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L’utopia non è antiquata

CARLO ALTINI
Articolo pubblicato nella sezione: Lo spazio dell’altrove: metadiscorso sull’utopia.

1. Luogo ideale, eppure inesistente o impossibile, l’utopia rappresenta l’essenza della cultura moderna, nel suo sforzo verso l’emancipazione dell’individuo dai legami tradizionali e la realizzazione di una società garante di giustizia e libertà. In quanto comunità ideale, l’utopia si contrappone a una realtà storica degradata, proponendo un progetto meditato e razionale di società giusta in cui bisogni individuali e beni collettivi, aspirazioni private e scopi pubblici possano trovare una logica e armonica compenetrazione, tanto da giungere a costruire un «paradiso in terra». In questa prospettiva il carattere desiderante e immaginario dell’utopia rimanda a una concezione «aperta» dell’agire individuale e sociale, arricchita dalla dimensione della possibilità e della libertà, contro ogni immagine dell’esistente cristallizzata in una concezione chiusa e determinata della realtà, considerata al di là di ogni possibile valutazione critica. Ecco dunque il motivo per cui l’idea di utopia – sia essa un progetto di legislazione sociale o un viaggio immaginario, un laboratorio di esperienze o un modello di sovranità – si accompagna alla concezione moderna dell’homo faber che considera la «vita in comune» come un compito poietico da ordinare e razionalizzare secondo un progetto dato a priori e controllabile, secondo un’immagine fissata in una rappresentazione mentale. Dell’utopia esiste però anche un’altra faccia. Come è avvenuto per altri aspetti della cultura moderna (tra cui l’eguaglianza e la tecnica), i progetti utopici di emancipazione possono rovesciarsi nel loro esatto opposto, cioè in vere e proprie distopie caratterizzate da elementi totalitari, soprattutto nei casi in cui lo sguardo utopico sia inteso meccanicisticamente in vista di una compiuta omologazione culturale. Nell’immagine della comunità ideale, infatti, il dissenso è bandito in linea di principio: ciò che è perfetto, dunque non perfettibile, non ammette discussioni, non «diviene», bensì «è», autosufficiente e assoluto. In una completa eterogenesi dei fini, il desiderio utopico si trasforma così in un universo reificato, statico e definitivo che – sognando di risolvere «tecnicamente» i conflitti sociali – realizza il progresso storico-sociale determinando però, allo stesso tempo, la sua crisi irreversibile, tanto che l’impossibilità dell’utopia diventa una virtù politica, e non un difetto. La constatazione di questa ambiguità sottolinea dunque una verità filosofica e politica: se non vuol trasformarsi nel suo opposto, cioè nell’incubo delle distopie, l’utopia si delinea nella sua apertura e nella sua incompiutezza, che demistificano la pretesa datità del reale e declinano l’essere come possibilità, libertà e contingenza, non come necessità. L’utopia è tale solo se è un’«attesa», cioè una modalità di opporsi alla necessità del mondo.


2. Proprio perché con il termine «utopia» si intende generalmente una rappresentazione di un mondo lontano dall’esperienza (nel tempo e/o nello spazio) attraverso cui viene ripensata radicalmente la struttura sociale e politica, in vista di una profonda riforma di tutte le sue istituzioni (governo, istruzione, lavoro, proprietà, religione ecc.), la caratteristica comune dei diversi progetti utopici è la loro difficile realizzabilità, in alcuni casi il loro carattere onirico. I progetti di emancipazione e di riforma sociale attraversano l’intera storia della cultura occidentale – dal giusnaturalismo all’illuminismo, dal nazionalismo al marxismo – ma nelle utopie acquistano un carattere immaginativo e rivoluzionario che sfocia spesso in una dimensione fantastica. Da questo punto di vista, numerose sono state le critiche che si sono susseguite contro le utopie, intese come la massima esemplificazione di ciò che costituisce l’oggetto di un’aspirazione ideale non suscettibile di realizzazione pratica o come un’ideale etico-politico destinato a non realizzarsi sul piano istituzionale. La filosofia politica del Seicento – uno dei luoghi di origine della modernità politica, insieme al pensiero di Machiavelli (Il Principe, 1513) e ai teorici della ragion di Stato quali Giovanni Botero (La ragion di Stato, 1589) – propone come proprio manifesto la critica delle utopie fondate sulle fantasie spiritualistiche di impianto aristotelico o scolastico. Sono note le critiche di Hobbes (De cive, 1642) e di Spinoza (Tractatus politicus, 1677) alle utopie dei pensatori classici – in particolare Platone e Aristotele – totalmente incapaci di produrre teorie filosofiche e politiche in grado di realizzare una società giusta, in quanto fondate su concezioni errate della natura umana:


I filosofi pensano che gli affetti dai quali siamo combattuti siano dei vizi e che gli uomini vi cadano per loro colpa. Per questo solitamente ne fanno argomento di riso, di compianto o di rampogna, e quelli che vogliono fare più mostra di santità lanciano maledizioni. Credono così di fare qualcosa di divino e di toccare il culmine della saggezza, mentre tutto quel che sanno fare è lodare in mille modi una natura umana inesistente e fustigare quella che c’è davvero. Non concepiscono gli uomini per come sono, ma per come li vorrebbero: con la conseguenza che, nella maggior parte dei casi, scrivono della satira al posto dell’etica, e non sanno mai elaborare una politica applicabile alla pratica, ma solo finzioni chimeriche o istituzioni realizzabili in Utopia, o nel famoso secolo d’oro dei poeti, dove peraltro non ce n’è alcun bisogno. Siccome dunque si ritiene che, fra tutte le scienze applicate, la teoria politica sia la più discrepante dalla propria pratica, nessuno meno dei teorici, ovvero dei filosofi, è stimato idoneo a reggere le sorti della repubblica [...]. È invece indubbio che proprio i politici hanno scritto sulle questioni politiche con risultati assai migliori che non i filosofi. Ammaestrati dall’esperienza, essi non hanno infatti insegnato mai nulla che fosse distante dalla pratica. E l’esperienza ha già mostrato tutte le forme di organizzazione civile concepibili perché gli uomini vivano concordi, nonché i mezzi con i quali il popolo debba essere diretto [...]. Nel rivolgere, dunque, la mia attenzione alla politica, non mi sono proposto di scoprire soluzioni nuove e inaudite, ma soltanto di dimostrare con ragionamento certo ed esente da dubbio quelle che meglio si accordano con la pratica, o di dedurle dalla stessa condizione della natura umana; e per studiare quanto attiene a questa scienza con la stessa libertà d’animo che ci è solita negli studi matematici, mi sono fatto regola scrupolosa di non irridere né compiangere né deprecare le azioni umane, ma di comprenderle: e dunque ho considerato gli affetti umani, come l’amore, l’odio, l’ira, l’invidia, la presunzione, la compassione e tutti gli altri moti dell’animo non come vizi della natura umana, ma come proprietà che le appartengono (Spinoza, Tractatus politicus, I.1-4).


Ancora più note sono le critiche di Marx ed Engels – da Die deutsche Ideologie (1845) a Das Elend der Philosophie (1847), per non parlare degli scritti «scientifici» di Marx e di quelli «dialettici» di Engels – contro ogni forma di utopia (soprattutto quelle del socialismo anarchico e umanistico), considerata uno strumento funzionale alla riproduzione dei rapporti economici. E la lista dei critici dell’utopia in età moderna e contemporanea potrebbe continuare: da Hegel a Lenin, da Carl Schmitt a Friedrich A. von Hayek.
Ma non tutto è così chiaro e univoco. L’utopia non ha in sé solo questo carattere illusorio, fantastico e consolatorio. Essa non può essere liquidata così semplicemente perché, se è vero che le utopie rischiano di costruire «paradisi artificiali» inutilizzabili – se non addirittura dannosi, come nel caso delle distopie – all’interno di proposte riformiste e rivoluzionarie nei confronti di realtà sociali degradate, è pur vero che l’utopia esprime una delle principali caratteristiche dell’umano: quella di poter pensare altro, svincolato dal dato fattuale. La capacità immaginativa non ha in sé un risvolto unicamente negativo, cioè di inganno e falsificazione. Essa è alla base anche della capacità di guardare criticamente l’esistente, di «denaturalizzare» la struttura storico-sociale e di sottolineare la possibilità di mutamento delle condizioni date, che si sono realizzate storicamente ma che non sono immutabili o garanti di libertà e giustizia. L’esistente è prodotto dalla contingenza, non dalla necessità: esiste sempre lo spazio per la possibilità di pensare o realizzare altro. Utopia non significa solo una fuga dalla realtà; al contrario, essa rimanda alle possibilità insite nel reale, allo scopo di realizzarle attivamente. L’utopia appartiene pertanto allo stesso campo concettuale su cui insistono altre categorie centrali per il pensiero filosofico e politico della modernità: libertà, contingenza, mutamento, possibilità, immaginazione, progresso. Naturalmente non esiste alcuna garanzia che l’utopia si realizzi: malgrado ciò, l’utopia svolge una funzione fondamentale nell’indicare all’essere umano nuove possibilità di vita. Senza utopia non esisterebbe, infatti, tensione verso il futuro e sarebbe impossibile sfuggire a un «eterno presente» senza storia e senza futuro, senza memoria e senza progetto.


3. Dopo l’opera di Thomas More (Utopia, 1516) che conia il termine stesso di utopia, numerosi e famosi sono gli autori che si dedicano alla letteratura utopica, da Tommaso Campanella (La città del sole, 1602) a Francis Bacon (New Atlantis, 1627) e James Harrington (The Republic of Oceana, 1656), sempre animati da uno spirito di riforma morale, sociale e politica in vista della realizzazione di una condizione migliore dell’umanità. A queste opere si aggiungono le prime forme di «fantascienza» e di romanzi satirici (Histoire comique des états et empires de la Lune, 1657, di Cyrano de Bergerac; Travels into Several Remote Nations of the World, 1726, di Jonathan Swift; Micromega, 1752, di Voltaire; L’an 2440, 1770, di Louis-Sébastien Mercier), per giungere poi ai grandi disegni utopici dell’Ottocento, da Charles Fourier (Théorie des quatre mouvements et des destinées générales, 1808) a Saint-Simon (L’industrie, 1817-1818) e Pierre-Joseph Proudhon (Qu’est-ce que la proprieté?, 1840). All’inizio l’utopia è connessa alla dimensione spaziale: in genere la città ideale si trova su un’isola lontana, difficilmente raggiungibile e incontaminata. A partire dal Settecento – e in diretta relazione con l’affermarsi sempre più potente delle ideologie del progresso, condensate nell’idea di un tempo lineare, aperto al futuro – le utopie diventano anche ucronie, cioè si legano direttamente alla dimensione storica nel corso della quale la dimensione utopica si avvicina sempre più alla possibilità del progresso, reso possibile dall’affermazione della nuova scienza e della tecnologia moderna. Emerge qui in evidenza il rapporto problematico dell’utopia con la filosofia della storia e con la scienza: l’utopia tende infatti a identificarsi con un’immagine progressiva e ottimistica della storia, vista come un laboratorio di esperienze di tipo tecnico-sociologico. Il trapasso dall’utopia all’ucronia comporta così la trasformazione della perfezione pensata in termini spaziali in una proiezione temporale dell’uomo verso la perfettibilità.
Con le ucronie la stagione dell’immaginazione utopica si avvicina però anche al suo capovolgimento: in virtù dell’universale sviluppo delle forze materiali e intellettuali necessarie all’emancipazione, lo scenario che si apre è quello della possibile realizzazione dell’utopia, che rischia di perdere il suo carattere «aperto» per trasformarsi in un dato di realtà. Le distopie sono una risposta all’apparente realizzabilità delle utopie: molte promesse di razionalizzazione dei più audaci ideatori di società sembrano infatti essere state mantenute dalla rivoluzione industriale, generando però un modello di società in cui gli antidoti alle patologie storiche si sono tramutati in pericolosi veleni, tanto che le utopie relative al futuro si volgono in distopie anche a causa di un più generale clima culturale che conduce alla crisi dell’idea di progresso. Gli «incubi scientifici» dovuti al prevalere della scienza e della tecnica sull’essere umano sono già presenti nell’Ottocento: Frankenstein di Mary Shelley risale al 1818 ed Erewhon di Samuel Butler al 1872. Più in generale è però nel Novecento che le tragedie politiche (le guerre mondiali, la barbarie nazista, il totalitarismo sovietico, il pericolo atomico) e le preoccupazioni legate alle conseguenze dello sviluppo scientifico e tecnologico sull’ambiente determinano il diffondersi di angosciose utopie negative, evidenziando la crisi dell’idea di progresso, non perché irrealizzabile ma perché realizzato. Da Aldous Huxley (Brave New World, 1932) a Herbert George Wells (The New World Order, 1939), da George Orwell (1984, 1948) a Ray Bradbury (Fahrenheit 451, 1953) e Philip K. Dick (The Man in the High Castle, 1965) – per non parlare del cinema di fantascienza, da Zardoz (1974) di John Boorman a Brazil (1985) di Terry Gilliam, da Planet of the Apes (1968) di Franklin J. Schaffner a Waterworld (1995) di Kevin Reynolds, oltre ai ben noti film 2001. A Space Odyssey (1968) di Stanley Kubrick e 1997. Escape from New York (1981) di John Carpenter – nella cultura letteraria emergono le immagini di terrificanti società distopiche: mondi gestiti tecnocraticamente, con esseri umani programmati biologicamente in vista della funzione sociale che devono svolgere; o società totalitarie sorvegliate da un «Grande Fratello» che fonda il proprio potere non solo sulla violenza, ma anche sul consenso indotto da un dominio ipnotico dei mass media sulle coscienze; o nuovi paradisi della tecnologia, che in realtà sono luoghi di disumanizzazione in cui si affermano società di casta e in cui vige il completo controllo della sessualità e del desiderio. In queste prospettive il carattere «aperto» dell’utopia viene sempre più soppiantato da una concezione deterministica della storia e da un’interpretazione strumentale della ragione che realizza una società coerente nella propria logica interna, con caratteri di autosufficienza e prevedibilità, di controllo assoluto e perciò non perfettibile, statica e definitiva, ma sostanzialmente totalitaria e intollerante verso il pluralismo e il dissenso.
Nonostante ciò, l’utopia non scompare. Nel pensiero filosofico e politico essa continua a esistere come forma di pensiero del mutamento, anche all’interno di correnti filosofiche – quali il marxismo – che nelle loro versioni ortodosse rifiutano la dimensione utopica. Le opere di Ernst Bloch (Geist der Utopie, 1918; Thomas Müntzer als Theologe der Revolution, 1921), Karl Mannheim (Ideologie und Utopie, 1929), Walter Benjamin (Thesen über die Philosophie der Geschichte, 1940) e Herbert Marcuse (Eros and Civilisation, 1955) sono esemplificative di questa persistenza sociale e politica, testimoniata anche da opere quali Zabriskie Point (1970) di Michelangelo Antonioni. Bloch, per esempio, legge il marxismo in chiave utopistico-escatologica rivalutando, più che il progetto conclusivo, la carica di libertà, desiderio, speranza che contesta la positività della società occidentale scientista: il comunismo non è solo una dottrina economica o politica, ma un progetto di salvezza dell’essere umano in grado di riscattare la condizione di miseria sofferta dagli oppressi e dai perseguitati. Bloch insiste sul parallelismo tra speranza religiosa ed emancipazione comunista per ribadire il carattere fondamentale dell’«ulteriorità» per l’esistenza umana: la vita è sofferenza e dolore, ma in questa tenebra lo spazio della speranza illumina l’attesa di un futuro migliore in grado di riscattare l’umana condizione di miseria. Anche Benjamin recupera la dimensione di un’utopia che si delinea nella negatività e che, pur aspirando a una sintesi conciliativa, non la realizza, rimanendo aperta, incompiuta: la teoria critica nega la continuità progressiva, esigendo un salto utopico tra ragione e realtà in cui si inserisce la libertà come contingenza, come possibilità, come ulteriorità a metà strada tra la trascendenza e l’immanenza. Tramite la rinuncia all’utopia realizzata, Marcuse afferma l’importanza della negazione determinata dell’esistente, in modo da individuare le possibilità reali racchiuse nel presente: l’utopia è un esercizio critico negativo che demistifica la pretesa necessità del reale. Infatti è proprio il carattere immaginario, non realistico dell’utopia che può essere letto come sintomo di una «mentalità utopica» di tipo collettivo, che arricchisce della dimensione della possibilità una visione altrimenti chiusa e deterministica del reale stesso. In questo senso l’utopia è il «motore» di trasformazione della storia, in contrasto con il ruolo conservativo dell’ideologia che trasfigura l’esistente al fine di stabilizzarlo. La distinzione filosofica, sociologica e politica tra ideologia e utopia – che dobbiamo a Mannheim – è legata alla distinzione tra gli interessi di determinati gruppi sociali: la difesa di questi interessi passa attraverso la definizione di due diversi modelli di immaginazione politica. Sia l’ideologia che l’utopia impediscono una visione reale e oggettiva della società, ma per motivi opposti. L’ideologia è incapace di produrre progetti di trasformazione sociale perché è legata agli interessi delle classi dominanti, che quindi escludono qualsiasi interpretazione della realtà che possa minacciare il loro potere: pertanto, l’ideologia esercita una funzione conservatrice. Al contrario, l’utopia mira proprio a progettare un effettivo cambiamento del mondo operando una selezione dei fatti determinata dagli interessi delle classi subalterne, di cui è espressione. La differenza tra ideologia e utopia non risiede dunque nel diverso condizionamento sociale, ma nelle loro diverse radici sociali: mentre l’ideologia è legata alle classi dominanti, che mirano a conservare lo status quo, l’utopia è legata alle classi subalterne, interessate a una trasformazione dell’esistente. Mentre nell’utopia il pensiero indica una direzione per l’azione rivoluzionaria, nell’ideologia indica una direzione per la conservazione sociale e politica. Senza dubbio in molti casi le utopie si sono trasformate in feroci distopie che hanno mirato addirittura alla trasformazione della natura umana, tuttavia, questo non è un buon motivo per smettere di guardare al futuro con la chiave della «possibilità». L’utopia, generata dall’insoddisfazione per l’incompiutezza del presente, mira alla costruzione di un mondo migliore di quello attuale. Naturalmente non esiste alcuna garanzia che l’utopia si realizzi: malgrado ciò, l’utopia svolge una funzione fondamentale nell’indicare all’essere umano nuove possibilità di vita. Senza utopia non esisterebbe, infatti, tensione verso il futuro.


Riferimenti bibliografici

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