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Come gestire le “risorse umane” con equità

GABRIELE GABRIELLI
Articolo pubblicato nella sezione: Il "vissuto" della crisi - Analisi

1. Il comportamento umano nelle organizzazioni: una sfida ineludibile per imprese e management. L’importanza dell’equità

L’epoca incerta, frammentata e opaca che viviamo pone nuove sfide e attenzioni anche alla gestione delle risorse umane. La questione centrale affrontata dagli studi e delle pratiche di human resource managament, ossia come attrarre, trattenere e motivare le persone per raggiungere gli obiettivi dell’organizzazione, prende forme e articolazioni più variegate e complesse, in ragione dei molteplici processi di differenziazione organizzativa e di business, sociale e culturale. Quasi in controtendenza, anche se faccia della stessa medaglia, rispetto alla crescente interconnessione di tutti i fenomeni e all’interdipendenza che essa produce. La crisi finanziaria ed economica, poi, che continua a graffiare posizioni e traguardi conquistati in precedenza, porta con sé livelli inconsueti di fragilità personale e sociale, capaci di mettere in discussione equilibri, progetti, speranza di più generazioni. La precarietà del lavoro (che lo indebolisce come espressione della persona) si estende anche a quello sin qui protetto, accomunando - almeno in parte - le preoccupazioni di giovani e meno giovani. Nessun lavoro sembra immune dal cambiamento che si presenta senza una direzione certa e univoca. Aspettative e impegno delle persone vengono ridisegnati, si modificano molti atteggiamenti verso gli oggetti tradizionali del lavoro, come la carriera, il successo e la ricompensa, nuove sfide si affacciano per la gestione della performance e della soddisfazione sul lavoro (Gabrielli 2010). Ne esce un quadro assai frastagliato e multiforme. Assume allora ancor più importanza, per la ricerca e per il management, comprendere e spiegare il funzionamento delle variabili personali e ambientali che influenzano il comportamento organizzativo e le scelte degli individui. Le dinamiche persona-contesto-comportamento diventano la prospettiva centrale, seppur trascurata, anche per gestire la crisi e l’umanità nelle organizzazioni in quest’epoca di transizione. Le persone, infatti, sviluppano e modificano nel tempo diversi atteggiamenti verso il lavoro, la gerarchia, la carriera, i premi e l’incentivazione economica. Si traducono in comportamenti, come per esempio un’attenzione diversa al tempo libero, la ricerca di contenuti adeguati o, anche, un minor impegno nel lavoro a fronte della percezione di essere trattati in modo ingiusto dal capo, dall’organizzazione o del giudizio non positivo, in generale, che si nutre nei confronti del datore di lavoro. Le imprese, d’altro canto, sono luoghi importanti dove si formano e manifestano valori, atteggiamenti e percezioni, quello che le persone pensano. Nei contesti di lavoro tutto questo può cambiare e trovare forme di aggiustamento. Impegno, motivazione e soddisfazione sul lavoro sono fattori decisivi per la performance, anche se influenzati da numerose determinanti e moderate da altrettante variabili. Tra queste un ruolo importante è giocato dall’equità, ossia se e quanto le persone pensano di essere trattate giustamente dall’organizzazione. Gli studi che hanno approfondito la complessa tematica della giustizia organizzativa sono numerosi e talvolta hanno prodotto esiti non univoci. Approcciando in maniera semplificata e riduttiva la questione, in questo contributo vogliamo far cenno - dopo un richiamo ad alcuni concetti sull’equità organizzativa - a due aspetti che ci paiono particolarmente interessanti per la pratica di gestione delle risorse umane e utili anche a supportare questa fase critica di cambiamento. La selezione proposta consentirà di discutere due implicazioni per lo human resource management, che derivano entrambe dalle sollecitazioni avanzate, in particolar modo, dai filoni di ricerca della giustizia distributiva e giustizia procedurale.


2. L’equità nelle organizzazioni

A partire dagli anni ’60, si sviluppano le ricerche sull’equità (Adams 1963, 1965) nell’ambito degli studi di Organizational Development e Human Resource Management, anche se in letteratura sono utilizzati, nella maggioranza dei casi, come sinonimi, anche i termini justice e fairness (Neri 1994, p. 33). L’interesse principale, soprattutto nella prospettiva della pratica manageriale, parte dalla premessa che la fiducia sviluppata verso l’organizzazione dai suoi membri gioca un ruolo di primo piano per la performance e, in generale, per i comportamenti di cittadinanza organizzativa come il commitment. Secondo le teorie che si richiamano al filone di studi sulla giustizia organizzativa, infatti, più gli individui coinvolti sperimentano di essere trattati con equità e conservano la percezione che vi è giustizia in ogni fase dei processi di funzionamento dell’impresa, maggiore sarà la loro fiducia nell’organizzazione, accrescendosi anche la soddisfazione sul lavoro. Quest’ultima influenza e rinforza motivazione, impegno ed energia, indirizzando e sostenendo la prestazione. Del resto la fiducia, si sa, è una risorsa necessaria al funzionamento della società e delle organizzazioni, soprattutto laddove occorra gestire tensioni e conflitti provocati da fasi di trasformazione turbolenta, come la nostra, che richiedono intensi programmi di change management (Nespolo 2006).
L’approccio della giustizia organizzativa (Organisational Justice), dunque, studia come l’equità percepita sul luogo di lavoro sia in grado di influenzare gli atteggiamenti e i comportamenti delle persone. Gli studi dimostrano che il grado di giustizia percepito dalle persone nei processi e nei risultati organizzativi che le riguardano impatta in modo fondamentale su altre variabili correlate al lavoro e alla vita organizzativa. Percezioni positive di giustizia influenzano positivamente sia variabili individuali (per esempio la performance), sia variabili organizzative (per esempio la fiducia nell’azienda e nei suoi leader attraverso il committment nei loro confronti) (Greenberg 1990). Gli studiosi hanno approfondito le implicazioni delle percezioni di equità indirizzando l’attenzione verso diversi ambiti (Neri 1994). Le ricerche, talvolta, si sono concentrate sul contenuto delle decisioni di tipo allocativo, come per esempio il riconoscimento di un incentivo economico, altre volte sul processo e sulle procedure che conducono a tale decisione (per esempio, valutando la trasparenza del processo e le sue caratteristiche) e, altre ancora, su come si svolgono le relazioni tra i soggetti che partecipano al processo. A questi diversi interessi, in letteratura, si fanno corrispondere altrettante categorie di equità che prendono il nome di equità distributiva (distributive justice; Homans 1961), equità procedurale (procedural justice; Thibaut e Walker 1975; Leventhal, Karuza, Fry 1980) e la più discussa equità interazionale (interactional justice; Bies, Moag 1986; Greenberg 1993).


3. Quando percepiamo un’ingiustizia non rimaniamo fermi

Un principio fondamentale della giustizia distributiva (i risultati che ho ottenuto li percepisco come equi?) è quello per cui un individuo è soddisfatto quando valuta il rapporto (ratio) tra risultati ottenuti (output) equo rispetto al contributo fornito (input), considerato anche riguardo al gruppo che sceglie come riferimento (Walster, Berscheid, & Walster 1973). Quando questo rapporto è percepito non equo ci può essere una ingiustizia positiva o negativa. Sarà negativa quando il rapporto input/output è ritenuto più basso rispetto a quello del referente; sarà un’ingiustizia positiva se il rapporto sarà percepito come superiore. In pratica, ciascuno di noi compie due valutazioni: dapprima, compariamo quante “risorse” abbiamo impiegato per ottenere le ricompense che ci sono state riconosciute (per esempio, un aumento di stipendio), successivamente compariamo tale rapporto con la situazione dei colleghi. Bisogna tener conto però (Solari 1999) che la capacità di predire valutazioni e comportamenti conseguenti è resa assai difficile dalla circostanza che le persone possono utilizzare differenti norme di equità (per esempio l’eguaglianza, il merito ecc.). Tutte considerazioni che inducono una certa ambiguità e mettono in guardia la pratica manageriale dall’adottare affrettate correlazioni e utilizzi impropri. Quello che sappiamo, però, è che quando percepiamo un’ingiustizia non stiamo fermi, ma reagiamo in qualche modo. E possiamo farlo assumendo comportamenti differenti (per esempio, impegnandoci di meno, rendendo evidente la nostra insoddisfazione, oppure chiedendo un aggiustamento, ecc.). Come già sottolineato, il concreto comportamento dipenderà da molti fattori e variabili. Nel caso del riconoscimento di una ricompensa economica o di qualche benefit, la percezione di giustizia o ingiustizia dovrà fare i conti con la situazione economica e sociale dell’individuo, con l’importanza assegnata al premio dalla persona, dall’ambiente familiare o da quello degli amici, con i progetti nel cassetto per sé e i propri figli e così via.


4. Equità, welfare aziendale e flexible benefit

Oggi, la relazione tra giustizia e soddisfazione derivante dai benefit (Arnold, Spell 2005) è tra quelle che riceve una particolare attenzione anche nella pratica di gestione delle risorse umane. Le ragioni sono diverse: certamente molto è da attribuire anche alla crisi economica che ha drasticamente ridotto l’ability to pay delle imprese, ma non la necessità di far conto su persone motivate e capaci di supportare l’organizzazione nel perseguimento di obiettivi sempre più sfidanti. In questa prospettiva, le competenze di people management diventano ancor più critiche per l’impresa (Gabrielli 2013) e fattore d’incremento di quella produttività additata come uno dei principali fattori che indeboliscono la competitività del Paese. Le organizzazioni stanno rivalutando l’importanza, da un lato, di ascoltare e riconoscere le attese dei lavoratori e le loro diverse strutture motivazionali, dall’altro, di adottare strumenti e piani di reward meno costosi e flessibili. Si diffondono sulla base di questi presupposti esperienze di welfare aziendale come quelle inaugurate da Luxottica, intese a incrementare il reddito disponibile senza appesantire il costo del lavoro, ma ampliando il contenuto del c.d. carrello della spesa. Cresce inoltre il numero delle imprese che, innovando le loro pratiche organizzative (Carniol 2012), implementano piani di flexible benefit, quelli cioè che offrono a ciascun collaboratore la possibilità di scegliere le componenti del proprio pacchetto di benefit. In questo modo, la percezione di equità dovrebbe volgersi al positivo, perché si valorizzano i benefici che derivano dall’allineamento tra attese e risposte concrete offerte dall’impresa, riducendosi così gli effetti negativi di un disallineamento tra valore erogato e percepito. Ci sono indagini, d’altro canto, che mostrano con indubbia evidenza quanto possa variare l’importanza attribuita dai lavoratori a uno stesso benefit in funzione, per esempio, della fase del ciclo di vita in cui la persona si trova, del genere, del suo reddito e della composizione del nucleo familiare (Gfk, Tower Watson 2010). Poter scegliere diventa in questo modo componente costitutiva del processo di riconoscimento delle ricompense e dei benefit. Richiamando le teorie sulla giustizia organizzativa e, in particolare, gli studi sull’equità procedurale, potremmo dire che quest’approccio qualifica la politica di gestione dei premi di un’impresa come una voice-giving procedure, ossia una procedura «in cui è data ai soggetti la possibilità di entrare in un qualche modo nel processo stesso di decisione» (Neri 1994, p.37). Partecipare potendo esprimere la propria opinione (voice; Hirshman 1970), addirittura avendo un diritto di scelta (choice) e controllando il processo, come nella pratica appena discussa, dovrebbe influire così positivamente sulle percezioni di giustizia organizzativa del lavoratore.


5. Giustizia organizzativa e pratiche narrative di gestione delle risorse umane

La maggiore attenzione posta alla prospettiva individuale, però, non è un fatto isolato nelle pratiche di gestione delle risorse umane. Un maggior rilievo va assumendo, in generale, la capacità di autoregolazione della persona che tende a estendere la sua sfera di azione. Con la luce originata da questa prospettiva, così, viene illuminata una grande e fertile area riservata al protagonismo delle persone e alla loro capacità di scrivere la propria storia. Questa dimensione più narrativa delle organizzazioni esalta conseguentemente anche il ruolo del management come costruttore di ambienti che possono accogliere e favorire una tale direzione. Si esalta parimenti anche il ruolo delle persone, chiamate a fornire un contributo diretto alla definizione della collaborazione. Autovalutazione, autosviluppo, partecipazione diventano, dunque, linee guida anche della riprogettazione e sperimentazione di politiche e strumenti di valutazione e di sviluppo delle risorse umane. Nella prospettiva della giustizia organizzativa incorporare tale filosofia nelle pratiche di gestione vuol dire assegnare all’equità procedurale significato e valore di precondizione necessaria allo sviluppo della distributive justice (Leventhal, Karuza, Fry 1980). Le persone considerano più equi, infatti, sistemi e procedure di valutazione della prestazione che consentono e prevedono la possibilità di una loro attiva partecipazione. È diffusa la pratica organizzativa che abilita i collaboratori, per esempio, a fornire il feedback del feedback ricevuto dal proprio capo, così come sono sempre più numerose le esperienze che chiamano in qualche modo le risorse umane a diventare co-protagoniste nella definizione del loro piano di sviluppo, prevedendo procedure che assegnano ai collaboratori una responsabilità diretta in tal senso, come testimoniato per esempio dal caso Ikea (Profili 2012, 225) o, ancora, partecipando attivamente allo sviluppo di ambienti di apprendimento collaborativi e boundaryless (Amicucci, Gabrielli 2013), resi possibili dalle nuove tecnologie web based.


6. Conclusioni

Lavorare per accrescere la percezione di equità nelle organizzazioni porta molti vantaggi. Lo sviluppo di atteggiamenti positivi dei collaboratori richiede però molta ricerca e sperimentazione. La giustizia organizzativa, infatti, è una prospettiva esigente e si muove su un terreno delicato e complesso. Comprendere quali siano le variabili personali e organizzative che influenzano le percezioni di giustizia dei collaboratori, così, diventa una sfida ineludibile che richiede una visione di lungo termine. Contare su una filosofia di gestione di tal natura significa poter contare su un bene ancora più prezioso in quest’epoca, per molti aspetti critica e opaca. Le teorie e le ricerche empiriche sull’equità, seppur non offrano sempre risultati univoci, tracciano comunque linee guida molto chiare riguardo l’importanza che assume la giustizia organizzativa per la performance, per la soddisfazione sul lavoro e per i comportamenti di cittadinanza organizzativa come la fiducia e il commitment.


Riferimenti bibliografici

Adams, J. S. (1963), Towards an understanding of inequity, in “Journal of Abnormal and Social Psychology”, n. 67.
Adams, J. S. (1965), Inequity in social exchange, in L. Berkowitz, Advances in experimental social psychology, vol. 2, Academic Press.
Amicucci F., Gabrielli G. (a cura di, 2013), Boundaryless learning. Nuove strategie e strumenti di formazione, FrancoAngeli, Milano.
Arnold T., Spell Chester S. (2005), The Relashionship between Justice and Benefits Satisfaction, in “Journal of Business and Psychology”, Vol. 20, No. 4, Summer.
Bies, R.J. & Moag, J.S. (1986), Interactional Justice, communication criteria of fairness, in Lewicky, Sheppard, Bazerman, Research on negotiation in Organizations, vol 1, Jay Press.
Carniol F. (2012), Employee Value Proposition e flexible benefit, Tower Watson, HRC Academy, FrancoAngeli, Milano.
Gabrielli G. (2010), People management. Teorie e pratiche per una gestione sostenibile delle persone, FrancoAngeli, Milano.
Gabrielli G., Sviluppare le competenze per il people management, in Gabrielli G., Profili S. (2013), Organizzazione e gestione delle risorse umane, Isedi, Torino.
Gfk, Tower Watson (2010), http://www.ilsole24ore.com/st/tuttolavoro/atti/Carniol.pdf.
Greenberg, J. (1990), Organizational justice: Yesterday, today and tomorrow, in “Journal of Management”, 16, 399-432.
Greenberg, J., The social side of fairness: interpersonal and informational classes of Organizational Justice, in R. Cropanzano (Ed., 1993), Justice in the workplace: approaching fairness in Human Resource Management, Lawrence Erlbaum Ass., Hillsdale, NJ.
Hirshman Albert O. (1970), Exit, Voice, and Loyalty, Harvard University Press, Cambridge, Massachusetts and London, England.
Homans, G. C. (1961), Social behavior: its elementary from, Harcourt Brace Jovanovich, New York (trad. it., 1975, Le forme elementari del comportamento sociale, FrancoAngeli, Milano).
Leventhal, G.S., Karuza, K., Fry, W.R. (1980), Beyond fairness: a theory of allocation preferences, in Mikula G., Justice and Social Interaction, Springer-Verlag.
Neri M. (1994), L’equità nelle organizzazioni, in “Sviluppo & Organizzazione”, n. 145, Settembre/Ottobre.
Nespolo D., Fiducia e sostegno nei processi di change management. Note sull’efficacia della “giustizia organizzativa” per il successo dei programmi di cambiamento, in Gabrielli G. (a cura di, 2006), Conoscenza, apprendimento, cambiamento, FrancoAngeli, Milano.
Profili S., Valorizzare le persone: sviluppo e carriere, in Gabrielli G., Profili S. (2012), Organizzazione e gestione delle risorse umane, Isedi, Torino.
Solari L. (1999), Equità e soddisfazione: un confronto tra forme organizzative nel Terzo Settore, Working Paper n. 14, ISSAN.
Thibaut, J., Walker, L. (1975), Procedural Justice: a psychological analysis, Lawrence Eribaum Associates, Hillsdale (NJ).
Walster E., Berscheid E., Walster G. W. (1973), New direction in equity research, in “Journal of Personality and Social Psychology”, n. 33.


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