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L’amicizia, relazione duratura nel tempo

GIOVANNI GRANDI
Articolo pubblicato nella sezione I tempi della quotidianità

Per fare spazio all’altro in se stessi ci vuole tempo. Si tratta di una consapevolezza maturata già nell’antichità, come testimonia il racconto biblico della creazione: via via che l’alterità trova posto dinanzi al Creatore, scorrono i giorni. «Chi crea – come ha scritto Baharier – libera per fare posto, si stringe, si ritira» (Baharier 2014, p. 28), ma questo spazio per l’alterità non si dispiega interamente tutto d’un tratto: si amplia solo progressivamente, col passare del tempo.
Quando diciamo di desiderare che l’altro possa “trovare posto” accanto a noi e noi accanto a lui, a lei, sappiamo che – in effetti – non è primariamente di spazio che stiamo parlando, ma di tempo.
Certamente è importante il tempo riservato all’altro, quello che si trascorre insieme: il tempo della reciproca frequentazione deve superare l’occasionalità perché possa nascere qualche forma di legame. Tuttavia, al di la del tempo trascorso insieme, ciò che si direbbe caratterizzare quella relazione di particolare forza che chiamiamo “amicizia” è, semplicemente, il tempo trascorso. Non è l’intensità di pochi momenti quel che conferisce spessore ad una relazione, ma il suo perdurare, il suo rinnovarsi ed approfondirsi nello scorrere del tempo. Dalle “amicizie” ci aspettiamo cioè che possano superare la prova del tempo, che non si consumino ma piuttosto si irrobustiscano.
Come per tutto ciò che vale, anche nel caso dell’amicizia, esplorare la coordinata del tempo significa soprattutto interrogarsi sulla possibilità della durata e su quel che rende attendibile il fatto che domani – accada quel che accada – l’altro, l’amico sarà ancora accanto.


A proposito della durata

Il problema della stabilità nel tempo delle realtà di valore ha attratto ben presto l’attenzione dei filosofi. Quando Aristotele si propose di riflettere sulla felicità, anche allora – nel IV Secolo a.C. – si ritrovò subito dinanzi allo scacco rappresentato dalla possibilità della perdita di quel che di buono poteva aver trovato spazio nella vita. Rileggendo una delle sue definizioni-quadro dell’idea di eudaimonia si intuisce che l’esperienza avvertita come più problematica doveva essere proprio quella del venir meno di ciò che si è faticosamente costruito o ottenuto. «Perché dunque – ragiona il filosofo – non chiamar felice un uomo che agisca secondo perfetta virtù e che sia provvisto sufficientemente di beni esteriori, non per un accidentale periodo di tempo, bensì lungo tutta la sua vita?» (Aristotele 1993, p. 22; I (A), 10, 1101 a 13-21). Le virtù e i beni esteriori sono additati come gli ingredienti per una vita buona, ma subito si nota che il nodo è la questione della loro disponibilità e presenza nel tempo. Come si comprende agevolmente, la bontà del vivere non è qui proposta come la possibilità di godere di momenti di rara nobiltà o bellezza, ma piuttosto come la possibilità della permanenza di quei legami che sostengono l’esistenza ordinaria.
La sapienza antica metteva per lo più in guardia dall’occasionalità delle esperienze, preferendo senz’altro la durata del bene alla sua intensità, ed appartiene già alle pagine dell’Etica Nicomachea il proverbio che avverte: «Una sola rondine non fa primavera, né un solo giorno; così neppure una sola giornata o un breve tempo rendono la beatitudine o la felicità» (Aristotele 1993, p. 15; I (A), 8, A 1098 a 18 - 21). Il valore è rappresentato dunque dalla continuità, dalla stabilità e – di conseguenza – il problema più consistente si condensa proprio nella possibilità della perdita, nella fragilità dei legami che sostengono la vita.
Questo tema ha impegnato le ultime riflessioni di Severino Boezio, che a sua volta ha rilanciato l’interrogativo su quel che davvero potesse considerarsi al riparo dalle insidie del tempo a venire: «Forse – fa dire alla Filosofia – tu credi che sia preziosa una felicità destinata a perire, e ti è cara una fortuna che è presente, ma che non è sicuro che rimanga, e che ti farà soffrire quando se ne andrà?» (Boezio 2006, p. 127; II, 1,13). Troppe cose appaiono durature ma in realtà non lo sono, cosicché chi si lega ad esse si espone al dolore della perdita. Così, almeno, insegnava l’esperienza di questo fine pensatore, che aveva conosciuto la magnificenza della vita di corte e in seguito rapidi rivolgimenti, che lo portarono in carcere in attesa dell’esecuzione capitale. Le ricchezze, gli onori, la fama… erano davvero queste le realtà su cui puntare, nella cui ricerca investire il proprio tempo?
Secoli dopo, riprendendo questo stesso genere di considerazioni, anche Tommaso d’Aquino ha ritrovato ancora il problema della durata, osservando che in fondo le vere misure della vita – in particolare per quanto riguarda proprio le esperienze di relazione – non possono che essere prese sulla vita-tutta-intera, qui secondo l’espressione regula totius vitae (Cfr. Tommaso d’Aquino 2014, p. 21 - ST, I-II, q. 1, a. 5, s.c.). Il banco di prova dei legami è anche a suo avviso proprio la possibilità di una fedeltà che abbracci l’intero corso dell’esistenza.
Gli antichi non erano ingenui: sapevano molto bene che la vita conosce talvolta rivolgimenti inattesi e improvvisi; d’altra parte non potevano fare a meno di registrare nell’umano una grande attesa di stabilità: la durata dei beni di cui progressivamente si arricchisce l’esistenza rappresentava così un valore primario per una vita che potesse essere detta effettivamente buona.
È all’interno di questa tensione che si è fatto strada il vero interrogativo, e cioè se vi fosse qualcosa di valore che potesse essere sottratto all’aleatorietà della sorte, dipendendo piuttosto dalla cura e dall’impegno personali. I beni rappresentati dalle virtù, tanto intellettuali quanto morali, sono apparsi ben presto come i migliori candidati in questo senso; a differenza delle risorse materiali difficilmente potevano essere sottratti alla persona, purché naturalmente questa si fosse preoccupata di averne cura.
I pensatori cristiani radicalizzeranno questa riflessione, concludendo che l’unico legame al riparo dalla corrosione del tempo e – in definitiva – capace di far fronte alla stessa morte, non poteva che essere quello con Dio. Anche in questo caso però si trattava di una relazione da coltivare nel tempo, proprio perché potesse oltrepassare il tempo.
Al di là però di questi sviluppi, già Aristotele aveva invitato a considerare che pure l’amicizia potesse – a certe condizioni – rientrare proprio nel novero delle “cose di valore” che fanno buona la vita e rispetto a cui, similmente alle altre virtù, il passare del tempo poteva essere più un alleato che non un’insidia. L’amicizia, dunque, rientra tra i beni che possono durare.
Ma a quali condizioni può mantenere questa promessa?


L’amicizia e il tempo durevole

La scelta di Aristotele è indubbiamente condivisibile: tutti noi diremmo che l’amicizia rientra tra i valori della vita e saremo anche d’accordo che le autentiche amicizie sono proprio quelle che superano la prova del tempo. Saremo anche d’accordo nel dire che, proprio come tutte le virtù, anche l’amicizia ha bisogno di cura e di un certo impegno.
La durata di un’amicizia però deve fare i conti con una ulteriore componente che le è costitutiva: ha bisogno della dedizione di entrambi gli amici. Ogni relazione di amicizia chiede da un lato un tempo di gestazione, e in questo è simile alle altre virtù, dall’altro esige un reciproco riconoscimento: la fedeltà della relazione – che rappresenta il versante durevole dell’amicizia – dipende solo per metà da noi stessi, e da questo punto di vista è allora dissimile dalla virtù; la sua stabilità dipende infatti da entrambe le persone e non dall’impegno di uno solo.
Potremmo chiederci se questa sorta di “doppia mandata” renda l’amicizia un “bene” più solido o viceversa più fragile rispetto alle altre virtù coltivabili – per così dire – “in proprio”.
Aristotele non esplicita questo problema, ma offre in questa direzione alcuni altri spunti, che continuano a chiamare in causa la funzione del tempo proponendo considerazioni forse interessanti da ritrovare ancora oggi.


La durata in funzione del baricentro della relazione

Il libro VIII dell’Etica Nicomachea è interamente dedicato allo studio dell’amicizia ed alle sue forme: proprio in avvio Aristotele ha proposto una articolazione che indirizza l’attenzione verso quello che potrebbe essere considerato il baricentro della relazione.
Esistono amicizie che hanno la reciproca utilità come punto di convergenza; ne esistono altre che hanno come loro fulcro una comunanza di interessi – in particolare un piacere condiviso –; infine ne esistono alcune per cui gli amici stessi sono, l’uno rispetto all’altro, punto di convergenza e fulcro.
Le prime due forme, secondo il filosofo, sono “accidentali”: «infatti colui che è amato non viene amato per via di quello che è, ma in quanto procura chi un bene, chi un piacere. Quindi simili amicizie sono facilmente caduche, poiché le persone non restano sempre uguali: se infatti esse non sono più piacevoli o utili, cessano di essere in amicizia» (Aristotele 1993, p. 197; VIII (Θ), 3, 1156a, 18-33). Accidentale significa non-essenziale: esistono cioè dei rapporti che, per quanto possano occupare molto del tempo delle persone, tuttavia non lasciano un segno in profondità, non strutturano un legame capace di durare.
Secondo Aristotele questo genere di rapporti è più tipico della giovane età: «L’amicizia dei giovani – ha osservato – sembra essere a causa del piacere: essi infatti vivono secondo la passione e ricercano soprattutto ciò che è piacevole a loro e nel presente; quando però l’età muta, anche le cose piacevoli divengono diverse. Perciò rapidamente essi divengono amici e rapidamente cessano di esserlo: infatti insieme con ciò che è piacevole, muta anche l’amicizia, e di un siffatto piacere rapido è il mutamento». (Aristotele 1993, p. 197; VIII (Θ), 3, 1156 a 32-37). Qui vediamo fotografato qualcosa che non si direbbe essere cambiato nel corso dei secoli: accade che si creino tra le persone rapporti di intensa familiarità, imperniati su una comunanza di interessi a partire dai quali si generano anche forme coinvolgenti di intesa. Alle volte questi rapporti si estinguono rapidamente non appena nell’uno o nell’altro sorge una nuova passione, un nuovo modo di impiegare piacevolmente il tempo. Ci si chiede allora se fosse vera amicizia e come sia possibile che una reciproca frequentazione anche piuttosto assidua abbia potuto dissolversi così rapidamente. Aristotele attribuiva questi rivolgimenti alle caratteristiche della giovane età, ma in effetti ha offerto qui una chiave di lettura che travalica le considerazioni sulla diversità delle stagioni della vita: quando il baricentro di un rapporto risiede in qualcosa di diverso dalle persone stesse, per quanto la consuetudine di frequentazione possa essere notevole, non si struttura la fedeltà reciproca. L’amicizia rimane cioè esposta e molto fragile, i partner possono essere facilmente sostituiti proprio perché sono “accidentali”. Accade dunque qualcosa di molti simile a quel che si verifica nel campo della maturazione di ogni virtù; qui il tempo disteso della ripetizione è la condizione essenziale perché possano strutturarsi, tuttavia non è una condizione sufficiente: una buona abitudine si radica solo se la persona la desidera per sé, altrimenti la semplice replica di determinati gesti o modi rimane accidentale e cessa non appena vengono meno il controllo, la pressione esteriore o semplicemente il vantaggio.
L’autentica amicizia chiede dunque qualcosa di ulteriore rispetto al tempo cospicuo trascorso insieme, sia pure in comunanza di obiettivi o di interessi: questo tipo di legame, prosegue ancora il filosofo, «richiede tempo e consuetudine» (Aristotele 1993, p. 197; VIII (Θ), 3, 1156 a 25-26) ma appunto anche l’essere «suscettibili di amicizia» (Aristotele 1993, p. 197; VIII (Θ), 3, 1156 a 29).
Cosa può significare più precisamente essere «suscettibili di amicizia»?
Indubbiamente l’essere – potremmo tradurre – buoni candidati all’amicizia implica la capacità di legarsi reciprocamente come persone, avendo riconosciuto l’altro come un bene per quel che è e non per quel che frutta – in vario modo – la sua compagnia o frequentazione. C’è però di più. «L’amicizia perfetta – osserva sempre Aristotele – è quella dei buoni e dei simili nella virtù. Costoro infatti si vogliono bene reciprocamente in quanto sono buoni, e sono buoni di per sé; e coloro che vogliono bene agli amici proprio per gli amici stessi sono gli autentici amici; quindi la loro amicizia dura finché essi sono buoni, e la virtù è qualcosa di stabile» (Aristotele 1993, p. 198; VIII (Θ), 3, 1156b 8-14).


La durata in funzione della bontà e della cura di sé

I buoni amici, coloro che sono «suscettibili di amicizia», sono quanti mostrano la capacità di rimanere accanto indipendentemente dai cambiamenti dei propri interessi, ma anche l’impegno ad aver cura di sé, a fortificarsi nelle virtù. Se la prima coordinata è abbastanza agevole da riconoscere – tutti saremo d’accordo che, come recita il detto, “gli amici si vedono nel momento del bisogno”, quando cioè rimanere accanto comporta fatica e non procura piacere o utile – non altrettanto lo è la seconda: in che senso il fatto di continuare a lavorare su se stessi coltivando la bontà è una condizione dell’amicizia autentica?
Aristotele qui si direbbe lasciare poco più di una suggestione: la durata dell’«amicizia perfetta», sentenzia, dipende dalla durata della bontà delle persone.
Questa considerazione si potrebbe tradurre così: l’amicizia non accidentale la si riconosce perché supera i mutamenti degli interessi. Resiste dunque a molto, tuttavia non a tutto. Quel che la mette a rischio è il mutamento delle persone, è il venir meno – nell’uno o nell’altro – della “bontà”, della “virtù”.
Si tratta di uno snodo su cui sostare, perché la fugace annotazione dell’Etica Nicomachea – l’amicizia autentica «dura finché [gli amici] sono buoni» – coglie in effetti un aspetto interessante nell’evoluzione dei rapporti tra le persone, che può tradursi in qualche annotazione non del tutto scontata.
Esistono indubbiamente molte relazioni superficiali, che si dissolvono venendo meno le ragioni dell’utile e del piacevole: la rapidità del loro tramontare e la facilità della sostituzione ne rivelano la natura “accidentale”. Al netto di queste forme improprie di amicizia rimangono quei legami che le persone riconoscono come più profondi, come realmente appartenenti alla dimensione del tempo che si fa storia, legami rispetto a cui matura una legittima attesa di durata proprio perché esprimono una similitudine nella virtù e non tra questo o quello tra gli interessi di ciascuno. Sono, questi, i rapporti essenziali per una vita buona: come ha scritto Charles Taylor, lo sono perché formano l’identità stessa della persona e per questo «non possono essere visti – in linea di principio e in partenza – come qualcosa di cui è possibile fare a meno, e ch’è destinato a essere soppiantato da qualcos’altro» (Taylor 2006, p. 63). Eppure, stando ai cenni di Aristotele, anche queste relazioni possono spegnersi, accade di doverne fare a meno. Il loro raffreddamento e la loro estinzione – a differenza del caso delle amicizie accidentali – sono processi lunghi e dolorosi. Lunghi, perché riflettono i tempi di evoluzione delle virtù: lente nel maturare, lente nel deteriorarsi. Dolorosi, perché nello scioglimento di un’amicizia essenziale quasi si congela qualcosa dell’identità stessa delle persone: rimane un sentiero interrotto, a cui la memoria ritornerà spesso, chiedendosi se sia mai possibile una ripresa. Non a caso le fratture più enigmatiche sono proprio quelle in cui non è possibile addebitare l’allontanamento ad un fatto specifico, ben individuabile – come appunto lo sono i mutamenti di interesse – ma lo si attribuisce ad un cambiamento della personalità: «È cambiato, è cambiata», si dice, «non è più lui, non è più lei».
Tenendo presenti queste esperienze si può comprendere forse meglio il cenno dell’Etica Nicomachea e trarne una avvertenza: tolti i colpi imprevedibili della sorte – gli amici possono essere sottratti gli uni agli altri anche per cause del tutto estrinseche – l’unica vera ipoteca sulle relazioni essenziali è rappresentata dai cambiamenti di profondità di ciascuno. A questo livello ci sono cambiamenti dell’ordine della crescita nelle virtù, e questi non rappresentano mai un rischio ma – al contrario – sono proprio quel che sulla più lunga distanza rinforza la capacità stessa di relazione della persona. Sono anche però sempre possibili dei cambiamenti dell’ordine del negativo: la bontà può perdersi, può non essere più coltivata e così lasciare posto al suo contrario.
Si potrebbe allora dire che la cura di sé e il continuare a maturare personalmente nel bene costituiscano il più profondo rinforzo che ciascuno può dare, per parte propria, ad un rapporto autentico di amicizia. Dipende cioè da ciascuno l’essere «suscettibile di amicizia» e il dare consistenza alla promessa di durata.
Insieme, si potrebbe anche osservare che ogni frattura o raffreddamento di amicizie storiche – non solo appunto di lunga data, ma incisive nella costruzione dell’identità biografica – segnala il venir meno della similitudine delle persone proprio nella virtù.
Si tratta di una tesi piuttosto radicale, perché non dice semplicemente che i percorsi di vita si sono differenziati. Anche questo accade, ma non implica un venir meno della consistenza del rapporto. Ci sono legami che rimangono vivi nel tempo nonostante la lontananza fisica e la diversità delle strade intraprese: amici che magari si perdono di vista, ma che continuano a crescere personalmente nella virtù e nel bene, non fanno alcuna fatica a riconoscersi quando si presenta l’occasione. Basta poco ed è come se il tempo di separazione svanisse: è come se ci si fosse salutati l’ultima volta soltanto ieri.
La tesi della rottura come dissomiglianza nella virtù dice qualcosa di altro rispetto alla diversificazione dei percorsi: suggerisce che il venir meno di un’amicizia (essenziale, non accidentale) segnali l’ingresso nella vita dell’uno o dell’altro (o di entrambi) di qualcosa che appartiene allo spettro del male. Le «amicizie perfette» muoiono solo se l’uno o l’altro degli amici (o entrambi) si volgono in qualche misura al malvagio, se smettono di coltivare in se stessi le virtù, se fanno spazio a modi di essere problematici di cui l’alterazione della personalità e la difficoltà nel riconoscersi si fanno sintomo globale.
Da questo punto di vista osservare la durata delle proprie «grandi amicizie» – per usare qui un’espressione di Raïssa Maritain –, la tenuta della loro promessa e soprattutto il trend della loro evoluzione (ogni giorno più stretti nello sviluppo delle virtù o viceversa più lontani e dissimili?) può diventare una sorta di primo luogo di verifica per fare il punto sul proprio percorso di maturazione e sulla propria «suscettibilità di amicizia».


Amicizia: legame fragile

Questo genere di considerazioni – molte altre se ne potrebbero evidentemente fare – porta forse a mettere a fuoco una possibile risposta all’interrogativo sulla maggiore o minore fragilità del “bene” dell’amicizia rispetto alle altre virtù, stante il suo dipendere da due e non da uno solo. La “doppia mandata” rende l’amicizia un bene più forte rispetto ad altri finché entrambi crescono nella virtù. Insieme, rende questo legame più debole rispetto ad altri nel momento in cui anche uno solo cessa di indirizzarsi fattivamente al buono.
Dell’«amicizia perfetta» si può dire allora che è fragile, secondo l’etimologia rilevata da Isidoro di Siviglia nelle sue Etimologie: «Fragile, ovvero che può essere infranto». Di questa possibilità – come ha commentato Carla Canullo – ci si avvisa reciprocamente quando si ha a che fare con qualcosa di molto pregiato, di cui prendersi cura (Cfr. Canullo 2010, p. 49).
Perché vi sia durata, la promessa di fedeltà reciproca deve dunque in qualche modo includere una promessa di cura dell’altro ma anche di sé e della propria maturazione nel bene: l’impegno nel prendersi cura è, in fondo, quel che rende attendibile il fatto che domani – accada quel che accada – l’altro, l’amico sarà ancora accanto.


Bibliografia

Aristotele (1993), Etica Nicomachea; tr. it. di A. Plebe, Laterza, Roma-Bari.
Baharier H. (2014), La valigia quasi vuota, Garzanti, Milano.
Boezio S. (2006), La consolazione della filosofia; tr. it. di C. Moreschini, Utet, Torino.
Canullo C. (2010), Fragilità e vulnerabilità dell’umano, in L. Sandonà (ed.), La struttura dei legami. Forme e luoghi della relazione - “Anthropologica” Annuario di studi filosofici, La Scuola, Brescia.
Taylor Ch. (2006), The Malaise of Modernity, (1991); tr. it.: Il disagio della modernità, Laterza, Roma-Bari 2006.
Tommaso d’Aquino (2014), Somma di Teologia; tr. it. di T. S. Centi, R. Coggi, G. Barzaghi, G. Carbone, ESD, Bologna.



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