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Utopia, responsabilità e speranza

GALLIANO CRINELLA
Articolo pubblicato nella sezione: Lo spazio dell’altrove: metadiscorso sull’utopia.

In un volume edito alla fine degli anni settanta (Jonas 1979), Hans Jonas impegnava il proprio ingegno filosofico nella costruzione di un progetto etico con cui poter far fronte ai problemi e alle sfide della odierna civiltà tecnologica. È un modello di eticità in cui è prioritario il problema della responsabilità, inteso come luogo di convergenza del piano della verità e di quello dei valori, sintesi di istanze universalistiche e di realismo politico. Jonas guarda con preoccupata attenzione all'evoluzione incontrollata della tecnologia e dei suoi strumenti di progresso, sostenuta e stimolata incessantemente dalla logica economica fondata sulla regola esclusiva del profitto e che sembra poter conferire all'uomo poteri e traguardi illimitati. Si verificherebbe così una situazione analoga e in qualche modo connessa con quella richiamata da Max Horkheimer e Theodor Adorno in ordine all'esito della cultura illuministica: l’eterogenesi dei fini o contro-finalità della ragione (Horkheimer – Adorno 1947). Lo spirito dell’illuminismo, mosso da istanze di liberazione e di emancipazione, divenuto cultura egemone e ideologia al potere, si è rivelato strumento di oppressione per le stesse condizioni di vita dell'uomo contravvenendo radicalmente alle ragioni stesse del suo proporsi.
La costruzione della teoria etica jonasiana incontra posizioni divergenti ed ostacoli, anzi si definisce e si fa meglio comprendere attraverso una loro severa valutazione critica, elaborata nella seconda parte del volume. Si evidenziano qui due concezioni illusorie, delle quali è dunque necessario evidenziare i limiti: a) l'idea di un progresso illimitato; b) la teoria utopica della storia. Entrambe le posizioni ideali avrebbero messo profonde radici nel marxismo e nel pensiero di Ernst Bloch, e potrebbero coniugarsi con le potenzialità offerte dallo straordinario sviluppo scientifico e tecnologico degli ultimi anni, trovando qui i mezzi necessari alla realizzazione di talune istanze del progetto utopico.
Jonas ritiene che l'ideale utopico e l'immodestia dei suoi obiettivi vanno fatti oggetto di una critica radicale che consenta una realistica considerazione delle possibilità umane e degli obiettivi desiderabili e possibili. Bisogna dunque limitare il pericoloso traguardo prometeico della perfezione e della assolutezza antropologica, per tendere ad un obiettivo ed un fine di conservazione: in contrapposizione agli abusi di un suo potere illimitato, deve essere preservata per l'uomo l'integrità del suo mondo e del suo essere.
È un progetto minimo, ma che Jonas ritiene di fondamentale importanza in primis per il lavoro intellettuale. Se è vero che il concetto di utopia, che qui viene interpretato come un sogno giovanile per l'umanità, si connette con la prospettiva di un sicuro progresso verso la meta di un ulteriore incremento di benessere e della piena umanizzazione in cui l'uomo potrà finalmente porsi in pari con se stesso, è necessario evidenziare l’estrema difficoltà se non l'impossibilità di pervenire a tale obiettivo. Il futuro prossimo sembra richiedere piuttosto una più equa ripartizione delle ricchezze esistenti, e ciò porterà a sensibili restrizioni per i paesi materialmente ed economicamente più evoluti. Questo è tutt'altro che una raccomandazione per l'attuabilità dell'utopia. Ci sono anzi molti elementi oggettivi che fanno risaltare la necessità della rinuncia all'utopia.
Ci si deve chiedere se un concetto illimitato di progresso, cui l'utopia si richiama, sia applicabile alla realtà del singolo individuo e dell'umanità. Nessuno potrà negarne il valore psicologico, la capacità di stimolare aggregazioni e fronti di lotta, il ruolo attivo che può assumere l’utopia nella formazione dell'immaginario collettivo e nei suoi progetti di trasformazione. Né si può trascurare un dato: un grande capitolo di storia della civiltà è stato scritto nel nome dell'utopia. Ma che senso può avere, o meglio può avere un senso l'affermazione secondo cui l'umanità, in quanto specie, è destinata a divenire moralmente migliore e più saggia? Jonas ritiene che il presente, come il divenire e il futuro dell'umanità non possano essere pensati esclusivamente attraverso la nozione di progresso o di sviluppo dall'incompiuto al compiuto, dal provvisorio al definitivo. Allo stesso modo è difficilmente configurabile il discorso utopico attorno al non-ancora dell'umanità.
Esiste, ed è dinanzi agli occhi di tutti, un progresso verso il meglio nel campo della scienza e della tecnica, nelle forme economiche e politiche, nelle capacità delle strutture sociali di fornire risposte ai bisogni individuali e collettivi. Ma tutto ciò non è stato, né è senza un prezzo. Sembra essere un fatto inevitabile che con ogni acquisizione, con ogni conquista si perda anche qualcosa di positivo e di prezioso per la vita stessa dell’uomo. È avvenuto ed avviene per l'evoluzione della scienza, con una riduttiva frammentazione del suo sapere complessivo e lo sviluppo inarrestabile delle cosiddette specializzazioni e dei micro-saperi. Si incrementa sempre più il patrimonio complessivo della cultura e, al tempo stesso, le conoscenze del singolo che partecipa al processo conoscitivo diventano sempre più settoriali e confinate. Si è affermato, con espressione forte e paradossale, che con il processo di divisione e settorializzazione del mondo conoscitivo si può arrivare a sapere tutto di nulla. Cosicché l'intero percorso del sapere diventa sempre più difficile da dominare e comporre in un’unità significante e sempre meno comunicabile ai non addetti ai lavori. Ma c'è un bisogno insopprimibile dell'uomo alla conoscenza, per cui l'avventura della conoscenza, come pure la ricerca nel campo scientifico, costituiscono un compito senza termine, e dunque non ci si potrà sottrarre dal pagare quel prezzo.
Se si volesse considerare l'ambito della tecnica ab intra, e la sua inarrestabile evoluzione, queste sembrano a Jonas potersi combinare con l'avvento e il contenuto profetico dell'utopia, che quasi sempre fa leva su finalità che molto richiedono alla tecnologia. Ma quanto più i futuri possibili diventano realizzabili, e qui è il realismo dell'utopia, tanto meno l'umanità si trova d'accordo su un futuro che sia desiderabile da tutti. C'è poi una valutazione di ordine etico che non può essere disattesa, perché l'uomo e la collettività sono direttamente coinvolti e condizionati da tutto ciò che la tecnica consente di fare: bisogna valutare fino a che punto e in quale ambito sia lecito l'uso delle tecnologie più avanzate per capire se le trasformazioni possibili, che possono arrivare a condizionare le abitudini di vita e a determinare un mutamento della specie uomo, siano di per sé desiderabili e accettabili.
Come non rilevare poi che il progresso tecnico-scientifico-industriale non ha considerato la solidarietà di interesse dell'uomo con l'ordine complessivo della natura ed ha fatto riferimento ad una problematica visione antropocentrica. Si deve rilevare, su questo punto, che proprio il programma di Bacone, in virtù del quale si è orientato il sapere verso l'asservimento della natura per migliorare la vita dell'uomo, mostra i suoi limiti e deve il proprio insuccesso alla miopia delle finalità umane. È un insuccesso che deriva dal pericolo di distruzione e di catastrofe che sono insiti nell'apparente grandezza dei traguardi raggiunti in campo economico e biologico. Al culmine del suo successo, il programma baconiano ha rivelato la sua intima contraddizione con la perdita dell'autocontrollo e con il risultato dell’incapacità di proteggere l'uomo dalle conseguenze negative delle sue stesse azioni come pure la natura dall'opera dell'uomo. Certo, rileva Jonas, Bacone non avrebbe potuto prevedere il paradosso del potere determinato dal sapere, che ha raggiunto il proprio dominio sulla natura con un potere autonomo nel quale tuttavia le premesse si sono trasformate in minacce, le prospettive di salvezza in pericolo di apocalisse.
La critica rivolta in nome del principio responsabilità ad una concezione utopica della realtà e della storia, trova un suo luogo privilegiato nell’utopia concreta di Ernst Bloch, che è strettamente connessa con la teoria marxiana. Il marxismo, a giudizio di Jonas, si può comprendere e giustificare proprio in quanto utopia. Si tratta così di una critica che assume a tema generale dell'utopia un suo aspetto particolare. Ma analizziamo brevemente il discorso di Jonas. C'è un limite fondamentale nel cuore del pensiero di Marx, e insieme in quello di Bloch, che consiste nella separazione del regno della libertà dal regno della necessità. Sulla base di questa separazione, si ritiene «che quello abbia inizio dove questo cessa e che la libertà si colloca al di là della necessità, anziché consistere nell'incontro con essa» (Jonas 1979, p. 259).
Quello che sembra di ostacolo in realtà costituisce l'essenziale. La libertà consiste e vive nel rapporto con la necessità: «La separazione dal regno della necessità sottrae alla libertà il suo oggetto». La stessa dignità dell'uomo non potrebbe darsi senza la relazione con il reale e necessario. Oltre a ciò, anche la “teoria della umanizzazione dell'uomo”, intesa come liberazione dal lavoro e dominio sulla natura, si presta a perentori rilievi critici. Partendo dalla considerazione che «soltanto la vita rispettata nella sua integrità rivela se stessa», si arriva a sostenere che proprio la natura non sfruttata dall'uomo è quella umana, in quanto è in grado di darsi e di parlare all'uomo, mentre è proprio la natura asservita e trasformata dall'uomo che si rivela disumana. Un altro punto sottolineato da Jonas, è relativo all'autenticità dell'uomo, che egli vede travisata nell'ontologia del non-essere-ancora e nel primato della speranza che ad essa è legato. L'uomo autentico, a suo giudizio, «è già da sempre esistito con tutti i suoi estremi, nella grandezza e nella meschinità, nella felicità e nel tormento, nell'innocenza e nella colpa». Come dire che c'è una ambiguità di fondo nella natura dell'uomo. Sottacerla, non tenerla nella debita considerazione o addirittura volerla eliminare, significa far passare in secondo piano l'autenticità dell'uomo e la sua incommensurabile libertà. L'uomo delle utopie sembra aver perso questa ambiguità, ma per ciò stesso è diventato «l’homunculus della futurologia socio-tecnica, sottoposto in modo umiliante ai condizionamenti della buona condotta e del benessere, addestrato alla più totale conformità sociale».
La realtà più propria dell'uomo si presenta con un’invalicabile problematicità, cui bisogna riportare ogni riflessione intorno all'uomo. Ne deriva che l'errore primo dell'utopia si annida nella sua concezione dell'uomo, nel suo non tener conto dei limiti e della natura sua propria, nel non considerare che egli possiede la facoltà di essere, ad un tempo, buono e cattivo, e che la disumanità è in grado di rivelare la natura dell'uomo non meno che la sua umanità e santità, nel non voler rinunciare «all'idea di una ricchezza della natura umana che è presente, disponibile in modo latente e deve soltanto essere liberata, per potersi rivelare nella sua pienezza». Connessa con questa concezione dell'uomo vi sarebbe poi, nella teoria utopica, l'idea di una necessaria tendenza del processo storico verso la meta ultima ideale, di cui i momenti precedenti costituiscono traguardi di avvicinamento che acquistano significato solo in relazione a questo terminus ad quem. In tal modo si finisce con il non considerare, come si dovrebbe, che ogni stadio della storia come ogni presente dell'umanità costituiscono dei fini in se stessi.
Il discorso critico sull'utopia deve svilupparsi, nel nostro tempo, anche come discorso critico sulla tecnologia nei suoi più profondi sviluppi, perché in essa, come già abbiamo fatto rilevare, sembra operare una dinamica quasi utopica. Ma la critica degli aspetti ritenuti negativi nel contesto utopico contiene in sé una sua positività. Avviene così che la critica di limiti ed errori concettuali serve soprattutto a fondare l'ipotesi alternativa: quell'etica della responsabilità con cui è possibile e necessario, a giudizio di Jonas, mettere le briglia alla galoppante avanzata di una distorta concezione del progresso tecnologico. È un compito, quest'ultimo, di assoluta importanza, considerato che se ciò non avvenisse «sarebbe la stessa natura a farlo alla sua maniera implacabilmente più dura». Sta qui la fondazione, in senso negativo, dell'alternativa segnalata. E l'aspetto positivo? Un'etica della responsabilità «dovrebbe per un certo tempo assumere prevalentemente una funzione di salvaguardia e di tutela, subordinatamente alla quale, e comunque all'insegna della modestia, continuerebbe a spettarci una funzione di risanamento e, ove possibile, di miglioramento». La responsabilità si oppone alla speranza, ma non si potrà identificare con la paura. Bisogna dire, tuttavia, che la paura fa parte essa stessa, come la speranza, della responsabilità.
La paura non è motivo di ostacolo all'azione e all'impegno dell'uomo e si propone come avvertimento della necessità di una posizione di prudenza nei confronti dell'ignoto e del futuro, a fronte dell'incertezza sull'esito finale della speranza. Paura dunque come atteggiamento psicologico ed intellettuale cosciente, che esorta ad agire con vigile senso di responsabilità. Paura come condizione della responsabilità dell'agire, come coraggio della responsabilità. Il concetto della paura come coraggio della responsabilità è legato al tema del dovere, che dopo la lunga stagione dei diritti, deve diventare oggi, a giudizio di Jonas, il tema predominante. Ed essa si presenta come una paura razionale e fondata, che nulla ha a che vedere con la titubanza, con lo sgomento o il timore per se stessi. La paura è, ad un tempo, anche rispetto per la realtà e le sue espressioni, condizione prima, rileva Jonas, per impedire che in vista del futuro si profani il presente. Una preoccupazione e un impegno che sono descritti in questi termini: «La speranza, altrettanto poco quanto la paura, può indurci a rinviare a una fase ulteriore il fine autentico, la crescita dell'uomo in un'umanità non atrofizzata, compromettendo nel frattempo tale fine con dei mezzi che non rispettano l'uomo della propria epoca. Un'eredità degradata coinvolgerebbe nel degrado anche gli eredi. La salvaguardia dal degrado deve essere l'impegno di ogni momento: non concedersi nessuna pausa in quest'opera di tutela costituisce la migliore garanzia della stabilità, essendo, se non l'assicurazione, certo il presupposto anche dell'integrità futura dell'identità umana. La sua integrità non è altro che l'apertura verso quella sempre smisurata pretesa, che induce all'umiltà, rivolta al suo portatore strutturalmente inadeguato. Conservare intatta quell'eredità attraverso i pericoli dei tempi, anzi, contro l'agire stesso dell'uomo, non è un fine utopico, ma il fine, non poi così modesto, della responsabilità per il futuro dell'uomo».
La posizione di Jonas, cioè a dire l'etica elaborata in Das Prinzip Verantwortung non presenta difficoltà interpretative e si fonda sulla scelta della moderazione e della cautela. L'autore stesso peraltro propone una definizione che in sintesi ne accoglie l'intenzione e la valenza fondamentali: è un'etica della conservazione, della salvaguardia, della prevenzione e non del progresso e della perfezione. Lo ha rilevato Karl Otto Apel ed appare evidente che rinunciando all'idea moderna di progresso, con il suo carico progettuale positivo, diventa difficile per Jonas anche la difesa di quel fine minimo costituito dalla sopravvivenza dell'umanità, sempre più dipendente da accordi e conquiste che coinvolgono l'intero sistema sociale e culturale planetario.
Abbiamo evidenziato taluni aspetti del pensiero jonasiano in relazione al concetto blochiano di utopia e speranza al quale facciamo ora qualche rapido accenno. Il concetto blochiano di speranza, se riportato all’interno del dialogo filosofico del Novecento, oltrepassa da un lato il cosiddetto principio disperazione (Portinaro 1986, pp. 1-52), teorizzato da Günther Anders, e dall'altro lo stesso principio responsabilità. Anders è uno scrittore forse troppo poco conosciuto nel nostro paese (Portinaro 1986, p. 2), potremmo dire uno scrittore rimosso, forse perché c'è nel suo discorso filosofico un sorta di pessimismo apocalittico che spaventa e che lo rende intollerante e scomodo. Ma egli è stato uno degli studiosi più presenti ai problemi fondamentali del nostro tempo, nonostante l'opinabilità delle sue considerazioni ultime, ove nessuno spazio viene accordato alle categorie di emancipazione e di speranza, ed ha pensato e scritto con continuità «per dare voce alla rivolta dell'uomo contro la tecnica che minaccia di sconvolgere il mondo, facendo di questo pianeta una casa non più abitabile o non più abitata dall'uomo». Il suo pensiero negativo, il suo vivere senza speranza, il porsi come coscienza infelice del proprio tempo è l'atteggiamento proprio di chi guarda al futuro con acuto pessimismo e non sa che trarre ipotesi di sventura dai terribili fatti, vissuti direttamente, della guerra, del nazismo, dei campi di concentramento e delle bombe nucleari su Hiroshima e Nagasaki.
Ma qual è l'immagine e l'identità degli uomini che Anders propone? Gli uomini sono coloro che “esistono ancora”; e allora alla prospettiva del non-ancora deve subentrare a quella del non più. Si è determinata, nella condizione dell'uomo, una netta sproporzione tra le facoltà e le capacità personali, e gli strumenti di cui oggi egli può disporre. Con la conseguenza di un’onnipotenza dei mezzi che arrivano a determinare il fine e i bisogni umani. Anders ha sostenuto che siamo ormai utopisti invertiti. Mentre gli utopisti non possono produrre ciò che immaginano, noi non possiamo immaginare ciò che produciamo. Cosicché sarebbe paradossalmente il dominio della tecnica a divenire soggetto storico. L'onnipotenza della tecnica è diventata in Anders il sigillo dell’impotenza dell'uomo e la causa prima dell'irreparabile che incombe: il tempo della fine che si tramuta nella fine dei tempi. La radicalità della critica andersiana alla tecnica va ben oltre la posizione di Jonas, perché il pericolo che incombe non sembra dipendere dall'impiego della tecnica, ma piuttosto si ritiene che esso sia insito nella natura stessa della tecnica. In tal modo il campo di applicazione dell'etica della responsabilità si amplia fino a toccare limiti sovrumani. «La nostra responsabilità - scrive Anders - si estende agli effetti immediati e mediati delle nostre azioni, delle nostre omissioni o delle nostre opere» (Anders 1983, p. 34). E all'improduttività degli appelli alla ragione e alla responsabilità fa seguito l'accentuarsi del rischio della catastrofe.
Può fare qualcosa l’uomo di fronte al rischio di una guerra atomica? Il pessimismo tragico di Anders, quello che lo porta a parlare di un uomo senza mondo, lascia passare qualche spiraglio di luce. Si impone, prima di ogni riforma di tipo istituzionale o politico-sociale, la costruzione di una nuova morale, in cui il tema dei doveri sia configurato in una più ampia dimensione. In vista di questo obiettivo, egli non potrebbe trovare alcun aiuto o fare appello alla filosofia cosiddetta accademica e alle sue inutili astruserie. Non serve il continuare a pensare i propri pensieri; occorre invece un grande sforzo di immaginazione, liberato da ogni forma di idolatria, per comprendere le infinite trasformazioni degli ultimi decenni. Così come è nello spirito e nella radice iconoclastica della filosofia: non ti farai alcuna immagine. È un tentativo possibile per cercare di vincere «lo scarto prometeico fra la nostra capacità produttiva e la nostra capacità immaginativa» (Anders 1961, p. 203). L'immaginazione, se vuole cogliere l'orizzonte illimitato entro il quale ci troviamo, deve far credito non alle percezioni sensibili ma al realismo della fantasia. Se l'uomo non riuscisse a superare lo scarto prometeico segnalato, ci sarebbe tuttavia per lui un ultimo, ma a dire il vero poco consolante rimedio: «A quelli che, paralizzati dalla fosca probabilità della catastrofe, si perdono di coraggio – afferma Anders - non resta altro che seguire, per amore degli uomini, la massima cinica: Se siamo disperati, che ce ne importa? Continuiamo come se non lo fossimo!».
Il breve riferimento al pensiero negativo di Anders ci ha permesso di fissare il punto di vista che più radicalmente si oppone all'esito tecnocratico della civiltà occidentale e che si può fare interagire, per interno contrasto, con i termini di Jonas e Bloch. Ma quello che ora interessa rilevare è la posizione di Ernst Bloch in relazione ad alcune delle questioni sollevate nel nucleo tematico dello jonasiano principio responsabilità. Questa posizione sarebbe meglio esplorata attraverso l'analisi della problematica ed originale concezione utopica di Bloch e la sua ampia ricerca sul tema della speranza. In questa sede possiamo richiamarci soltanto ad un piccolo ma significativo segmento della riflessione blochiana, al breve scritto sul tema del progresso (Bloch 1963), con il quale vorremmo mostrare che nonostante la sua meritoria proclamazione, l'etica della responsabilità, con il suo obiettivo della conservazione e della salvaguardia dell'esistente, non può raggiungere questo risultato se non tiene conto dell'estensione e di una regolazione mondiale dei rapporti sociali e dunque di un'idea positiva di emancipazione e di progresso. Con i termini blochiani vorremmo dunque portare nuovi argomenti alla critica, già ricordata, di Apel e mostrare, allo stesso tempo, la possibile positività di un pensiero che voglia mantenere in vita l'istanza utopica.
«Vi sono termini che agiscono da sé in modo del tutto chiaro. Hanno lineamenti schietti, e ci si lascia convincere senza difficoltà. Il loro significato, quindi il loro concetto, sembra essere così limpido e semplice che nulla è più da obiettare. Ad essi appartiene in prima linea il concetto di progresso» (Bloch 1990, p. 21). Così Bloch dà inizio al suo discorso intorno al buon concetto del progresso. Avvertendo però, subito dopo, che non è concepibile un'evoluzione necessaria, sicura verso il meglio, secondo cui ciò che viene dopo deve realizzare proprio un di più rispetto a ciò che viene prima. Ci sono al contrario situazioni in cui l'evoluzione sta ad indicare una regressione. Bloch rifiuta una concezione fideistica o temporale-feticistica del progresso, che vorrebbe comprendere la storia entro categorie di sicuro sviluppo verso mete ritenute sempre più desiderabili. Un'idea equilibrata e veritiera del progresso sembra non aver niente a che vedere con un sorta di euforia del progresso, che non terrebbe nella dovuta considerazione la centralità del fattore umano. L'evoluzione della storia possiede, in potenza, caratteristiche differenti che l'attività dell'uomo tradurrà in atto, realizzando obiettivi diversificati. Se è un buon concetto, deve necessariamente contenere il riferimento ad un fine. Ne va della sua qualità: «Ogni progresso è tale rispetto a qualcosa a cui tende, e quasi come sinonimo viene così usato anche il concetto di evoluzione, perfezionamento». Se non esistesse un fine conforme ad uno scopo umano positivo, il progresso potrebbe risolversi in un inganno. Vi può essere un progresso corrotto, con obiettivi di valore negativo, e ciò può avvenire sia a mezzo di una scienza e di una tecnica assai evolute ma i cui motori, in ultima analisi, sono avviati e mantenuti in funzione per il fine della guerra. L'accento critico-polemico di Bloch cade sulla riduzione del progresso in una forma di colonialismo, con il fine reale della dominazione e del guadagno, e quello formale, e solo proclamato, dell'incivilimento e della pacificazione dei popoli.
Il concetto di progresso, cui Bloch guarda con interesse, deve superare anche l'aporia dell'insufficiente spazio storico, per poter investire il più ampio orizzonte extra-europeo e mondiale. Nel pluralismo delle realtà storico - geografiche e dei cicli culturali, cui la nozione di progresso deve essere applicata, il criterio di unità è dato da un comune elemento di umanità. Nel multiversum spaziale e temporale delle culture è la prova che continua la ricerca e la sperimentazione intorno all'umano; verso di esso, come verso l'unica meta, sembrano convergere le innumerevoli esperienze e l'impegno collettivo. In questo Bloch individua il senso dell'accadere e il verso dove, l’”a che scopo” della vita autentica e coscientemente vissuta. Senza la presenza di tale senso si toglierebbe allo stesso concetto di progresso la sua base più solida. «Senso - afferma Bloch - è dunque prospettiva, in quanto essa è possibile nel mondo che dovrà mutare, in quanto ha per sé in potenza un fine utile nella capacità di perfezionamento del mondo». Nelle sette tesi con cui si chiude il breve saggio, Bloch ribadisce che per applicare, come si deve, la nozione di progresso al contesto planetario non si può applicare il metodo della linea retta, senza curve e senza una nuova e complessa molteplicità del tempo.
L'evoluzione del progresso e una più alta realizzazione dell'humanum non debbono fare violenza all'autonomia e alla libera espressione di tutte le forme culturali. A fronte di una situazione così complessa e in divenire non sembra fuori luogo operare, come Bloch fa, con le categorie del non-ancora e del novum. Un'etica della responsabilità, pur intesa come sopravvivenza e conservazione nell'orizzonte della civiltà occidentale, potrà trovare una positiva direzione di ricerca nell'idea di progresso che nei suoi aspetti minimi abbiamo ora considerato. Perché questa concezione del progresso si lega in Bloch con i temi della dignità umana, dei diritti dell'uomo e del camminare eretti, in vista di un fine utopico: sottrarre la condizione umana allo stato di minorità in cui è stata relegata dalle ideologie politiche fondate sullo Stato-tutto e sull'individuo-solo. Qui c'è tutto un lungo capitolo di critica blochiana all'insufficiente e negativa elaborazione marxiana che ne mostrano l'autonomia e l'originalità. E l'utopia arriva a configurarsi come ermeneutica della speranza.
Quella speranza che in Bloch non presenta soltanto un carattere psicologico, ma anche una connotazione ontologica, per divenire così in qualche modo una sorta di «anima del mondo». Il principio speranza si collega polemicamente alla disperazione e agli esiti nichilistici di una parte della filosofia esistenzialistica. È stato detto che essa costituisce «un essere per la vita», a fronte dell’heideggeriano «essere per la morte». Come dire che il suo orizzonte è quello positivo della riuscita, piuttosto che quello negativo del fallimento, e che è interessato a rendere gli uomini più aperti, piuttosto che a chiudere e restringere il loro orizzonte. In tale compito rivela la sua natura di docta spes: non una passione irrazionale, ma un sostegno e uno stimolo per la ragione. Bloch lo afferma in termini perentori proprio all'inizio della sua fondamentale opera Das Prinzip Hoffnung: «La ragione non può fiorire senza speranza, la speranza non può parlare senza ragione». Attorno alla speranza e al suo slancio verso il futuro Bloch costruisce il superamento della filosofia contemplativa e regressiva, che ha caratterizzato il pensiero del passato. Connessa con la ragione, la speranza indica la rotta da seguire per non cadere nel cieco pragmatismo o nella vuota contemplazione. Cosa sarebbe il pensiero se non avesse la forza dell'oltrepassare, dell'andare oltre? Ma l'andare oltre del pensare può essere reso possibile dalla forza della speranza.
Questi argomenti blochiani sembrano poter portare qualche dubbio attorno alle certezze di Jonas, attorno alla sua preferenza per un atteggiamento di saggezza che esclude la speranza, al suo esclusivo e dirimente principio responsabilità. Sembra piuttosto che la problematicità di quest’ultimo derivi proprio dal non riconoscere il ruolo attivo della speranza, quanto meno sul piano psicologico e antropologico. Sollecitati da Bloch, potremmo chiederci con Paul Ricoeur se sia possibile pretendere di pensare la storia senza far riferimento a tutti quegli stati positivi di attesa che caratterizzano la condizione umana. E ancora se tutto possa risolversi nel chiudere l'orizzonte del discorso entro gli spazi dell'esperienza e dello sperimentabile. Si potrà parlare solo di responsabilità o non si dovrà collegare il concetto di responsabilità con quello di ulteriorità e di speranza? E ancora: può darsi un valido criterio di saggezza e di responsabilità, pur in durftiger Zeit, in forza del criterio del non-più, o senza quella apertura della riflessione che sola ci può venire dalla spinta creativa della speranza? Se guardiamo alla storia che si deve ancora fare e non ci fermiamo alla considerazione del passato abbiamo bisogno di una mediazione aperta, incompiuta, un incrocio di prospettive che sappia accogliere il passato e dare valore al presente in funzione dell'intenzione verso il non-ancora del tempo che deve venire. Una mediazione che si realizza attraverso una salutare dialettica tra due categorie ugualmente necessarie e in qualche modo simmetriche: Spazio d’esperienza e orizzonte d’attesa. L’una, lo spazio d’esperienza, ha di vista l'integrazione, l'altra, l'attesa, tende alla espansione delle prospettive. La categoria dell'orizzonte d'attesa, di cui troviamo nell'Aufklarung la più compiuta determinazione, sembrerebbe aver perso oggi, in una situazione ben diversa, gran parte della sua ragion d'essere in quanto non sembrano più unanimemente consentiti i suoi tre caratteri: a. tempi nuovi; b. accelerazione del progresso; c. capacità degli uomini di dominare la propria storia. Ci sono tuttavia ancora argomenti che possono indicare l'utilità e l'universalità delle categorie segnalate, nonostante il declino dei tre topoi che abbiamo ricevuto dall'età dei lumi. In quanto esse possono valere come categorie metastoriche, che si pongono nell'ambito dell'antropologia filosofica, le possiamo considerare dei trascendentali e dunque ad esse può essere riservato il vocabolario delle condizioni di possibilità.
La tensione dialettica tra le due prospettive sembra essere utile per la costruzione del mondo umano della storia. Più complesso diventa il problema se si verifica, come sembra verificarsi, un restringimento dello spazio d'esperienza e, allo stesso tempo, un ridursi dell'orizzonte d'attesa in un avvenire sempre più vago e improponibile. Bisogna allora impedire che tale tensione diventi una netta divisione, uno scisma. Come realizzare questo fine? Innanzitutto con il rifuggire da tentazioni di attese utopistiche, vale a dire intese come totale evasione dalla prassi. L’attesa del futuro deve ancorarsi all'esperienza in corso e non può prescindere dalla determinazione di obiettivi intermedi, possibili per l'azione. Come pensava Kant, deve essere una speranza per l'intera umanità, con evidenti implicazioni etiche e politiche. Insieme a questo diventa ugualmente necessario opporsi ad una chiusura e ad un restringimento dello spazio d’esperienza, per riconsiderare il passato e affrontare il presente e il futuro considerando tutte le potenzialità insite in essi. È necessario dunque che le attese dell’uomo siano più determinate e definite e che la nostra esperienza sia più ampia indeterminata. Così potrà forse essere possibile l'incontro tra atteggiamento di responsabilità e prospettiva della speranza e dell'utopia.


Riferimenti bibliografici

Jonas H. (1979), Das Prinzip Verantwortung, Insel, Frankfurt am Main.
Horkheimer M. – Adorno T.W. (1947), Dialektik der Aufklärung, Querido, Amsterdam.
Portinaro P.P. (1986), Il principio disperazione. La filosofia di Günther Anders, “Comunità”, a. XL, n. 188.
Anders G. (1983), Die atomare Drohung. Radikale Überlegungen, München.
Anders G. (1961), Essere o non essere. Diario di Hiroshima e Nagasaki, Einaudi, Torino.
Bloch E. (1963), Differenziazioni nel concetto di progresso, Argalia, Urbino.
Bloch E. (1990), Sul progresso, Guerini e Associati, Milano.



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