dimensione collettiva della mobilitazione e della presa di coscienza consente ai teorici del pacifismo giuridico di farsi cassa di risonanza per bisogni, analisi e proposte che emergono «dal basso», nella contestazione attiva dello strumento militare come risoluzione dei conflitti e nell'elaborazione di strategie alternative nonviolente. L’esistenza di movimenti locali e globali per la pace, collegati con altri movimenti per la giustizia sociale e ambientale, per il reddito e il lavoro, per la libertà di movimento e di residenza, per la democratizzazione del potere in tutte le sue forme, può inoltre prevenire il rischio di imporre dall’alto modelli giuridico-politici occidentali.
Se questo è vero, il problema della pace oggi non è tanto quello del «terzo assente» sopra gli Stati, ma quello che suggerisco di chiamare il problema del «quarto assente». Solo prendendo atto della grave difficoltà che viviamo oggi nel rilanciare, a tutti i livelli, una coalizione sociale articolata ma coesa che porti avanti l’agenda della pace, potremo ricominciare a contrastare efficacemente chi ha interesse a fare la guerra, soprattutto in tempo di crisi: Stati e gruppi armati in lotta per l’egemonia, governi autoritari, produttori e mercanti di armi, società private che fanno profitti sulle commesse per la ricostruzione o sull'appropriazione delle risorse dei paesi del Sud del mondo.


Riferimenti bibliografici

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