cosmopolis rivista di filosofia e politica
Cosmopolis menu cosmopolis rivista di filosofia e teoria politica

Le autonomie locali tra promesse e tradimenti

BEATRICE DRAGHETTI
Intervista a cura di Luca Alici. Articolo pubblicato nella sezione: Il "vissuto" della crisi - Testimonianze.

Partiamo dall’attualità: la Legge n. 35/7 agosto 2012, che è passata agli onori della cronaca per la proposta di riordino delle province, contiene la riproposizione di due grandi temi, ovvero la sfida della città metropolitana e della condivisione, per i piccoli centri, di servizi e competenze. Ci può spiegare le finalità e gli obiettivi di queste due prospettive? E a che punto siamo, dal suo punto di vista, su questi due fronti?


Le due tipologie di innovazione istituzionale rispondono a obiettivi diversi, anche se non escludentisi.
La Città Metropolitana corrisponde all'esigenza di governo, molto peculiare, delle aree metropolitane del Paese. In questi contesti occorre a mio avviso un ente che, fortemente legittimato dal basso, abbia la capacità di pianificare il territorio, programmare e organizzare i servizi essenziali e gestire quelle funzioni (penso ad esempio ai trasporti) che non possono essere svolte efficacemente dai singoli Comuni, dalle loro forme associative o tanto meno dalla Regione. Occorre cioè un ente funzionalmente più caratterizzato in chiave metropolitana rispetto alla “vecchia Provincia”, che in queste aree verrebbe sostituita. Ovviamente a maggiori funzioni occorre accostare una governance adeguata rispetto sia alla legittimazione sia ai relativi ed effettivi poteri.
La tendenza del legislatore alla creazione di Unioni di Comuni si ispira piuttosto a una logica di efficienza gestionale: organizzare i servizi intorno ad un unico (anche se ulteriore) soggetto territoriale (Unione) che consenta economie di gestione rispetto alla frammentazione. In questa prospettiva sono convinta tuttavia che solo la fusione dei Comuni possa offrire veramente la massima ottimizzazione. Non un soggetto in più, ma tanti in meno: i Comuni che si fondono, a fronte di servizi efficaci garantiti comunque tramite un decentramento sul territorio degli uffici del Comune, esito della fusione.
Rispetto poi all'attuazione di queste previsioni di nuovi assetti territoriali, per quanto riguarda la Città Metropolitana, il territorio bolognese - una delle dieci aree metropolitane confermate con il d.l. 95/2012 - dall'autunno scorso è stato impegnato ad avviare “la fase costituente del nuovo ente metropolitano”.
I tempi di risposta delle nostre istituzioni locali sono stati, a mio avviso, soddisfacenti: ad ottobre 2012 la Conferenza metropolitana per l'approvazione dello Statuto metropolitano provvisorio, prevista dalla legge, era già formalmente costituita e insediata con l'adesione di tutti i 60 sindaci del territorio e la co-presidenza della Provincia e del Comune capoluogo. I lavori costituenti, già ben istruiti tecnicamente, stavano per partire con l'attività di specifiche sottocommissioni tematiche di Sindaci, supportati dagli uffici provinciali e comunali, quando... qualcosa (!) si è inceppato: il Parlamento, in debito di ossigeno e di coraggio nel sigillare gli accorpamenti di Province, forse meno digeribili di una loro eliminazione totale, non ha convertito il Decreto legge attuativo del riordino e da ultimo, nella legge di stabilità, a Governo ormai in scadenza, preso atto del fallimento parlamentare del riordino, sono stati sospesi anche i lavori delle Conferenze metropolitane e dunque l'elaborazione degli statuti metropolitani.
A questo punto si è registrata una macroscopica contraddizione.
Con volontà o per svista, pur sospesa la costituente locale, nella stessa legge (ad oggi vigente) si è confermata l'istituzione delle Città metropolitane con decorrenza dal 1 gennaio 2014 assieme alla contestuale soppressione della Provincia di riferimento. È stata sospesa dunque la via, ma mantenuta la meta: una Città Metropolitana fantasma, in assenza di statuto, organi, funzioni, legittimazione popolare e democratica.
A questo punto che fare? Difficile immaginare un percorso istituzionale e costituente in assenza di una linea legislativa chiara, per tralasciare le fatiche dovute all'incertezza politica postelettorale.
Spero che sapientemente, “più prima che poi”, si metta mano ad una riforma costituzionale complessiva dell'intero sistema delle autonomie locali, per dare ordine ai livelli istituzionali di governo, puntando sulla specificità e sull'omogeneità delle funzioni, in modo da evitare punti di veto e rallentamento delle decisioni, anche in chiave di semplificazione, per il miglior governo e lo sviluppo del territorio.
Per quanto riguarda le Unioni, credo che il nostro territorio bolognese abbia fin da subito colto questa opportunità. La Provincia da ormai vent'anni è di fatto “il luogo del coordinamento e della governance territoriale”, tramite un'azione sistemica realizzata con la Conferenza metropolitana dei 60 Sindaci della provincia - organismo attivato nel 1994 -, capace di elaborare e sostenere politiche integrate, declinando le specifiche competenze dei Comuni e della Provincia nella dimensione del bene comune di area vasta, con l'obiettivo anche di favorire la nascita di forme associative fra Comuni. Nell'anno in corso si è concluso il primo processo di fusione di Comuni ( da 5 a 1), primo esempio in Italia. Penso proprio che occorra ora più che mai tornare al “vecchio” spirito della L. 142/1990, quando l'Unione era descritta come il primo passo verso la fusione dei Comuni. Un passaggio culturale che all'epoca non fu “digerito” anche a causa di campanilismi e di personalismi, ma che oggi - anche per la situazione economica complessiva- può e deve invece opportunamente rivalutarsi come “la strada maestra” della riorganizzazione degli assetti territoriali.


Come giudica più complessivamente il cammino italiano di reinterpretazione dell’articolo V della Costituzione in chiave federalistica? Abbiamo intrapreso un percorso adeguato o viviamo ancora una situazione di distanza tra proclami e realtà? Il nostro Paese si sta dimostrando all’altezza di questo tipo di rinnovamento?


Il tema del federalismo in Italia è stato sempre sbandierato nelle campagne elettorali, ma in concreto non si è mai trasformato in riforme vere dello Stato e delle autonomie locali. Si sono scritte ed approvate leggi parziali che, per la loro attuazione, attendevano ed attendono ancora altri provvedimenti legislativi o regolamentari. In sostanza, il federalismo italiano è una riforma sempre annunciata e mai realizzata. Sicuramente le autonomie locali hanno sofferto di questa situazione che si trascina irrisolta da decenni: ora addirittura si deve purtroppo registrare un' inversione di rotta a favore di un neocentralismo fiscale e finanziario dello Stato rispetto alle autonomie locali. I timidi tentativi di assumere costi standard per la valutazione della spesa pubblica per servizi non hanno ancora trovato una solida base legislativa e di giustizia sulla quale costruire una vera riforma della spesa pubblica. E di questo le autonomie locali più virtuose subiscono indubbiamente le conseguenze più negative.


Sussidiarietà e federalismo: sono due parole chiave del dibattito pubblico, che spesso monopolizzano la scena e rischiano di fungere da specchietto per le allodole. Ci dice come lei le interpreta e che valore riconosce ad esse?


Sussidiarietà e federalismo sono scelte molto importanti per l'organizzazione di un Paese democratico ed efficiente nelle sue varie articolazioni. Sono prospettive anche molto presenti nominalmente nei testi delle nostre leggi, senza peraltro la garanzia della loro attuazione nella realtà concreta della pubblica amministrazione. La sussidiarietà è un'impronta di corresponsabilità da praticare tra Stato, Regioni e autonomie locali, tra queste e le associazioni economiche e del volontariato e le imprese private, con le famiglie, affinché tutte queste realtà nella collaborazione reciproca assumano parte, tanta o poca in funzione della loro posizione, di responsabilità nella attuazione delle politiche pubbliche. Per il raggiungimento di questo obiettivo le autonomie locali dovrebbero svolgere un ruolo più centrale nella politica nazionale, perché è nelle realtà territoriali che tale collaborazione concreta si può realizzare su obiettivi condivisi e utili per tutta la comunità.


Eccoci alla seconda questione impellente che la nostra quotidianità così incerta ci pone: la crisi economica. Quali conseguenze ha avvertito più gravi tra quelle che le realtà locali di governo hanno dovuto subire in seguito alla crisi e alla “spending review”? Quali i settori della pubblica amministrazione locale che più hanno pagato in termini di tagli e ridimensionamenti?


Le autonomie locali hanno subito e stanno subendo tuttora una limitazione molto profonda della loro capacità di gestione e di scelta rispetto all'utilizzo delle poche risorse economiche a loro disposizione. Lo Stato ha accentrato nella Banca d'Italia i depositi finanziari di Comuni e Province, impedendo loro, con gli strettissimi vincoli del patto di stabilità, di utilizzarli per dare ai cittadini servizi e opere pubbliche al passo con le loro esigenze e con ciò contribuire a contrastare la crisi. Dopo un processo di “spending review” attuato dagli Enti locali negli scorsi anni, che ha portato molti di essi a tagliare eventuali sprechi e ridurre i costi dei servizi resi ai cittadini, buon’ultima anche la struttura centrale dello Stato con i vari Ministeri ha adottato il processo di “spending review”, imponendo agli enti locali la diminuzione e/o l'annullamento dei trasferimenti statali e l'impossibilità di utilizzo dei fondi a disposizione. A seguito di questo processo tutta la Pubblica Amministrazione locale continua a soffrire per la progressiva mancanza di risorse spendibili e gli amministratori locali devono con la perizia e la saggezza politica dovute intervenire nei bilanci per cercare di limitare al minimo le ricadute delle azioni della cosiddetta “spending review” sui servizi per i cittadini. Voglio esplicitare che i vincoli imposti dal patto di stabilità ci impediscono di realizzare nuovi investimenti e ci costringono a bloccare parte dei trasferimenti di denaro alle imprese, con il risultato di deprimere ulteriormente il ciclo economico e di rendere meno efficace la capacità dell'Ente locale di sostenere il ciclo produttivo.


Quali sono le difficoltà più pesanti che avverte e vive nella sua quotidianità di amministratrice locale in tempi di crisi?


Quotidianamente ricevo sollecitazioni da lavoratori e lavoratrici di aziende in difficoltà e da persone che hanno perso il lavoro; la Provincia di Bologna gestisce, attraverso il Tavolo per la salvaguardia del patrimonio produttivo, centinaia di tavoli che affrontano le crisi aziendali, con il duplice obiettivo del mantenimento delle imprese sul territorio e della garanzia dell'occupazione. Sono più di quattro anni che affrontiamo la crisi, e fino ad ora siamo riusciti, mettendo in campo tutti gli strumenti e tutte le risorse disponibili, a mantenere il sistema in equilibrio, anche grazie alla capacità di dialogo tra mondo delle imprese ed organizzazioni sindacali, capacità che contraddistingue l'area bolognese. Ma la situazione è al limite. Il numero dei disoccupati cresce, così come cresce il numero dei giovani che non riescono a trovare un'occupazione dignitosa.
Ecco, in questa situazione così critica, e nella incertezza istituzionale che stiamo vivendo, è necessario sapere definire le priorità, non dimenticando mai che il nostro impegno deve rivolgersi primariamente verso coloro che sono in difficoltà.


Che ruolo si sentirebbe di riconoscere alle autonomie locali per essere protagoniste di un passo significativo oltre la crisi? Come, al cospetto di una crisi che le autonomie locali stanno pagando sulla propria pelle, possono rimboccarsi a loro volta le maniche e fornire un contributo costruttivo e originale?


La crisi è economica, ma non solo, e questi ultimi 4-5 anni ci dicono che bisogna pensare, condividere ed attuare cambiamenti che devono incidere sulla nostra struttura sociale e istituzionale, con un impegno a modificare il modello di sviluppo che nei fatti programma e crea emarginazione e povertà e sapendo che ciò non può avvenire ovviamente a prescindere da cambi di rotta a livello mondiale. È rapidamente cambiata la composizione sociale dei diversi territori del Paese con il fenomeno dei migranti e con le nuove povertà. È cambiata anche la relazione tra cittadini e istituzioni locali, non più fondata sulla sola democrazia delegata. Le autonomie locali spesso sono già all'avanguardia nel conoscere e interpretare le nuove necessità delle comunità locali. Dovranno esse sicuramente interpretare in prima persona il principio del “fare di più con meno” viste le calanti risorse a disposizione e le crescenti esigenze di coesione e solidarietà sociale. Ciò si realizzerà se sarà effettivamente reso possibile un ulteriore avvicinamento delle autonomie locali ai cittadini anche per chiedere loro collaborazione e corresponsabilità nelle decisioni di politiche pubbliche che devono essere sempre partecipate ed efficaci.


Quale responsabilità e potenzialità riconosce alle autonomie locali in un quadro di internazionalizzazione e globalizzazione? Vi è un terreno di relazioni internazionale in cui le istituzioni locali possono spendersi in prima persona e con quali obiettivi?


Sempre più le dimensioni significative della vita anche delle autonomie locali hanno un profilo sia locale sia globale. L'esperienza e la vita della comunità locale sono valide quando possono essere compatibili con lo sviluppo dell'intero pianeta. L'incidenza globale dei problemi del mondo è ormai un'evidenza per tutti e la facilità di comunicazione permette conoscenza diretta, scambio di idee e di immagini fino a qualche tempo fa impensabili.
Per questo le autonomie locali devono agire in un quadro non solo nazionale ma europeo e globale e le relazioni internazionali si dovranno basare sempre più sullo scambio e sull'interazione di esperienze locali e differenziate, per poter stimolare un confronto sulla capacità creativa delle diverse comunità nel campo della organizzazione sociale, della cultura, della produzione di merci e progredire effettivamente insieme. Per questi obiettivi credo che le autonomie locali abbiano interesse e voglia di spendersi anche direttamente in relazioni internazionali, che possano agevolmente realizzare tra di loro e senza mediazioni.


Non si può non evidenziare come negli ultimi anni si siano avute forme di partecipazione democratica e proposte di riforma che sono partire da una dimensione in primo luogo "locale", a volte caratterizzata da un problema o un progetto molto specifico (i comitati per la ripubblicizzazione della gestione dell'acqua, la lotta intorno alla faccenda dei rifiuti a Napoli, lo stesso Movimento 5 Stelle con cavalli di battaglia come quello dell'inceneritore di Parma, la faccenda della Tav, le campagne molto peculiari di Doria e Pisapia). Che ruolo si sente di riconoscere a questa democrazia locale e dal basso che poi finisce per riflettersi sul piano nazionale e mettere sul tavolo questioni e nodi specifici?


È doloroso dover ammettere che la democrazia non solo rimane una grande incompiuta anche nel mondo occidentale, ma di fatto risente ormai di un'importante erosione almeno nei fatti delle sue potenzialità e delle sue esigenze. Non mi va, devo essere sincera, in questo passaggio così delicato anche per il nostro Paese, di aggiungere a mia volta lamentazioni e pillole di “si dovrebbe fare”, sport diffusissimo e stucchevole. Tra “potenti” in ogni campo e ad ogni livello, evidentemente anche in ambito istituzionale e politico, ignoranti e sprezzanti del bene comune, e cittadini che stoltamente negli anni si sono lasciati espropriare del profilo di cittadinanza, preferendo accomodarsi nel ruolo di clienti e consumatori con diritto di protesta, si tratta obbligatoriamente di recuperare ora il significato pieno di “essere parte” di una comunità, con responsabilità specifiche e differenziate, contribuendo a promuovere, ciascuno per la propria parte, la dignità di ogni persona e la coesione della comunità nella giustizia.
Non ci si improvvisa cittadini così, con queste attitudini. Che ansia “essere nelle mani” di legislatori da 30 “cliccate” sulla rete o dall'annosa vita spericolata nel malcostume o con l'arroganza di chi vive in pace grazie a privilegi intoccabili!
La partecipazione è questione di educazione, di esperienza, di tirocinio anche a caro prezzo, di disciplina personale e comunitaria. La partecipazione non può fare a meno dei luoghi per il confronto e l'elaborazione delle proposte. La partecipazione deve far assumere responsabilità personali e chiede di rispondere di ciò che viene affidato. La partecipazione non può non essere servizio. Se “dal basso” si imponesse a parole e nei fatti una democrazia così orientata, credo che sarebbe assicurata un'ossigenata risolutiva al nostro Paese, che potrebbe così con coraggio rimettersi sulla strada del reale rinnovamento.


Intervista rilasciata nel mese di aprile 2013

E-mail:



torna su