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Come cambia il significato del lavoro nel tempo della precarizzazione strutturale?

FRANCESCO TOTARO
Articolo pubblicato nella sezione: Il “vissuto” della crisi - Analisi.

Una precarizzazione strutturale

Interrogarsi sul significato del lavoro non è ovvio e può sembrare persino un lusso in una fase storica che registra la sua contrazione e la sua ricerca affannosa, sempre che non si approdi ad atteggiamenti di rinuncia, come nel caso particolare dei giovani che né studiano né lavorano (il cosiddetto universo dei Neet: not in education, employment or training). Eppure, se non ci si lascia prendere dallo stato di torpore con cui spesso si reagisce alle situazioni infauste, è forse questo il momento opportuno per tentare uno scatto di riflessione sui motivi prossimi e meno prossimi del disagio in cui versano la «civiltà del lavoro» e i soggetti umani ad essa legati per i loro destini individuali e collettivi.
La cifra con la quale si dà conto del fenomeno è quella della precarietà del lavoro o, più propriamente, della sua precarizzazione. Con il termine si intende un processo che ha condotto dalla connotazione di stabilità del lavoro, e dell’esistenza che su di esso faceva perno, alla connotazione opposta di instabilità a livello oggettivo e di insicurezza a livello soggettivo. Ci si potrebbe spingere fino a dire che il lavoro, attualmente, più che offrire soluzione ai problemi della vita è diventato in se stesso il problema principale. Se cade il lavoro, cade la vita. Le decisioni estreme di porre fine alla propria vita, sia da parte di lavoratori subordinati sia da parte di imprenditori, sono la testimonianza più tragica del crollo esistenziale causato dal crollo dell’attività lavorativa. Qui si tocca con mano la gravità acuta del disagio cui va incontro chi ripone nel lavoro ogni motivo di vita. Al tempo stesso, a partire da questi episodi, si manifesta l’urgenza di una svolta che viene imposta dallo stesso cambiamento della struttura del lavoro e che non può non sfociare in un cambiamento anche del suo significato, cioè del modo di considerarlo e di viverlo. Si può aggiungere che la discrepanza tra i mutamenti oggettivi intervenuti nella sfera del lavoro, nella sua organizzazione e nella sua distribuzione, e la persistenza di modelli soggettivi tradizionali, nelle aspettative e nelle delusioni corrispondenti, ha effetti fortemente patogeni in mancanza di antidoti adeguati. Non si tratta di cercare linee di ripiegamento che culminerebbero nella disfatta rispetto alle conquiste storiche ottenute dai lavoratori, ma di impostare su basi nuove l’impegno per la sua tutela e per la sua promozione.
A questa manovra, coraggiosa oltre che realistica, ci si può accingere se, anzitutto, non si gira intorno alla questione, mettendola a fuoco, spregiudicatamente, già nella sua dimensione strutturale, quella per cui alla precarizzazione si deve attribuire uno statuto di lunga durata, che esige rimedi ben più corposi di quelli offerti dalla semplice nostalgia del passato e dalla illusione del ritorno a ciò che era prima, grazie all’azzeramento della situazione presente. A queste coordinate radicali del problema vogliamo però arrivare dopo avere evidenziato una pluralità di fattori che oggi rendono minato il percorso del lavoro al suo interno e la relazione del lavoro con gli ambiti a cui esso si rapporta. Quanto diremo si riferisce eminentemente, sebbene non unicamente, alla situazione italiana, come si sa maggiormente scoperta rispetto ad altre nel panorama europeo e mondiale.


La strozzatura nel rapporto tra offerta e domanda di lavoro

Anzitutto possiamo mettere in luce le strozzature che mortificano l’offerta di lavoro, certo con differenze dovute ai diversi profili di mestiere e di professione ma con una nota comune, che si può riassumere nella scarsità della domanda di lavoro. Si ravvisa la causa della scarsità della domanda di lavoro negli elevati costi del lavoro e nelle rigidità contrattuali volute dalle leggi vigenti (comprese quelle in vigore con la riforma Fornero, a suo tempo tacciate di cedimento alla flessibilità selvaggia). In verità essa è dovuta a una pluralità di motivi, i quali vanno dall’impiego crescente delle tecnologie alle convenienze della delocalizzazione dei processi produttivi, peraltro associate alle tecnologie elettroniche. In tale rassegna di cause però, quella che per lo più si tace, o di cui si fa menzione solo per rimuoverla frettolosamente dall’elenco dei problemi cosiddetti seri, riguarda gli esiti di sovrapproduzione di beni che, replicati e moltiplicati in un’ottica di sviluppo ripetitivo, incontrano limiti attinenti alla saturazione dei consumi già dati, a meno di incoraggiare le forme di accanimento consumistico a cui si è dato il nome di turboconsumo (Lipovetsky 2007).
I limiti ai consumi derivano, come è noto, dal conflitto non più archiviabile con le esigenze dell’ambiente e dalla frizione con stili di vita che, dopo la sbornia di un’accumulazione materiale a dominante individualistica, certo non uniforme ma prevalente nell’immaginario più diffuso, cominciano a orientarsi alla qualità piuttosto che all’accrescimento della quantità dei beni e a modalità di fruizione relazionale possibili nel coinvolgimento con altri.
Pertanto, per tutte queste ragioni, sarebbe riduttivo considerare il difficile incontro tra domanda e offerta soltanto dal punto di vista delle dinamiche dell’economia strettamente intesa, come una questione quindi di costi e di insufficiente flessibilità nel rapporto tra datori e prestatori di lavoro. Il fenomeno, invece, coinvolge anche il significato individuale e collettivo che si può attribuire all’attività lavorativa e produttiva. In sintesi, la domanda è la seguente: come si può saldare il nesso tra domanda e offerta di lavoro, come si può insomma alimentare il circuito produttivo della ricchezza in una condizione storica nella quale a vacillare è proprio l’idea di ricchezza finora prevalsa, e non semplicemente quanto alla sua appropriazione (risvolto caro a Marx e al neo-marxismo) ma anche in ordine alla sua appetibilità come bene effettivo? In altre parole, si tratta di un problema di legittimazione: quanta validità si può attribuire a un’attività lavorativa e produttiva che arranca a prendere contatto con i bisogni, nuovi e diversi, che essa dovrebbe soddisfare e, nel caso li disattenda, rischia quindi di avvinghiarsi intorno a se stessa, diventando un meccanismo cieco che non sa dove mettere i propri passi?
La precarietà strutturale del «mercato del lavoro» si congiunge qui con una sorta di coscienza infelice, che meriterebbe di suscitare riflessioni inquietanti ma feconde e non dovrebbe essere sepolta sotto la coltre di formule in apparenza stimolanti e nella sostanza di vaga applicazione. Infatti, per ricostituire la corrispondenza tra offerta e domanda di lavoro, per rivitalizzare cioè il mercato del lavoro, si dice che bisognerebbe facilitare la possibilità di assumere e rilanciare così il meccanismo della crescita. Questa parola d’ordine, nella sua declinazione indifferenziata, non riesce però a offrire prospettive di futuro e richiama la strategia dello struzzo che infila la testa sotto la sabbia per non guardare avanti. L’opposta parola d’ordine della decrescita, nonostante difficoltà di articolazione operativa, ha il merito principale di sottoporre a un vaglio critico gli automatismi del modello di sviluppo che si è inceppato e, inoltre, costringe a riaprire la domanda sulle insufficienze dell’economia autoreferenziale. Altre luci cercano di illuminare il firmamento ingrigito dell’economia: la coniugazione dell’economia con il dono, proposta nell’insegnamento sociale della Chiesa, la riscoperta dell’economia civile con la sostituzione del paradigma relazionale al posto della logica individualistica insita nell’utilitarismo, notoriamente già bersaglio della critica di Amartya Sen. Coerentemente applicate e non relegate al rango di un semplice supplemento d’anima, queste indicazioni esigerebbero una profonda revisione dei motivi di incontro tra domanda e offerta di lavoro.
Alla leva della ricchezza associata al profitto dovrebbe per lo meno affiancarsi quella del perseguimento di un diverso tipo di ricchezza, collegata a modalità più cooperative nella produzione e a modalità più partecipative nel consumo. Da tutto ciò non potrebbe scaturire un allargamento della domanda di lavoro? E quindi un contributo alla riduzione della strozzatura nel rapporto con la sua offerta? Come è evidente, qui l’aspetto economico della questione si lega strettamente con il significato da riconoscere per il lavorare e il produrre. Un lavoro felice è anche quello che riesce a collocarsi in un contesto costruttivo di nuova civiltà e non si condanna a essere un mero mezzo di sussistenza. In un passato non lontano il lavoro è stato osannato come il vettore privilegiato, o addirittura unico, della futura società dei liberi e degli eguali. Disincantati rispetto a questa visione sacrale del lavoro, e a quella che Simon Weil chiamava «religione delle forze produttive», non possiamo nemmeno, in una visione laica di esso, destituirlo di ogni senso sociale. Il risultato sarebbe la pretesa insostenibile di motivare l’attaccamento al lavoro esclusivamente come anonima funzione produttiva o, tuttalpiù, come perseguimento dell’interesse egoistico.


La strozzatura nel nesso della formazione con il lavoro

Un’altra strozzatura che angustia le possibilità di lavoro nell’epoca della sua precarizzazione strutturale riguarda il nesso tra lavoro e sistema formativo. Anche questo divario viene prevalentemente messo in luce sotto l’aspetto della disfunzione sistemica, mentre rimane nell’ombra il lato della sottrazione di significato che viene patita dai soggetti che non riescono a collegare la formazione con il lavoro. Nei decenni passati, e in misura più accentuata con la liberalizzazione degli accessi agli studi universitari, formazione e lavoro venivano ordinati, con l’eccezione di indirizzi scolastici già in partenza mirati a sbocchi professionali, lungo un asse di continuità non programmata e affidata piuttosto a una scontata sovrabbondanza delle occasioni di lavoro, la quale permetteva un ventaglio di opzioni non precostituite. L’intero sistema della formazione era inoltre considerato come una sorta di ascensore sociale che si apriva a piani differenti ma tutti in qualche modo gratificanti e di accesso sempre disponibile. Alla rarefazione, o almeno alla dilazione nel tempo, degli sbocchi lavorativi oggi si vuole far fronte invocando la funzionalizzazione dell’istruzione al lavoro. La conseguenza inevitabile di una tale impostazione, nonostante le intenzioni in senso contrario di chi la propone, è una strisciante svalutazione del sistema dell’istruzione, alla quale non si accompagna, d’altro canto, una fuoriuscita dalla penuria di lavoro. Se infatti la domanda di lavoro diminuisce o diventa debole, e diminuisce o si indebolisce proprio per la scarsa propensione a utilizzare il lavoro cognitivo (Visco 2009) a causa di una persistente frammentazione delle unità produttive, allora lo sforzo del sistema formativo di riciclarsi per gli scopi produttivi corre il rischio di rimbalzare su se stesso. L’incentivazione di attività di start up nelle istituzioni universitarie, e la stessa produzione di brevetti, sono anch’esse a rischio di non reperimento di finanziamento adeguato sul mercato o da parte degli istituti bancari.
Il nesso tra formazione e lavoro è senz’altro un obiettivo da perseguire. Ma in che misura esso può essere affidato a un’ossessione produttivistica che acuisce i problemi invece di risolverli? Ad evitare un incongruo corto circuito tra istruzione e lavoro, gli ambiti rispettivi non andrebbero separati, ma andrebbero certamente distinti. Ciò vuol dire che l’istruzione andrebbe vista anzitutto come un bene o un valore in sé. Solo rispettandone l’autonomia (che non si riduce, come spesso si crede, alla recezione del concetto nelle norme statutarie delle istituzioni scolastiche e universitarie) essa può diventare bene e valore anche in ordine al lavoro e alla produzione.
Di conseguenza, il soggetto impegnato nella formazione dovrebbe essere messo in grado di dare significato intrinseco anzitutto al proprio percorso formativo e alle componenti sia teoriche sia pratiche nelle quali esso si articola. Ciò non impedisce che la formazione venga caratterizzata da una opportuna alternanza tra scuola e lavoro idonea a irrobustire il profilo formativo e a renderlo già in se stesso duttile ai fini degli sbocchi applicativi. Se però, da chi è impegnato nella formazione, viene messa al primo posto la corrispondenza immediata e lineare con lo sbocco lavorativo, sarà difficile evitare una lunga catena di distorsioni semantiche che, dalla svalutazione dell’importanza intrinseca del curriculum formativo, si spinge fino alla delusione del mancato incontro del profilo formativo con l’attività lavorativo-professionale effettivamente svolta.
Pertanto, ci sarebbe da augurarsi che all’idea di due fasi successive concatenate in funzione prevalentemente produttiva subentrasse l’idea di una distinzioni di momenti, quello formativo e quello lavorativo, da coniugare con una buona alternanza, rispettosa e valorizzatrice dei rispettivi ambiti. L’alternanza formazione-professione potrebbe essere inoltre l’obiettivo di un long life learning in grado di riempire di significato la durata complessiva dell’esistenza personale e di costituire un antidoto efficace alla precarizzazione professionale, nella ricerca di una stabilità non affidata unilateralmente ed esclusivamente ai ruoli lavorativi.


Significato del lavoro e significati della persona

Questa riflessione sul significato del lavoro nell’epoca della sua precarizzazione strutturale sfocia infine nell’esigenza di collocare il lavoro in un contesto più ampio, che è quello della persona, nel suo spessore individuale e relazionale. Il significato del lavoro per la persona non va isolato dall’insieme dei significati che la costituiscono, in se stessa e nella relazione con altre persone. Ciò comporta anzitutto superare l’ipertrofia semantica del lavoro, che è causata dal far coincidere il lavoro con l’intero della persona. Se è vero che il lavoro è dimensione propria della persona e del suo rapporto con il mondo, è altrettanto vero che esso è una parte e non la totalità della sua espressione. Occorre quindi dare respiro anche ad altre dimensioni, pena il cadere in un tipo di alienazione che consisterebbe nella dipendenza assoluta dal lavoro (nel volume Non di solo lavoro, 1998, l’ho chiamata alienazione da lavoro per distinguerla dall’alienazione che può aversi nei processi del lavoro).
Quali altre dimensioni debbono essere riconosciute alla persona? Riprendendo alcune suggestioni aristoteliche e sottoponendole però a una interpretazione che insieme ne prende le distanze, possiamo dire che l’umano, oltre che lavoro, è anche capacità di agire e di contemplare. Come intendere il carattere peculiare dei momenti di questa polivalenza antropologica? Ci possiamo aiutare con le categorie dell’avere e dell’essere, senza la pretesa di separarle, dal momento che si è anche ciò che si ha, ma senza confonderle misconoscendo la loro irriducibilità. Il lavoro tende prevalentemente alla disposizione dell’avere, l’agire tende soprattutto a incrementare l’essere che si è già, il contemplare è apertura spregiudicata all’essere fino a riconoscerlo nel suo valore incondizionato, il quale porta a trascendere l’ordine delle condizioni esistenti in vista del possibile (Totaro 2013). Anche nel lavoro, tanto più quanto più esso assume i caratteri della esplorazione e della scoperta (Rullani 2004a e 2004b), ci sono certamente elementi di azione e di contemplazione; questi possono essere però colti come tali e possono essere portati a manifestazione piena se non vengono soffocati da una visione strumentale unilaterale ed esclusiva. La ricchezza del lavoro è tanto più grande quanto più esso, oltre che conseguire i propri scopi di disposizione del mondo, viene a propiziare le capacità dell’agire e del contemplare e non le fagocita nei tempi e negli spazi che sono subordinati a una logica strumentale.
Una tale visione contestuale del lavoro, proprio in un’epoca che fa schizzare in alto l’assillo per il lavoro al punto da far vivere come annullamento d’essere la sua mancanza, può offrire alla persona una rappresentazione più consona della propria dignità. Non si tratta di un discorso di vacua consolazione. Una persona consapevole di non ridursi alla dimensione lavorativa può essere anche più forte nell’affrontare le sfide della precarizzazione strutturale e nell’adoperarsi per ottenere condizioni di cittadinanza che lo tutelino in ragione del suo stesso essere persona, prima ancora che lavoratore, dall’emarginazione e dalla esclusione. Inoltre questa prospettiva, per non disperdersi in puro sfogo morale, dovrebbe costituire il punto di partenza per sollecitare nuove istituzioni sia della cittadinanza e per la cittadinanza sia del lavoro e per il lavoro, per un ampliamento di risorse e di destinazione del loro uso che vadano al di là di impostazioni politiche miopi e caratterizzate dall’attendismo nei confronti di processi di mercato i quali, privati di indirizzi coraggiosi di governance, da spontanei tendono a diventare selvaggi. Qui si tocca con mano come il significato del lavoro s’intrecci con l’istanza di una significazione storica complessiva, la quale è legata alla mobilitazione di una pluralità di energie oggi paralizzate dall’occhio dominante della medusa economica.


Riferimenti bibliografici

Lipovetsky G. (2006), Una felicità paradossale. Sulla società dell’iperconsumo, Raffaello Cortina, Milano.
Rullani E. (2004a), Economia della conoscenza. Creatività e valore nel capitalismo delle reti, Carocci, Roma.
Rullani E. (2004b), La fabbrica dell’immateriale. Produrre valore con la conoscenza, Carocci, Roma.
Totaro F. (1998), Non di solo lavoro. Ontologia della persona ed etica del lavoro nel passaggio di civiltà, Vita e Pensiero, Milano.
Totaro F. (2013), Assoluto e relativo. L’essere e il suo accadere per noi, Vita e Pensiero, Milano.
Visco I. (2009), Investire in conoscenza. Per la crescita economica, il Mulino, Bologna.


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