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Welfare e democrazia deliberativa: il contributo della teoria femminista

BRUNELLA CASALINI
Articolo pubblicato nella sezione La democrazia deliberativa: utopia o progetto politico?

Donne e welfare

Il welfare state ha una particolare e irrinunciabile rilevanza in una prospettiva di genere; comprendere perché non è difficile: basti pensare ai dati sulla femminilizzazione della povertà, specialmente tra le anziane e le madri sole, o al ruolo di sostituto del welfare che le donne tradizionalmente hanno svolto, e continuano ancora per lo più a svolgere, occupandosi dei bambini, degli anziani non più autonomi, delle persone disabili o dei malati cronici. Le donne, peraltro, sono la maggioranza non solo come utenti o prestatrici informali e non remunerate di servizi di cura, ma anche come operatrici, ovvero tra coloro (assistenti sociali e infermiere) che sono più direttamente a contatto con gli utenti e che si occupano della loro presa in carico. Qual è stata, dunque, la posizione della teoria femminista nei confronti del welfare state? Storicamente, si può parlare di una narrazione articolata in diversi momenti (cfr. Fraser 2012). Dagli anni settanta alla fine degli anni ottanta, l'attenzione femminista è stata un'attenzione fortemente critica, consapevole di come le sue stesse origini denunciassero la tendenza ad abbattere il patriarcato privato per dar vita ad un patriarcalismo pubblico. Le femministe ne hanno denunciato in questi anni sia il carattere burocratico e androcentrico, sia la natura di sistema gerarchico fondato su una sostanziale fiducia nel ruolo degli esperti. Negli anni successivi l'ondata neoliberista si è appropriata di questi argomenti per smantellare il welfare, sostituendo per lo più in molti paesi, anche europei, il sistema dei servizi con un sistema di cash-for-care che è stato legittimato in base alla maggiore libertà che esso lascerebbe al cittadino-consumatore di scegliere la soluzione più conforme ai propri desideri. L'appropriazione e la neutralizzazione politica degli argomenti della critica femminista al welfare da parte del neoliberalismo ha contribuito a mettere in secondo piano la pars costruens del discorso femminista, che puntava alla sua democratizzazione. Queste brevi pagine intendono ricostruire, seppure in modo appena abbozzato, la posizione femminista e mostrare perché la via della democratizzazione del welfare, mediante il coinvolgimento dei vari movimenti degli utenti, dai disabili ai carer familiari, sia ancora oggi un importante e attuale contributo sia sul piano teorico che pratico-politico.


La lotta sull'interpretazione dei bisogni

In un saggio, contenuto nel volume Unruly Practices (1989), dal titolo Struggle over Needs: Outline of a Social-Feminist Critical Theory of Late Capitalist Political Culture, Nancy Fraser osservava che la discussione intorno all'intervento pubblico dello stato tendeva ad essere ristretta nei confini della domanda se lo stato deve o meno soddisfare determinati bisogni, distogliendo così l'attenzione dal carattere conflittuale e contestato delle rivendicazioni che hanno per oggetto il soddisfacimento di determinati bisogni. Per intendersi, osservava Fraser, può essere facile trovarsi concordi sul fatto che un senza tetto, in un paese dal clima freddo, ha bisogno di un riparo e di cibo; molto difficile è invece convergere su una risposta comune intorno alla domanda relativa a come fornire un rifugio, che tipo di rifugio e con quale tipo di intervento. Per Fraser, dunque, l'attenzione deve essere spostata dai bisogni ai «discorsi intorno ai bisogni» e, in particolare, ai tre momenti in cui si articola la politica dei bisogni: in primo luogo, la lotta per stabilire o negare lo status di un determinato bisogno, ovvero per affermare il fatto che quel bisogno è oggetto di un legittimo interesse pubblico; in secondo luogo, la lotta per l'interpretazione del bisogno e quindi per individuare come poterlo soddisfare; e, infine, in terzo luogo, la lotta per provvedere concretamente alla soddisfazione del bisogno (Fraser 1989, p. 164). Una delle tendenze derivanti dallo stato burocratico androcentrico e capitalista è stata la depoliticizzazione di tutte le questioni rientranti nella sfera domestica o nell'ambito dell'economico. I confini tra privato, economico e politico, tuttavia, non sono mai definitivi né neutrali. I movimenti degli anni sessanta hanno contribuito in modo fondamentale alla loro contestazione e ridefinizione, mostrando l'importanza della partecipazione dei gruppi marginalizzati e oppressi nell'individuazione e definizione dei loro bisogni. Così, per esempio, il movimento femminista ha costruito la propria identità intorno alla politicizzazione di una serie di temi che precedentemente erano stati esclusi dal dibattito pubblico, considerati incontestabili e privi di significato politico: dalla violenza domestica alle molestie sessuali, al sessismo, allo stupro, alla libertà riproduttiva, alla sessualità, ecc. Un altro esempio importante è rappresentato dal movimento delle persone con disabilità. Anche in questo caso un'interpretazione apparentemente neutrale della disabilità, quale quella proposta dal modello medico-scientifico, che vedeva nella disabilità una malattia, una menomazione, un difetto da correggere, è stata messa in crisi, sottolineando il carattere socialmente costruito della disabilità e la necessità di abbattere le barriere sociali che hanno storicamente relegato la persona con disabilità in una condizione di esclusione sociale, marginalità e povertà. Da qui è derivato un movimento di riforma importante, senza il quale non avremmo, tanto per fare un esempio, l'attuale legislazione sull'abbattimento delle barriere architettoniche nei trasporti, negli edifici pubblici, nei luoghi di lavoro, la critica radicale delle scuole speciali, ecc. Sia il movimento femminista che il movimento delle persone con disabilità hanno sottolineato come le ingiustizie di cui i gruppi svantaggiati sono vittima non possono essere ridotte a questioni redistributive, investendo spesso piuttosto l'essere inclusi o esclusi dai processi decisionali e quindi l'avere potere nel determinare non solo quali questioni sottoporre all'agenda politica, ma anche a partire da quali loro interpretazioni si decide di concentrare l'attenzione politica. Alla spinta dei movimenti sociali lo stato burocratico ha tentato, dapprima, di reagire mediante la delega all'espertocrazia delle risposte efficaci ai bisogni emersi e, in anni recenti, con una forte spinta alla riprivatizzazione, ovvero in entrambi i casi con una mossa in direzione di una spoliticizzazione dei processi di elaborazione delle politiche pubbliche (cfr. Young 1996). Diverse teoriche contemporanee, in particolare nell'ambito dell'etica politica della cura (cfr. Tronto 2006; Barnes 1999, 2012; Le Goff 2012), continuano, tuttavia, a sostenere che la strada della democratizzazione del welfare, sulla base di un modello di democrazia deliberativa il più possibile inclusivo di un pubblico eterogeneo (comprensivo anche di coloro che possono non avere capacità cognitive nella norma, adeguate competenze linguistiche, o una perfetta padronanza delle regole di interazione - come spesso può accadere nel caso degli utenti dei servizi -, ma possono trovare altre forme espressive nel disegno, nel racconto della propria storia, ed essere sostenute, se abituate a non essere trattate con rispetto, nel prendere voce e nel processo di svelamento di sé grazie a particolari gesti di accoglienza - cfr. Young 2000), iniziata dal movimento dei disabili e dal movimento femminista, debba essere proseguita grazie alla mobilitazione delle associazioni degli utenti. Il loro coinvolgimento attivo nei processi deliberativi può, infatti, offrire risorse importanti in termini di input per la creazione, l'organizzazione e il management di servizi più vicini al cittadino e più rispondenti alle sue reali esigenze. Le spinte dal basso che provengono dal mondo delle associazioni hanno un notevole potenziale trasformativo sia sui servizi sociali che su quelli sanitari, come dimostra nei suoi numerosi lavori Marion Barnes a partire dall'osservazione attenta del caso inglese. Esse rappresentano una forma di democrazia che non si esaurisce nel meccanismo dell'urna, nelle forme della democrazia rappresentativa, ma, coinvolgendo cittadini e amministratori insieme nell'attiva partecipazione a processi decisionali collettivi, permette una migliore raccolta delle informazioni necessarie ai fini delle decisioni pubbliche, con un accesso privilegiato alla conoscenza locale derivante dall'esperienza vissuta (cfr. Barnes 2012, p. 156), una migliore comprensione delle questioni sulle quali investire energie e risorse, un maggiore coinvolgimento di funzionari, operatori e utenti, e quindi una loro più ampia disponibilità nei confronti delle istituzioni, e, in ultima analisi, avvia un processo trasformativo in cui le parti coinvolte possono essere aiutate ad allontanarsi dalle loro preferenze particolaristiche e interessate per arrivare alla creazione di preferenze informate e razionali.


I movimenti degli utenti e dei carer informali: il caso inglese

Nel 1990 il governo conservatore approvò in Inghilterra il National Health Service and Community Care Act. Questa legge rappresentò una riforma radicale del sistema di welfare, portando ad un sostanziale spostamento di competenze sul piano locale in nome di servizi sempre più tagliati sull'utente e sulla comunità. Le critiche verso le istituzioni totali del passato, la loro scarsa flessibilità e la loro natura stigmatizzante fecero pensare che la soluzione ottimale potesse essere la strada verso la privatizzazione e l'empowerment dell'utente, che doveva essere ascoltato nelle sue vesti di consumatore. Nella pratica, il community care ha preso, però, a livello locale, direzioni che non erano state inizialmente contemplate dal legislatore: nella ricerca di strategie per includere coloro che erano stati precedentemente esclusi, in alcuni casi si è rivalutata la dimensione della cittadinanza, vista non solo come titolarità di diritti e doveri, ma pratica di partecipazione sociale e civica di coloro che sono destinatari dei servizi e si ritiene per questo dovrebbero poter far sentire la loro voce nel processo decisionale. Nel Regno Unito, la mobilitazione delle associazioni dei disabili mentali e fisici costituiscono il principale esempio di come «persone considerate tradizionalmente riceventi passivi di cure possono essere attori che svolgono un ruolo non soltanto nella produzione del welfare, ma anche sul più ampio palcoscenico della società» (Barnes 1999, pp. 90-91). La loro partecipazione al processo decisionale ha consentito sicuramente l'acquisizione di una maggiore sensibilità da parte delle istituzioni verso le ingiustizie reali da cui erano afflitti, ma la loro stessa presenza nei momenti deliberativi ha fatto molto di più: ha mutato radicalmente la percezione che la società aveva di determinati gruppi sociali, portando ad una loro più effettiva inclusione nella cittadinanza. Le loro lotte testimoniano come la creazione di spazi di partecipazione non limitati alla lotta politica partitica e al momento della competizione elettorale possano contribuire alla creazioni di istituzioni maggiormente capaci di rispondere ai bisogni sociali dei gruppi più svantaggiati. Lo stesso valore positivo sembra avere avuto nell'esperienza inglese anche la valorizzazione delle associazioni dei carer informali, ovvero dei familiari, prevalentemente donne, che si occupano dell'assistenza di anziani fragili, persone con disabilità o malati cronici. Dalla loro mobilitazione, dalle loro rivendicazioni, dalla loro richiesta di veder riconosciuto il proprio ruolo è nato uno stimolo a svolgere ricerche specifiche che, grazie soprattutto all'analisi delle loro biografie, alla raccolta di interviste o alla loro partecipazione a focus group o a panel, hanno consentito di rendere visibili, da un lato, i problemi economici, di lavoro e, spesso, di salute che comporta l'assistenza informale ventiquattrore su ventiquattro ad un familiare non autonomo; dall'altro il risparmio finanziario che lo stato ricava dal loro lavoro informale, non retribuito. Il sostegno che la ricerca ha dato alle rivendicazioni sociali dei carer ha consentito di arrivare ad una serie di interventi legislativi mirati ad alleviare la loro condizione di esclusione sociale e di disagio economico, culminati nel Carers Recognition and Services Act.


Conclusioni

Un welfare democratizzato dovrebbe essere capace di dialogare, ascoltare e trarre indicazioni dal modo in cui gli utenti percepiscono i loro bisogni e dalla valutazione che offrono dei servizi che sono messi a loro disposizione, dovrebbe essere capace di coinvolgerli sia nella fase della progettazione che del funzionamento dei servizi sociali e sanitari. A tal fine, può essere utile il riferimento ad un modello di democrazia deliberativa inclusiva (cfr. Young 2000), in cui l'obiettivo non è tanto illuminare il pubblico grazie alla trasmissione e alla diffusione di un sapere esperto, quanto al contrario di consentire la circolazione di quel sapere di senso comune che deriva dall'esperienza vissuta, dalla conoscenza locale, dei gruppi marginalizzati e oppressi. Il loro ingresso nei processi decisionali, l'ascolto del loro punto di vita e delle loro ragioni, che possono essere espresse talvolta nelle forme dell'argomentazione appassionata e non logico-razionale, significa riconoscere che la «marginalità» e il «margine» - come sosteneva bell hooks (1998) - possono essere qualcosa di più di «un semplice luogo di privazione»: il margine è «un luogo di radicale possibilità», una prospettiva diversa ed eccentrica rispetto alla realtà dalla quale si può e si deve attingere per creare una società più giusta.


Bibliografia

Barnes M. (1999), Utenti, carer e cittadinanza attiva. Politiche sociali oltre il welfare state, Erickson, Trento.
Barnes M. (2012), Care in Everyday Life. An Ethic of Care in Practice, The Polity Press, University of Bristol.
Fraser N. (1989), Unruly Practices. Power, Discourses and Gender in Contemporary Social Theory, University of Minnesota Press, Minneapolis.
Fraser N. (2012), Le féminisme en mouvements. Des années 1960 à l'ère néolibérale, La Découverte, Paris 2012 (è in corso di pubblicazione la versione inglese).
Hooks B. (1998), Elogio del margine, in Ead., Elogio del margine. Razza sesso e mercato culturale, a cura di M. Nadotti, Feltrinelli, Milano.
Le Goff A. (2012), Care, Participation et délibération: Politiques du care et politique démocratique, in M. Garrau - A. Le Goff (a cura di), Politiser le care? Perspectives sociologiques et philosophiques, Le Bord de l'eau, Lormont, pp. 101-114.
Tronto J. (2006), Confini morali. Un argomento politico per l’etica della cura, Diabasis, Reggio Emilia.
Young I. (1996), Le politiche della differenza, Feltrinelli, Milano.
Young I. (2000), Inclusion and Democracy, Oxford University Press, Oxford-New York.



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