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Negoziare ed argomentare in tema d’identità e di valori

FRANCESCO VIOLA
Articolo pubblicato nella sezione La democrazia deliberativa: utopia o progetto politico?

I modi di affrontare i conflitti sono molteplici: con la violenza (mascherata o palese), con il metodo dell’autorità, con la negoziazione o il compromesso, con l’argomentazione e il discorso, con il voto. L’obiettivo può essere quello di eliminare o sconfiggere l’avversario, di accordarsi con lui, di regolamentare o governare il conflitto, di rimuoverlo, di trasformarlo in competizione (Viola 2005). Qui ci occuperemo soltanto della negoziazione e dell’argomentazione in relazione ai conflitti d’identità e di valori nell’ottica di una democrazia deliberativa, che è la forma più adatta per una società multiculturale. E in senso lato il multiculturalismo abbraccia sia il pluralismo delle culture sia il pluralismo dei valori.
Negoziare e argomentare sono attività più vicine fra loro di quanto solitamente non si pensi. Entrambe, a differenza del votare, sono forme comunicative. Entrambe mirano ad instaurare un dialogo in cui i partecipanti sono disponibili a cambiare idea o, comunque, a modificare le posizioni di partenza. La deliberazione, che è propria della democrazia, comprende in sé sia la negoziazione sia l’argomentazione (Viola 2003; Viola 2008). Nella negoziazione ogni interlocutore cerca di convincere l’altro che è nel suo stesso interesse accettare le ragioni addotte per modificare le sue pretese o richieste. Nell’argomentazione si fa ricorso a valori imparziali, o comuni, sostenuti da ragioni prevalenti che tutti dovrebbero condividere se sono desiderosi di una cooperazione sociale equa.
La natura dell’argomentazione politica è controversa. Potremmo dire, usando il lessico di Rawls, che nella negoziazione ci si appella alla razionalità pratica e nell’argomentazione alla ragionevolezza. Ma altri, come ad esempio John Finnis, sottolineano che la ragionevolezza è la forma più adeguata di ragion pratica. E tuttavia a sua volta questa ragionevolezza può essere intesa nel senso aristotelico dell’oggettivismo etico oppure nel senso più debole (e quindi più vicino alla negoziazione) del bilanciamento degli interessi e delle pretese. È ovvio che queste diverse concezioni della ragion pratica influiscono direttamente sul modo di concepire la deliberazione politica.
In ogni caso è indubitabile che nella negoziazione si assume un punto di vista interno ad una concezione della vita buona, mentre nell’argomentazione si difende un punto di vista esterno.
Dobbiamo riconoscere che di fatto la negoziazione è presente in certo qual modo nel conflitto delle identità e nel conflitto dei valori. Chi abbandona il proprio paese per prendere la via dell’emigrazione sa già che dovrà anche abbandonare alcune forme di espressione della propria identità culturale per essere accettato nel paese di arrivo. L’interesse per la sopravvivenza sembra indurre ad accettare alcuni limiti alla propria identità o a negoziare forme di convivenza con altre identità. Anche nel caso del conflitto fra valori e fra diritti il ricorso al metodo del bilanciamento e della ponderazione può risolversi in forme di compromesso ai fini della coesistenza d’istanze legittime contrastanti.
In teoria, al contrario, è opinione diffusa che la negoziazione non sia appropriata per le identità e per i valori, ma solo per gli interessi. Infatti, il conflitto degli interessi può essere risolto mediante il compromesso oppure, in non rari casi, con la prevalenza del più forte. Ma le identità e i valori in linea di principio non sono negoziabili e, pertanto, i loro conflitti richiedono procedure più complesse, non di rado non risolutive e non infallibili. Ciò significa che questi conflitti sono quelli più drammatici e laceranti. Il conflitto d’identità richiede il riconoscimento; il conflitto di valori può essere affrontato - almeno così si crede o si spera - con la discussione, il ragionamento e la ragionevolezza.
Eppure la storia passata mostra numerosi esempi in cui il metodo della negoziazione, che spesso nasconde in sé quello della forza, è stato applicato nella formazione degli Stati soprattutto in seguito a conflitti bellici, come ad esempio dopo la prima guerra mondiale con il Trattato di Versailles che diede vita a Stati multietnici (come la Jugoslavia e la Cecoslovacchia) o dopo la seconda guerra mondiale, quando la politica dei blocchi prevalse sulle esigenze delle identità etniche. In questi, e in molti altri casi, formazioni politiche sono state create o costruite a tavolino mediante trattati internazionali, che sono propri del metodo della negoziazione. Però, come sappiamo, i risultati molto spesso non sono stati buoni (la Jugoslavia s’è disintegrata e la Cecoslovacchia s’è divisa in due stati) e ciò viene visto come una conferma dell’inadeguatezza del metodo della negoziazione nella gestione delle identità culturali ed etniche. Però si può obiettare che in questi casi la negoziazione non è stata compiuta dagli stessi interessati, ma da altri per loro o a loro spese, dalle potenze vincitrici o dalle potenze coloniali. Resta tuttavia il fatto che un’identità etnica o culturale esige o richiede di essere riconosciuta nella sua integrità, non è divisibile in parti più o meno importanti.
Un altro inconveniente della negoziazione nella sua applicazione alle identità collettive risiede nel carattere consapevole e volontario della negoziazione stessa. Come si sa, le identità culturali, a differenza di quelle morali, non si formano by will, cioè non sono una costruzione consapevole e volontaria. Nessuno di noi sceglie di nascere in una determinata cultura o in una determinata etnia, così come nessuno di noi sceglie i propri genitori e la propria lingua materna. Ciò non significa che non sia necessaria un’accettazione della propria identità culturale e un atto di riconoscimento della sua rilevanza nella costituzione del proprio io e del self-respect. In questo senso le nostre identità culturali sono volute più o meno, ma ciò non significa che possiamo scegliere quelle che vogliamo. Non siamo padroni dei contenuti di queste identità, ma solo della rilevanza che esse hanno nella nostra vita e, conseguentemente, della forza di rivendicazione del loro pubblico riconoscimento.
Nella vita comune, segnata dalle relazioni fra diverse identità com’è proprio delle società multiculturali, queste indubbiamente vanno aggiustandosi fra loro e così a poco a poco si modificano più o meno nei loro contenuti valoriali fino a vere e proprie forme di meticciato culturale, a meno che non restino ghettizzate o separate l’una dall’altra come tribù vicine ma non comunicanti, come invece dovrebbe essere per una comune vita sociale. In ogni caso questo processo di aggiustamento operato dalla vita comune ha bisogno di un lungo periodo di tempo, com’è proprio delle nuove formazioni culturali, e, quindi, non è configurabile come una negoziazione o come un contratto di convivenza. La vita comune genera identità nuove che si basano su quelle del passato e le modificano in qualche parte, ma tutto ciò non è consapevole né voluto. C’è il cammino verso un accordo, che è l’obiettivo della negoziazione, ma non è compiuto mediante i metodi propri del contratto sociale.
Neppure il metodo dell’argomentazione appare adeguato a trattare i rapporti fra identità culturali differenti. Nell’argomentazione l’obiettivo è quello di arrivare a conclusioni giustificate sul piano di quella ragionevolezza che tutti dovrebbero accettare, anche se ciò va contro il loro interesse. L’argomentazione è un metodo sensibile alla verità, che nel campo pratico si presenta come legata ai valori di giustizia o di correttezza. Certamente ciò non significa che una comunità politica dovrebbe attivare al suo interno un dibattito filosofico volto a stabilire le compatibilità o le incompatibilità fra le identità culturali che la abitano prima di procedere al loro pubblico riconoscimento. E tuttavia l’argomentazione presuppone che vi siano criteri universali o comuni di giustizia alla cui stregua giudicare le pratiche e le forme di vita presenti nella vita associata, cioè che vi sia in certo qual modo una grammatica comune del bene e del giusto. Ma proprio questo è posto in discussione dal pluralismo etico e dal multiculturalismo. Sembra che il metodo dell’argomentazione sia alla radice incompatibile con il relativismo culturale che protegge la specificità delle identità collettive, perché presuppone che le culture, o parti significative di esse, possano essere sbagliate o perverse di per sé.
Alcuni ritengono che l’oggettivismo morale sia contrario al pluralismo, perché condurrebbe all’intolleranza nei confronti delle concezioni sbagliate. Ma questo non è convincente, perché affermare un valore morale non significa affatto avere per ciò stesso il diritto di imporlo agli altri. D’altronde, se pensassimo che i nostri valori morali e le nostre scelte non sono ben giustificate e sono frutto del nostro capriccio, allora non avremmo il diritto di pretendere dagli altri un pubblico riconoscimento. Nessuno può avere il dovere di soddisfare i capricci di un altro. Tutto ciò, però, vale per il pluralismo etico, ma il pluralismo culturale non può essere trattato allo stesso modo, perché le culture non si scelgono così come si fa con i valori morali e, quindi, non devono essere giustificate come si richiede per i valori morali.
Mentre è legittimo sostenere l’oggettivismo in morale, non ha senso parlare di un oggettivismo culturale. Non si può dire che esista una cultura oggettivamente più buona delle altre, così come non esiste una lingua perfetta. Le culture sono particolari forme di vita in cui si esprime la multiformità dell’essere umano e la sua capacità di relazionarsi al mondo e agli altri in molti modi. Ognuna di esse ha una sua specificità incomparabile. Certamente vi sono culture più sviluppate delle altre, vi sono grandi e piccole culture. Ma per coloro che le abitano tutte costituiscono il modo di esprimere se stessi e di dar forma alla propria identità e ai propri piani di vita. Il rispetto delle culture è fondato non già sulla loro qualità di civiltà, ma sul rispetto delle persone che trovano in esse la propria autenticità. Nessuna cultura consolidatasi nel tempo, grande o piccola che sia, è nel suo complesso disumana, anche se può contenere pratiche disumane o primitive. Nessuna cultura, per quanto poco sviluppata sia, è per definizione non intellegibile (Jullien 2010, p. 151). Ogni cultura è un’interpretazione particolare ed incompleta dei valori generali dell’umanità.
Sulla base di queste considerazioni possiamo concludere che né la negoziazione né l’argomentazione nella loro purezza sono metodi adatti al dialogo interculturale in cui matura il riconoscimento di identità collettive. Solo gettando uno sguardo su ciò che effettivamente avviene si evita il pericolo di applicare ciecamente modelli astratti. È vero, però, che aspetti della negoziazione e dell’argomentazione sono ben presenti nel dialogo interculturale, ma in modo mescolato e confuso. Non credo che si possa estrapolare un modello generale di trattamento dei rapporti fra le identità collettive, cioè un modello applicabile a tutti i casi.
Bisogna notare innanzi tutto che il particolarismo è una caratteristica essenziale di ogni cultura, anche di quelle che hanno un respiro più universale o coltivano aspirazioni di espansione. Anche parlare di «cultura occidentale» o di «cultura orientale» significa riferirsi a formazioni particolaristiche per quanto molto ampie. Le identità collettive aspirano ad un riconoscimento, ma non chiedono e non pretendono che tutti vengano a far parte della loro cultura né d’altronde lo potrebbero. Le forme culturali di vita non sono universali. Questa è la ragione per cui l’argomentazione non appare adatta a governare il rapporto fra le identità. Infatti la ragione guarda all’universale e tende a considerare anche le forme di vita particolari come modelli universali. Ma da questo punto di vista ogni cultura è difettosa.
Questo carattere particolaristico di ogni cultura conferisce alla richiesta di riconoscimento pubblico il significato non solo di un’apertura al dialogo con altre identità, ma anche dell’accettazione di un ambito più comprensivo di comunanza in cui questo dialogo avrà luogo. Quindi il problema del riconoscimento non è soltanto problema di chi riconosce, ma anche di chi lo chiede o lo pretende. La richiesta di riconoscimento è legittima solo se si è disposti al dialogo con altre identità e si è disposti al dialogo solo quando si è disposti a rimettere in discussione le proprie pratiche sociali e a modificare i propri punti di vista sul mondo. Le culture che sono chiuse al cambiamento sono culture già morte o destinate all’estinzione. In più, il riconoscimento proveniente da una comunità politica implica che il dialogo non è semplicemente fra identità differenti, ma tra l’identità che chiede riconoscimento e un assetto già consolidato di valori comuni e di pratiche di vita comune a cui si chiede di partecipare in qualche modo significativo.
Inizia così un cammino difficile, ma decisivo, di progressiva apertura verso i valori universali. Questo percorso corre sempre il rischio dello smarrimento di direzione, quando, ad esempio, un’identità culturale realmente non vuole il dialogo, ma solo di essere lasciata in pace nel suo ghetto, oppure quando la cultura che l’accoglie vuole in realtà assimilarla, fagocitandola in sé.
Il primo passo, dunque, è il passaggio verso un particolare più comprensivo. Infatti è necessario un ethos pubblico affinché le identità particolari siano riconosciute. Ad esempio, nel caso dell’immigrazione un’identità culturale non chiede soltanto il riconoscimento ad un’altra identità culturale, ma anche e soprattutto alla comunità politica in cui entra a far parte. La richiesta di riconoscimento è nella sostanza una richiesta di partecipare a pieno titolo alla vita comune, è una richiesta di comunanza. Il differente, per essere riconosciuto, deve far parte di ciò che è comune. Il riconoscimento del particolare è possibile solo sulla base di un orizzonte comune. Tuttavia una comunità politica non è certamente un orizzonte universale, ma è anch’essa una forma particolare di vita comune. L’aspirazione delle società multiculturali è proprio quella di generare una comunanza che sia comprensiva delle differenti identità che la abitano, ma non certo una forma di cosmopolitismo. Anche ognuna delle società multiculturali ha una propria fisionomia particolare che dipende dalle circostanze in cui s’è formata, cioè dalla comunità politica originaria e dal modo in cui è avvenuta l’integrazione delle nuove identità culturali.
Questo processo è ancora all’inizio in Europa (Trujillo, Viola 2007) in cui ancora non abbiamo vere e proprie società multiculturali, anche se la presenza degli immigrati è in numero rilevante (in alcuni casi supera il 10% della popolazione). Molto dipende dalle condizioni di fatto in cui si trova la comunità politica. Se questa è molto coesa e stabile, allora, se v’è un pieno riconoscimento delle nuove identità culturali, si tratterà di un riconoscimento forte e significativo, ma con il rischio dell’assimilazione. Ma, se esso manca o è difettoso, allora gli immigrati saranno esseri marginali e segnati dall’esclusione sociale. Se, invece, la comunità politica è poco compatta ed instabile, allora si sentirà ancor più minacciata dalle nuove identità culturali e religiose, il riconoscimento, quando v’è, è esso stesso debole ed incerto. Da parte loro, le identità particolari vorrebbero che la comunità politica che li accoglie fosse allo stesso tempo debole e forte: debole per quanto riguarda i valori di riferimento e forte per quanto riguarda la capacità di riconoscimento.
In ogni caso appare evidente che questo dialogo interculturale non è intrecciato tra interlocutori paritari come dovrebbe essere per ogni vero e proprio dialogo, ma che vi sono interlocutori in grado di esercitare una maggiore forza o che si trovano in posizioni più vantaggiose. Per questo l’argomentazione è necessariamente mescolata alla negoziazione e all’accordo.
A questo punto è importante notare che la ricerca di una base comune costringe non solo le identità culturali bisognose di riconoscimento, ma anche e soprattutto la comunità politica ad allargare il proprio punto di vista particolare. Questo è il secondo passo verso l’universalità dei valori in gioco. Si può dialogare solo se si riconosce che qualcosa è comune. Ma ciò che è comune fra le culture risiede in un poter essere che va sviluppato, e non in qualche condizione preliminare (Jullien 2010, p.149). L’universalità dei valori umani è la meta da raggiungere o, più esattamente, un ideale regolativo mai completamente raggiunto, e non già un presupposto di partenza.
Un esempio concreto di questa ricerca della comunanza di valori può essere indicato nella Charter of values of citizenship and integration, che è stata approvata in Italia con decreto nel 2007 ad opera del ministro dell’interno Giuliano Amato e con il contributo e il sostanziale accordo delle principali comunità di immigrati e delle comunità religiose presenti in Italia. Anche in altri paesi europei vi sono state iniziative del genere, a partire dal Contrat d’accueil francese, ma il documento italiano è più articolato e, soprattutto, è multilaterale nella sua elaborazione.
In questa Carta si affrontano direttamente questioni sensibili come quelle della mutilazione del corpo, della poligamia e dell’abbigliamento, ma anche si può notare un allargamento della visione politica e culturale italiana per quanto riguarda la portata della cittadinanza e il modo d’intendere la libertà religiosa e il ruolo pubblico delle religioni. La diversità costringe ad interrogarsi sulla propria identità e ad allargare i propri punti di vista per trovare una base di comunanza.
Di fatto questo documento giuridico ha esercitato una ben scarsa rilevanza nei rapporti con gli immigrati, che oggi in Italia sono peggiorati rispetto al passato, ma questo è un altro discorso che ha un carattere politico speriamo contingente.
Quando si chiede di far parte di una vita comune, si deve essere pronti a rimettere in discussione le proprie convinzioni identitarie e - come ben ha notato Habermas - si deve essere desiderosi di apprendere dagli altri o almeno disposti a questo. Ogni allargamento di prospettive implica una rinuncia alla propria specificità. In caso contrario, non vi sarà vero e proprio discorso pubblico, ma solo un braccio di ferro, in cui vincerà chi ha più potere d’influenza o la capacità di mobilitare una maggioranza. In una democrazia deliberativa la maggioranza non può ritenere di non aver bisogno di buone ragioni per le sue decisioni. Lo stato costituzionale democratico basato sulla deliberazione è una forma di governo sensibile alla verità. Ma non si tratta di una verità teorica o astratta, si tratta di una verità pratica e operativa, aperta all’accoglienza della diversità e alla sua integrazione nella vita comune.
Dobbiamo riconoscere che, nel suo complesso, la cultura europea, orgogliosa della sua storia, laica o religiosa che sia, ha una scarsa propensione ad accogliere il pluralismo e a tollerare le diversità. Le nuove identità che arrivano in un’Europa dei diritti rappresentano per essa non solo una «sfida cognitiva», per citare ancora Habermas, ma anche e soprattutto una sfida esistenziale. Queste culture spesso valorizzano aspetti dell’umanità che non sono considerati dall’etica dei diritti interpretata alla luce della morale dell’autonomia. Mi riferisco in particolare alle dimensioni della sofferenza, della vulnerabilità dell’essere umano e della solidarietà, su cui ha giustamente insistito Martha Nussbaum. Gabriel Marcel ha notato che la dignità umana è più evidente quando incontriamo l’essere umano nella sua nudità, l’essere umano disarmato come si presenta nel bambino, nell’anziano e nel povero. L’etica individualistica dei diritti non esaurisce per nulla il senso dell’umano ed esige di dialogare con le dimensioni dell’interdipendenza e della comunità. Si può anche affermare che la negazione dei diritti fa emergere drammaticamente una dimensione dell’umanità di carattere transculturale, quella che - secondo Hanna Arendt - accomuna tutti gli esseri umani per il fatto stesso dell’evento della nascita. Ma questa nuda umanità non esiste in nessun luogo specifico che trascenda le culture, ma esiste al loro interno. Non si tratta di un apriori trascendentale, ma della comunanza elementare nei bisogni e nelle necessità primarie degli esseri umani unita alla somiglianza nelle risposte. In questo senso si può parlare di un’universalità operativa del dialogo interculturale.
Pertanto, si deve constatare che non tutti i valori umani si possono tradurre efficacemente in diritti, se questi vengono intesi nella forma ad essi conferita dalla cultura occidentale, e che i diritti da soli non sono sufficienti a proteggere la dignità umana in tutti i suoi aspetti. Ma questo s’impara con il mutuo apprendimento e richiede molto tempo.
In conclusione, possiamo dire che le richieste di riconoscimento delle identità culturali hanno solitamente un carattere integrale, cioè mirano alla preservazione integrale delle culture. In questo senso le identità culturali non sono in linea di principio negoziabili. Ma di fatto una negoziazione non si può escludere in ragione della maggiore debolezza delle culture che chiedono riconoscimento nei confronti delle comunità politiche che le accolgono. Ma non si tratta di una negoziazione di tipo contrattualistico o esplicito, si tratta di un adattamento progressivo ai nuovi contesti vitali che avviene di fatto nel succedersi delle generazioni verso forme di meticciato culturale che a loro volta possono generare nuove identità culturali oppure produrre forme di spaesamento e di sradicamento esistenziale.
Accanto a questo processo di negoziazione implicita, anzi mescolato con esso, v’è anche il dialogo interculturale in linea di principio condotto nelle forme dell’argomentazione pratica. Essa richiede una mutua disponibilità a rimettere in discussione se stessi e a rivedere i propri parametri valoriali, richiede la ricerca di una comune umanità e di forme etiche e giuridiche adeguate di protezione. Questo processo è più consapevole del precedente, si esprime nella forma dei diritti e dei doveri e conduce ad una ridefinizione del patto sociale, ma anch’esso richiede molto tempo.
Abbiamo detto che anche la comunità politica ha un carattere particolaristico, ma non allo stesso modo delle identità culturali, perché è il risultato della comunanza tra le diversità e del dialogo interculturale. La polis greca, la civitas medioevale e la nazione moderna si sono configurate come identità orientate verso valori universali e non già come identità di tipo etnico o meramente culturale. Il dialogo interculturale non è finito con l’integrazione, ma continua all’interno della comunità politica e diventa sempre più chiaramente un dialogo sui valori fondamentali della vita buona e sulla loro interpretazione e implementazione. A poco a poco il dialogo interculturale sposta il suo focus dalle identità più direttamente ai valori. Anche se lentamente e insensibilmente si opera un mutamento significativo. Infatti, nella richiesta identitaria si rivendica un diritto per sé o per il proprio gruppo, nella lotta per un valore si difende una concezione della vita umana che tutti dovrebbero condividere, cioè un bene in sé. È facile rendersi conto che nel caso del conflitto dei valori l’argomentazione pratica è ancora più indispensabile e svolge un ruolo centrale. Ma anche i valori sono sempre appresi e praticati in contesti culturali particolari e sono suscettibili di differenti interpretazioni e applicazioni. Possiamo veramente dire che la negoziazione non debba essere assolutamente ammessa per i valori? Certamente di fatto anch’essa si verifica nei parlamenti di tutto il mondo. Si tratta di una pratica insana e deplorevole oppure di una necessità pratica imposta dal bisogno di convivenza nella società del pluralismo?


Bibliografia

Jullien F. (2010), L’universale e il comune. Il dialogo fra le culture, Laterza, Roma-Bari.
Trujillo I., Viola F. (2007) (a cura di), Identità, diritti, ragione pubblica in Europa, Il Mulino, Bologna.
Viola F. (2003), Democrazia deliberativa tra costituzionalismo e multiculturalismo, in “Ragion pratica”, n. 20, pp. 33-71.
Viola F. (2005), Conflitti d’identità e conflitti di valori, in “Ars Interpretandi”, 10, pp. 61-96.
Viola F. (2008), Democrazia deliberativa e società multiculturale, in G. Battistella (a cura di), Migrazioni. Questioni aperte, Urbaniana U. P., Città del Vaticano, pp. 219-236.



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