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Democrazia. In memoriam

ERMANNO VITALE
Articolo pubblicato nella sezione Tempo, storia e politica.

1. La cara estinta

In una prospettiva laica, l’unica propria della democrazia, nulla ha più a che fare col tempo che la morte, che decreta la fine del tempo a disposizione, senza il consolatorio infingimento di un’altra vita, eterna, che ci attende. Ebbene, molti sono i sintomi che inducono a ritenere che la democrazia sia ormai deceduta. Ma per prudenza mi limito a affermare che forse si tratta solo di uno stato di morte apparente, giusto per non escludere la possibilità dell’improvviso risveglio.
Preciso subito che non sto parlando della democrazia immaginata e mai venuta alla luce disegnata nel pensiero politico sette-ottocentesco, ma, sia chiaro, di quella minima (Bobbio) o realistica (Schumpeter). È deceduta, o tale appare, quella forma di democrazia delineata nelle costituzioni del secondo dopoguerra e che prende esplicitamente le distanze da promesse e da premesse troppo esigenti e illusorie per rifugiarsi nella verità effettuale e accontentarsi di modeste indicazioni normative. Modeste ma irrinunciabili, pena la totale mancanza di corrispondenza tra il nome e la cosa. Per avere una democrazia procedurale (o minima) non basta che molti abbiano i diritti politici e che si decida mediante la regola di maggioranza, anche se alle ristrette oligarchie che oggi più che mai comandano davvero fa comodo che così tutti pensino. Bisogna che: 1. si possa scegliere tra almeno due liste o due candidati che presentano programmi effettivamente diversi; 2. che alle liste o ai candidati sia data eguale possibilità di far conoscere ai cittadini tali programmi; 3. che tutti i cittadini dispongano dei prerequisiti economici e culturali minimi per poter comprendere e valutare, almeno in via generale, la qualità e l’attendibilità di programmi e proposte, nonché dei candidati che li avanzano.
Solo se grosso modo sono soddisfatte tali condizioni, ha senso il proceduralismo democratico e con esso il celebre “ciononostante” di Bobbio, quel “cionostante” con cui egli tentava (era il 1984) quella che oggi appare una disperata difesa delle ragioni di preferibilità della democrazia, ragioni indebolite giorno dopo giorno in questi ultimi trent’anni di storia occidentale. La democrazia è preferibile, argomentava Bobbio, perché: permette il ricambio pacifico, senza spargimento di sangue, delle élite al potere; esprime una società civile davvero tale, che si configuri cioè come una sfera pubblica che ammette e valorizza il dissenso; favorisce la possibilità di produrre profonde “rivoluzioni” nel costume, anch’esse, ovviamente, ottenute mediante conflitti anche aspri ma regolati, che non degenerano in lotte tra fazioni.
Ho indicato Bobbio come riferimento preminente, ma se al suo posto si pensasse a Popper, Dahl o Sartori le conclusioni non sarebbero sostanzialmente diverse. Per tutti i grandi studiosi contemporanei della democrazia, in fondo, nonostante le famose promesse non mantenute e non mantenibili, questi tre elementi, strettamente connessi tra loro per cui simul stabunt simul cadent, consentivano di stabilire la superiorità della forma di governo democratica sulle sue rivali novecentesche, la dittatura e il totalitarismo.
Ebbene, possiamo seriamente affermare che questi tre elementi distintivi di una concezione minima della democrazia rispetto alle forme di autocrazia sono ancora sufficientemente presenti nella realtà, starei per dire nella quotidianità, dei regimi democratici contemporanei? Prendiamo per comodità il caso italiano, forse eclatante ma non credo eccezionale. Potrei a lungo soffermarmi sulle quotidiane ferite inferte alla Costituzione da molti anni a questa parte, sull’abuso della decretazione d’urgenza e del voto di fiducia, sugli effetti deleteri di una legge elettorale nota come Porcellum e sui tentativi in corso di peggiorarla per recidere alla radice il senso della rappresentanza politica democratica, insomma sullo svuotamento del ruolo di un legislativo ormai fantasmatico e totalmente annichilito dall’esecutivo (una delle ragioni per le quali, secondo Locke, i cittadini potevano legittimamente esercitare il diritto di resistenza).
Tutto questo renderebbe l’idea di una democrazia fragile, forse molto compromessa, ma non ancora perduta, qualora sopravvivessero consistenti tracce di reale e efficace opposizione sia nelle sedi istituzionali sia nella cosiddetta “sfera pubblica”. Ma quando da una parte si accarezza l’idea del Partito della Nazione, anticamera del partito (di fatto) unico, e dall’altra la sola opposizione numericamente consistente è un coacervo di posizioni senza alcuna visione alternativa della società e senza nessuna capacità di fare politica, questo significa che la possibilità di sostituire l’élite al potere senza spargimento di sangue diventa meramente teorica, astratta, o se preferite, politicamente impraticabile. Per il semplice fatto che viene a mancare il presupposto di base: il pluralismo delle élite, sostituito da un’oligarchia sempre in lotta al suo interno ma sostanzialmente compatta nel proporre e difendere gli stessi programmi e la stessa visione della società, al di là delle sigle politiche di volta in volta coniate per fingere una realtà plurale. Senza pluralismo delle élite non c’è ovviamente possibilità di scelta, non c’è reale alternativa.
Quanto alla tolleranza, si sarà notato che i grandi media usano ormai prevalentemente, e all’apparenza senza alcuna memoria storica, la parola “dissidente” per definire coloro che, seppur timidamente, esprimono dissenso rispetto alle posizioni del leader vincente di turno. Per quanto i due termini possano apparire sinonimi, l’etimologia di dissidente rimanda a dis-sedere, cioè a una forma di dissenso o discordia che comporta il “sedersi separatamente”, ovvero l’esclusione formale o sostanziale da una comunità. Non per nulla con l’espressione “Chiese dissidenti” si sogliono indicare le chiese cristiane non cattoliche. Ma, filologia a parte, anche un mediocre giornalista dovrebbe ricordare che non molto tempo fa in occidente il termine dissidente era riservato a chi si opponeva coraggiosamente, eroicamente (magari finendo in Siberia) al partito fattosi governo e stato in quei regimi autoritari o totalitari concepiti come l’esatto contrario della democrazia. Usarlo per definire gli appartenenti a questa o quella minoranza interna risulta piuttosto sinistro. Invece viene usato con disinvoltura come il più appropriato a definire coloro che dissentono, indicati ai consumatori d’informazioni – con evidente stigma – come disfattisti e menagrami.
Quanto alle rivoluzioni profonde, silenziose e pacifiche connaturate ai regimi democratici, in altri termini al progresso civile che riduce via via le discriminazioni e realizza l’eguaglianza nei diritti, il quadro non è certo confortante. Per rimanere all’esempio che proponeva Bobbio – la “rivoluzione” femminile –, la spinta a eliminare le discriminazioni di genere pare essersi non solo arrestata ma aver cambiato verso, con evidenti ripiegamenti verso un modello decisamente più tradizionale di relazioni fra i generi. Più in generale, forme di discriminazione, razzismo e xenofobia stanno guadagnando terreno nelle società democratiche, dando l’impressione che nella forma di governo che definiamo democrazia possano allignare con egual successo tanto le rivoluzioni come le controrivoluzioni del costume, dell’etica pubblica.
A questo punto vengono in soccorso delle larghe schiere degli ottimisti le interpretazioni parentetiche che vedono nella storia il dispiegarsi del progresso materiale e morale di un popolo o dell’umanità intera, pur ammettendo che vi possono essere, di tanto in tanto, parentesi regressive, temporanee e destinate a chiudersi tutto sommato rapidamente, rallentando un poco ma non invertendo il senso di marcia della storia.
L’esempio scolastico è l’interpretazione crociana del fascismo, antitetica a quella gobettiana per cui il fascismo rappresentava l’autobiografia della nazione. Seguendo l’indicazione crociana si potrebbe pensare che come la democrazia riprese il suo corso, e anzi si strutturò meglio, dopo il fascismo, così avverrà di nuovo: la tempesta neoliberistica del “Finanzcapitalismo” che sta scuotendo gli stati di diritto sarà superata da una democrazia migliore, all’altezza dei tempi che verranno. Seguendo al contrario l’indicazione gobettiana, l’apparire di un nuovo regime, di un nuovo ordine politico – soprattutto se si presenta sotto forma di cesura storica, di rottura netta con il passato – va studiato e compreso nella mutazione antropologica e sociale di lungo corso che ne costituisce la causa remota.
Pur ammettendo che le scelte a favore di questa o quella filosofia della storia hanno una componente idiosincratica, ritengo che le interpretazioni parentetiche della storia siano insoddisfacenti. Esse occultano, o minimizzano, la gestazione e la formazione profonda, appunto a livello socio-antropologico, dei processi di trasformazione dei regimi e delle istituzioni politiche.
Nella seconda parte di questo testo concentrerò l’attenzione su alcune plausibili ragioni “socio-antropologiche” dell’(apparente?) decesso della democrazia contemporanea. Un esito che – anticipo – ha molto a che vedere con una promessa non mantenuta e probabilmente non mantenibile, ma al tempo stesso centrale e ineludibile: una promessa che, se non mantenuta almeno parzialmente, trasforma l’atto di creare un potere politico mettendo una scheda nell’urna in un mero imbroglio, in un modo di approfittare della credulità popolare. Mi riferisco, in tutta evidenza, alla questione del “cittadino non educato”. La mancata educazione del cittadino, o addirittura la sua educazione alla rovescia, alla schiavitù del consumo compulsivo anziché alla partecipazione consapevole, ha a sua volta molto a che vedere con l’uso privato e pubblico della risorsa “tempo”.


2. L’infantilizzazione del cittadino

Nel 2007 B. R. Barber ha scritto un interessante libro sulla mutazione antropologica che sta erodendo dalle fondamenta il luogo comune occidentale per cui la democrazia reale (nel senso dei regimi storicamente esistenti) sarebbe un regime politico preferibile, nonostante tutto, a qualsiasi altra forma di governo. In Consumati. Da cittadini a clienti (Einaudi 2010; titolo originale: Consumed. How Markets corrupt Children, Infantilize Adults, and Swallow Citizen Whole) viene minuziosamente ricostruito il modo in cui un capitalismo predatorio e irresponsabile, mediante le tecniche del marketing e del branding, ha sconfitto la democrazia, trasformandola in mera apparenza, con un’operazione culturale cinica, semplice ed efficace: spogliando il cittadino, il soggetto che dà senso al proceduralismo democratico, non della titolarità ma della capacità di esercitare la cittadinanza. Il capitalismo ha bruciato i tempi, ha giocato d’anticipo: ai tempi lunghi necessari alla presa di coscienza democratica ai quali si affidavano i fautori della democrazia moderna (l’esercizio dei diritti politici è di per sé pedagogia della democrazia) ha opposto un’azione di sistematica infantilizzazione dei cittadini (attuali e a maggior ragione futuri).
Forse la sua intenzione iniziale era solo quella di costruire un mercato di merci inutili perché la “megamacchina” potesse ovviare alle crisi di sovrapproduzione di beni utili, ma il risultato è andato oltre le attese. Altro che quell’ingenuo di Schumpeter che distingueva tra la sfera privata, in cui l’individuo è capace di agire razionalmente, e quella politica, in cui l’individuo agisce emotivamente. Secondo Barber, nelle due sfere l’individuo infantilizzato si comporta allo stesso modo, in una sorta di omogeneizzazione al ribasso. Non si può più neppure confidare nel modello della razionalità privata – di chi sceglie oculatamente la polizza assicurativa che fa al caso suo – come contraltare alle preferenze “affettive” che dominano il comportamento politico della massa degli individui. Così per le oligarchie che senza dubbio “persistono” c’è stato, per così dire, un surplus di profitto, e con la creazione di un consumatore compulsivo si è avuta, di risulta, anche l’uccisione in culla di quella fastidiosa idea che prende il nome di cittadinanza responsabile. Essere infantili significa essere schiacciati sul presente, senza memoria e incapaci di rinunciare a qualcosa subito in vista di un maggior bene o vantaggio futuro, significa vedere il mondo dalla prospettiva del piacere immediato, significa essere incapaci di ponderazione e di condivisione, significa assenza di disciplina morale e intellettuale. Il cittadino educato dovrebbe stare agli antipodi dell’individuo infantilizzato: un tale cittadino presumibilmente rifiuterebbe di accettare la degenerazione consumistica del cogito ergo sum che campeggia sulla copertina dell’edizione italiana di Consumed (I shop therefore I am). Una sintesi brutalmente efficace, ma anche molto triste, dell’atrofizzazione economicistica della varietà dei talenti e delle inclinazioni di cui dispongono gli esseri umani.
Per distinguere la psicologia dell’adulto da quella del bambino, Barber riprende la tavola degli opposti proposta dal sociologo Neil Postman. L’infanzia, in antitesi all’età adulta, predilige:
l’impulso alla deliberazione;
il sentimento alla ragione;
la certezza all’incertezza;
il dogmatismo al dubbio;
il gioco al lavoro;
le figure alle parole;
le immagini alle idee;
il piacere alla felicità;
la gratificazione immediata alla gratificazione ritardata;
l’egoismo all’altruismo;
il privato al pubblico;
il narcisismo alla sociabilità;
il titolo (il diritto) all’obbligo (la responsabilità);
il presente senza tempo alla temporalità (oggi a ieri e domani);
il prossimo al remoto (l’istantaneo al duraturo);
la sessualità fisica all’amore erotico;
l’individualismo alla collettività;
l’ignoranza alla conoscenza.
Forse qualche opposizione è semplicistica o ridondante, ma mi pare che tutto sommato il quadro sia convincente. In altri termini, la regressione infantile, o lo stazionare in un’infanzia/adolescenza che non si riesce a abbandonare, produce un individuo-consumatore conformista, che aborre la fatica del pensiero critico ed è plasmato per preferire d’impulso il semplice al complesso, il facile al difficile e, soprattutto, il veloce al lento. La lentezza della deliberazione democratica, la sua complessità procedurale e le sue difficoltà a raggiungere una sintesi (un compromesso, avrebbe detto Kelsen) sono letteralmente incomprensibili a titolari di diritti di cittadinanza privati però della formazione elementare per esercitarla. Siamo di fronte a due dimensioni incommensurabili. Non a caso, i politici che incarnano la versione odierna del populismo evitano ogni mediazione istituzionale e si rivolgono direttamente ai cittadini come se parlassero, tutt’al più, a ragazzi delle scuole medie, e non dei più brillanti. E, nella logica machiavelliana dell’acquistare e mantenere il potere, lo fanno a ragione, perché sanno di avere di fronte molti “cittadini” così poco capaci di analisi critica da non trovare – solo per fare un esempio – nulla di almeno implausibile nelle parole di un Presidente del Consiglio che in febbraio affermava di poter cambiare le istituzioni fondamentali della Repubblica entro l’estate, alla velocità di una “riforma” al mese.
Qualcuno potrebbe obiettare che siamo dinnanzi al più classico degli argomenti realisti contro la democrazia, vecchio almeno quanto la discussione sulla forme di governo che si incontra nelle Storie di Erodoto, là dove Megabizo, parlando appunto a favore dell’aristocrazia, descrive il popolo come una massa inetta, incapace di ponderazione e di giudizio, spesso e volentieri violenta. Per quanto possano riscontrarsi alcune superficiali somiglianze, ridurre la tesi dell’infantilizzazione a mero realismo politico di taglio reazionario-conservatore significa fornirne una versione caricaturale. L’invito di Barber, al quale sommessamente mi associo, è a ritrovare le ragioni della partecipazione politica, a partire dalla consapevolezza della situazione presente. In altre parole, non c’è nulla di metafisico, di immutabile, di necessario, nella tesi dell’infantilizzazione. C’è la descrizione di un processo socio-culturale che oggi appare vincente e inarrestabile ma che in quanto tale si sviluppa storicamente, è soggetto al mutamento, può anch’esso indebolirsi e perire. Dare a ogni titolare di diritti politici quell’elementare formazione civile che ne consenta l’esercizio adulto è per un verso una promessa non mantenuta e forse non mantenibile dalla democrazia, ma per l’altro è la condizione pregiudiziale perché essa si risvegli e abbia un futuro.


3. Il nostro lascito

Un’ultima considerazione. Si potrebbe ritenere che perlomeno gli adulti infantilizzati, liberati dal peso che comporta la responsabilità di essere cittadini, possano godere di molto tempo libero e di quella spensieratezza tipica dei bambini. Che il tocquevilliano dispotismo mite dispensatore di piccoli e volgari piaceri sia, in fin dei conti, una comoda soluzione per adulti rimasti bambini. Della democrazia che ci fa perdere troppo tempo in noiose discussioni magari potremmo anche fare a meno, per avere più tempo libero da dedicare ad attività ludiche. D’altronde il pensiero liberale ha sempre messo in guardia dal rischio di confondere la possibilità di partecipare alla vita pubblica dall’obbligo di farlo.
Ma il punto è un altro, e riguarda proprio un altro modo – tutto interno al mercato – di svuotare di senso non solo la “libertà degli antichi” ma anche la “libertà dei moderni”. La vita del consumatore compulsivo, o aspirante tale, è una vita d’inferno, che ruba alla persona proprio il tempo libero, che riduce il tempo dell’affettività e della convivialità trasformandolo in tempo dedicato ad assolvere alla funzione sociale di consumare, al dovere di consumare, raddoppiando e rendendo onnipervasivo il tempo dell’alienazione. Vorrei concludere con un’ampia citazione di Barber, dove in fondo ci si domanda se, oltre alla democrazia, con la totemizzazione della lex mercatoria non si vada perdendo anche l’autonomia morale della persona: «Nell’economia capitalistica postmoderna è dura ritagliarsi un’esistenza tranquilla. Una società dello shopping ‘full-service’ ha bisogno di consumatori che possano disporre di tanto tempo libero; di fatto, però, lascia loro decisamente ben poco tempo, se non per i consumi e per il lavoro necessario a pagarli. Quindi, di rado il consumatore si sente veramente libero o rilassato. Le mete di villeggiatura e i viaggi per raggiungerle sono tutto fuorché un periodo di vacanza dallo shopping. Si fa shopping nei grandi centri commerciali degli aeroporti e delle stazioni ferroviarie, nei parchi a tema e nelle case da gioco, negli autogrill delle autostrade che percorriamo per raggiungere le destinazioni turistiche e ancora shopping quando arriviamo sul posto, nelle hall dei grandi alberghi e anche in camera, alla Tv e in internet. […] Per riuscire a tenere il ritmo con tutto questo l’individuo è chiamato a svolgere un lavoro duro e disciplinato. E se non lo fa, l’economia di mercato vacilla. Non deve stupire che il tempo libero, sempre più compresso all’interno di una lunga giornata di lavoro, spesso sia inteso come un vero lavoro a tempo pieno» (pp. 168-69).
In effetti, è da qualche anno che il mercato vacilla, anzi sbanda paurosamente, dando buoni argomenti a chi pensa che la cosiddetta crisi economica non sia ciclica, e dunque fisiologica, ma sistemica, vale a dire espressione di una patologia grave, mortale. A fronte di tutto ciò, le oligarchie politico-economiche transnazionali non fanno che ripetere che bisogna “far ripartire i consumi”, cioè utilizzare dosi ancora maggiori del “farmaco” che ha generato la malattia. Per uscire dalla “crisi” occorre costruire, a quanto pare, un lavoratore-consumatore ancora più docile e rimbambito di quello preconizzato da Tocqueville e disegnato da Barber.
Se le cose stanno così, rischiamo di cadere in balia della forma di totalitarismo più capillare che l’umanità abbia mai conosciuto. Questa è la pesante eredità politica che la fiducia mal riposta nella possibilità di coniugare per sempre capitalismo e democrazia, come invece avvenne solo congiunturalmente nel cosiddetto “trentennio glorioso”, lascia a chi oggi ha vent’anni e alle generazioni che verranno.



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