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Immagini della precarietà: un punto di vista di genere

ELISA GIOVANNETTI
Articolo pubblicato nella sezione Giovani e precarietà.

Per affrontare il tema della rappresentazione della precarietà da un punto di vista di genere occorre fare due precisazioni sul piano della realtà storica. La prima riguarda il lavoro femminile, che tradizionalmente è stato sempre precario, incostante e flessibile, per ragioni legate ai tempi biologici della maternità e della famiglia, ma sopratutto per la tendenza al suo sfruttamento e non riconoscimento e per la condanna della donna all’esercizio di un lavoro non qualificato. Nonostante le donne abbiano dato il loro contributo, in misura anche più significativa degli uomini, a tutti i processi di industrializzazione e crescita economica di questo paese, non ne hanno avuto in cambio che scarse testimonianze sul piano della rappresentazione (Ropa - Venturoli 2010).
La seconda riguarda invece le caratteristiche dell’origine della precarietà in Italia: è stata la generazione dei nati tra la fine degli anni sessanta e l’inizio degli anni ottanta a incrociare l’esplosione del fenomeno dei contratti atipici, ma il dato statistico, che emerge dalle analisi storiche che sono state fatte di questo fenomeno, è che il precariato ha coinvolto da subito e in misura maggiore la popolazione femminile (Altieri-Dota-Ferrucci 2008). Le giovani donne qualificate si erano identificate con il modello maschile del lavoro come esperienza esistenziale totalizzante, decise a rimandare a un’età diversa i progetti della famiglia e dei figli, pronte a un passaggio temporaneo nella precarietà. Avevano creduto di essersi lasciate alle spalle le battaglie politiche e sindacali degli anni Settanta del Novecento, ma soprattutto i temi della rivoluzione femminista e della discussione pubblica sulla parità di genere e l’uguaglianza di opportunità nel lavoro. Nella difficile mediazione tra il mondo del lavoro, ancora fortemente connotato da una visione maschilista e discriminatoria, e la condizione della precarietà contrattuale, una generazione di donne è stata sostanzialmente esclusa. Questa generazione, giustamente incapace di identificarsi nei vecchi modelli dei ruoli femminili, e senza prospettive di stabilità concrete, è stata costretta a dover rimandare e in molti casi a rinunciare alla scelta della maternità, dimostrando il fallimento dell’idea di flessibilità come paradigma del lavoro nella contemporaneità.
Il processo di rappresentazione e autorappresentazione del mondo del lavoro e di se stesse della generazione di donne che si è scontrato così drammaticamente con la realtà del precariato ha delle ascendenze e una tradizione nei modelli della rappresentazione del lavoro femminile, che si sono costituiti a partire dal secondo dopoguerra, scanditi da due temi fondamentali. Da un lato il tema della fatica per la sopravvivenza e della dimensione accessoria e residuale del lavoro femminile rispetto a quello maschile. Dall’altro il tema della rappresentazione dell’impiego salariato femminile come diritto e come opportunità per l’acquisizione di una consapevolezza politica di donna e lavoratrice. I linguaggi e i generi documentali più interessanti di questi modelli di rappresentazione sono stati, in particolare, il reportage televisivo e il documentario cinematografico.
La televisione degli anni Cinquanta, adeguata allo stile giornalistico della narrazione, si presentava come portatrice di un punto di vista nelle intenzioni obiettivo, a volte empatico, ma spesso ideologicamente paternalista. Attraverso l’indagine e la documentazione della realtà faceva emergere solo vagamente sullo sfondo il dibattito pubblico sul lavoro e sul ruolo della donna nella società. Negli anni Sessanta e Settanta il linguaggio documentaristico e cinematografico offriva invece un punto di vista politico dichiarato, e la consapevolezza di stare operando sul piano della rappresentazione.
Nel 1958 Giovanni Salvi e Ugo Zatterin realizzarono per la Rai l’inchiesta La donna che lavora (su segnalazione e con il contributo fondamentale, e mai riconosciuto, di una donna, Flora Favilla), indagando il fenomeno del lavoro femminile fuori e dentro casa, che era stato al centro di un processo costante di crescita, senza soluzioni di continuità, dagli anni della guerra e del dopoguerra.
Il programma era stato definito dai vertici dell’azienda «eversivo», «da non mandare in onda». Si trattava di un reportage in otto puntate settimanali trasmesse a partire dal 25 marzo, in cui erano state visitate 31 località, da Cevo in Val Camonica a Gallipoli in Puglia, e intervistate decine di donne, seguendo lo stile dell’inchiesta giornalistica dal vivo e senza l’uso di repertori. Gli autori non si mostravano e intervistavano le donne al lavoro nei diversi settori dell’industria, dell’artigianato, dell’agricoltura, nel lavoro di cura fuori e dentro casa, facendo domande attraverso una voce off. Era uno stile accondiscendente, protettivo, intrinsecamente autoritario, in un certo senso tipico del linguaggio giornalistico televisivo di quegli anni. Una testimonianza emblematica del contesto sociale in cui venne accolto questo straordinario lavoro di raccolta documentale è l’interpretazione ironica che ne diedero attraverso una celebre scenetta Raimondo Vianello e Ugo Tognazzi nel varietà Un, due e tre. Nello sketch Vianello è vestito e si atteggia come Silvana Mangano nel film Riso amaro. Ugo Tognazzi lo intervista: «Scusi, signorina, ma lei che mestiere fa?». Risponde Raimondo: «Io faccio la mondina». Riprende Tognazzi: «Ho capito: allora lei lavora tutta la settimina...» (Grasso 2004).
Salvi e Zatterin tentarono una fotografia oggettiva della condizione della donna che lavorava in Italia alla fine degli anni Cinquanta. Il risultato fu, di certo non intenzionalmente, scabroso; diedero conto della condizione del doppio lavoro femminile dentro e fuori casa, della realtà di subalternità, della endemica mancanza di qualifica professionale, delle differenze salariali, ma sopratutto della condizione intrinseca di precarietà del lavoro femminile. Il programma riuscì a superare gli ostacoli della censura e ad averla vinta: racconta Salvi che però per questo dovette intervenire il ministro del lavoro Benigno Zaccagnini a sbloccare il veto.
Tina Anselmi, commentando il lavoro di Zatterin e Salvi, scrisse più tardi: «L’unico elemento di speranza che emerge dai filmati de La donna che lavora è la possibilità di emancipazione delle nuove generazioni. Le ex mondine o le operaie di un tempo hanno tutte voluto che i loro figli studiassero, per non fare la stessa vita grama» (Costantini 1993). Questo commento non è casuale se si pensa che proprio nel 1993, 35 anni dopo, Tina Anselmi fu tra le promotrici di un nuovo progetto televisivo sul lavoro della donna, in dialogo e a confronto con il primo. La donna che lavora: 1958-1993 era a cura di Raffaella Spaccarelli e condotto appunto da Tina Anselmi, all’epoca Presidente della commissione nazionale di parità e pari opportunità tra uomo e donna. Le stesse mondine, le filandaie, le coltivatrici dirette, le mezzadre, le operaie di allora raccontavano dopo 35 anni la loro storia e la storia dei loro figli ormai cresciuti, a testimoniare una profonda distanza dal quel 1958, motivata da un lungo percorso politico di lotte che nel 1993 sembrava felicemente concluso.
Nel 1965 il PCI commissionò alla giovane fotografa e documentarista Cecilia Mangini un documentario sulla condizione della donna nel lavoro, dal titolo emblematico Essere donne. Cecilia Mangini, in un’intervista, ricostruisce così la gestazione del film: «Se negli anni Sessanta avevo un sogno era quello di entrare nelle fabbriche». Il documentario doveva integrare, insieme ad altri filmati, la campagna elettorale del partito. La Mangini ha piena libertà creativa, le riprese durano dieci giorni, divisi tra le fabbriche di Milano, «dove le commissioni interne mi misero a disposizione tutto quello che potevano», e la Puglia. Continua Mangini: «Come sono entrata nelle fabbriche? In un modo incredibile: sono arrivata e ho detto: “Siamo la Rai”, così, senza un foglio scritto, senza un timbro. Ma è stata una parola magica, perché le fabbriche in realtà si aspettavano che la Rai, la tv di stato, raccontasse agli italiani i luoghi dove si stava avverando il miracolo economico» (Orecchio-Ruggiero 2007: Essere donne oggi). Il film fu presentato al festival internazionale del documentario di Lipsia, dove ottenne il premio speciale da una giuria composta da alcuni tra i documentaristi più importanti dell’epoca: Ivens, Grierson e Rotha. In Italia, per evidenti ragioni politiche, gli fu negato il visto di qualità: non una vera e propria censura, ma una bocciatura, sostanzialmente per evitare che il film circolasse facendo scoppiare troppe polemiche. La Mangini si occupò della rappresentazione di uno spaccato della condizione della donna attraverso il tema del lavoro, entrando in fabbrica, mostrando le lavoratrici a domicilio, le braccianti, le casalinghe. Si distaccò dall’idea per cui il lavoro femminile fosse in una relazione di sussidiarietà rispetto a quello maschile, indagando e rappresentando una nuova identità femminile basata sull’esperienza del lavoro, e affermando la necessità del lavoro come riconoscimento dei diritti sociali della donna. E in questo modo consegnò un’immagine di donna consapevole, battagliera e protagonista che «sa che la sua liberazione non può attenderla se non da se stessa, in una società nuova dove il libero sviluppo di ciascuno sia condizione per il libero sviluppo di tutti» (Chilanti-Mangini 1965).
Non è un caso che proprio sul piano della rappresentazione del lavoro operaio si sia assistito negli ultimi anni a un tentativo di ricomposizione della rappresentazione del lavoro in termini di precarietà e genere; in particolare attraverso il linguaggio documentaristico, come, ad esempio per il breve documentario Licenziata! di Lisa Tormena e Matteo Lolletti del 2011, sulla vertenza delle operaie dell’Omsa, o di A casa non si torna del 2012 di Lara Rongoni e Giangiacomo De Stefano, sulle donne che svolgono lavori maschili.
La rappresentazione della precarietà oggi è d’altro canto affidata in parte al cinema e alla cronaca giornalistica e televisiva, quest’ultima poco incline ad uscire dagli schemi delle manifestazioni di piazza e dagli striscioni, e in difficoltà a offrire qualsiasi altro spazio di rappresentazione se non nella cronaca populista dei «singoli drammatici casi». Il cinema invece, cui appartiene un linguaggio più consono alla costruzione di una narrazione simbolica, ha indagato quasi da subito la precarietà, prima utilizzandola come categoria per analizzare e descrivere la generazione dei nati negli anni Settanta, in cui il segno della precarietà viene proposto come una scelta piuttosto che una condizione sociale; poi, con più difficoltà e in un processo assolutamente ancora non concluso, indagandola in forma propria, come nel caso di buona parte della filmografia di Paolo Virzì. L’autore, partendo da Ovosodo (1997) e passando per My name is Tanino (2002), ha concluso una sorta di trilogia con Tutta la vita davanti (2008), attualmente l’unico film di fiction riconosciuto sul tema della precarietà, in cui, non a caso, la protagonista è donna.
Il cinema italiano sulla precarietà stenta comunque in genere a cogliere la dimensione collettiva e politica del fenomeno, tratteggiando un contesto sociale vago, quasi surreale, in cui nessun dibattito politico viene introdotto e la critica sociale risulta sostanzialmente insoddisfacente; esso fatica, inoltre, a dare una prospettiva di genere al tema, non riuscendo a fare emergere gli aspetti sostanziali della differenza tra uomini e donne precarie, legati alla maternità e al lavoro di cura.
La mancanza di una rappresentazione convincente della condizione della precarietà da offrire al dibattito pubblico si può leggere come mancata assunzione di responsabilità da parte delle generazioni coinvolte e mancata costruzione di un’autorappresentazione consapevole e coerente. Se le donne di Zatterin e in parte della Mangini offrivano le proprie biografie per un’interpretazione e per una lettura storica di cui non erano responsabili, essendone in parte soggetti passivi, le donne di questa generazione non possono esimersi dall’essere protagoniste, offrire per prime una rappresentazione della propria condizione sociale, e attraverso il suo riconoscimento e la sua definizione, assumere anche una prospettiva storica di breve termine, esprimendosi in termini costruttivi e progettuali sul tema del lavoro e del futuro di questa nazione. Appare chiaro infine che ciò può essere fatto, pur nelle profonde differenze tra donne e tra uomini e nella diversità sul piano delle conseguenze esistenziale della precarietà che ci sono, solo assumendo una prospettiva generazionale e di profonda solidarietà tra generi.

Ma davvero agli uomini interessa qualcos’altro che vivere? Tonino e Graziella si sposano. Del loro amore essi sanno soltanto che è amore. [...] Dei loro futuri figli sanno soltanto che saranno figli. È soprattutto quando è lieta e innocente che la vita non ha pietà.
Due ragazzi italiani si sposano. E in questo loro giorno tutto il male e tutto il bene precedenti ad essi sembrano annullarsi, come il ricordo della tempesta nella pace.
Ogni diritto è crudele, ed essi, esercitando il proprio diritto ad essere ciò che furono i loro padri e le loro madri, non fanno altro che confermare, cari come sono alla vita, la lietezza e l’innocenza della vita.
Così la conoscenza del male e del bene - la storia, che non è né lieta né innocente - si trova sempre di fronte a questa spietata smemoratezza di chi vive, alla sua sovrana umiltà.
Tonino e Graziella si sposano: e chi sa, tace, di fronte alla loro grazia che non vuole sapere.
E invece il silenzio è colpevole: e l’augurio a Tonino e a Graziella sia: «Al vostro amore si aggiunga la coscienza del vostro amore» (Pasolini 1963-64).


Bibliografia

Altieri G. - Dota F. - Ferrucci G. (2008), Donne e lavoro atipico: un incontro molto contraddittorio, Terzo rapporto permanente sul lavoro atipico in Italia, Ires, 2008.
Betti E., Donne e precarietà del lavoro in Italia: alcune serie di dati significativi, in I. Masulli, Precarietà del lavoro e società precaria nell’Europa contemporanea, Carocci, Roma 2004.
Chilanti F.- Mangini C. (1965), Essere donne, Italia 1965, 28’, b/n e colore.
Costantini E. (1993), Lavoratrici, scomodo reportage, in “Corriere della sera”, 24 giugno 1993.
Grasso A. (2004), Storia della televisione italiana, Garzanti, Milano 2004.
Orecchio D. - Ruggiero C. (2007), (a cura di), Essere Donne. Gli anni sessanta delle lavoratrici italiane, Edit. coop., Roma 2007, riedizione di Chilanti-Mangini 1965 come allegato a “Rassegna sindacale”, n.7/2007. Contiene un’intervista all’autrice, Essere donne oggi, sempre a cura di D. Orecchio e C. Ruggiero.
Pasolini P. P. (1963-64), Comizi d’amore, Italia 1963-64, 92’, b/n.
Ropa R. - Venturoli C. (2010), (a cura di), Donne e lavoro: un’identità difficile. Lavoratrici in Emilia-Romagna (1860-1960), Editrice Compositori, Bologna 2010.



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