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Il teatro e l'impegno

LAURA FATINI
Articolo pubblicato nella sezione Il teatro, l’impegno e la memoria: esperienze europee.
Ad Alpo

«Un saggio orientale chiedeva sempre, nelle sue preghiere, che la divinità volesse risparmiargli di vivere un’epoca interessante.
Poiché noi non siamo saggi, la divinità non ci ha risparmiato e viviamo un’epoca interessante che non ammette in ogni caso che ci si possa disinteressare di essa. Gli scrittori di oggi lo sanno. Se parlano, eccoli criticati ed attaccati. Se, divenuti modesti, tacciono, non si parlerà più che del loro silenzio, per rimproverarglielo clamorosamente.
In mezzo a questo baccano lo scrittore non può sperare più di tenersi in disparte per seguire le riflessioni e le immagini che gli sono care. Fino ad oggi, bene o male, l’astensione è stata sempre possibile nella storia: chi non approvava poteva spesso tacere o parlare d’altro.
Oggi tutto è cambiato, lo stesso silenzio assume un significato indubbio.
Dal momento in cui la stessa astensione è considerata una scelta, punita o lodata come tale, l’artista, lo voglia o no, è “imbarcato” e dico “imbarcato” perché mi sembra più giusto che “impegnato”. Poiché non si tratta per l’artista di un impegno volontario ma piuttosto di un servizio militare obbligatorio. Ogni artista oggi è imbarcato nella galera del suo tempo e deve rassegnarvisi, anche se ritiene che la galera ha sentore equivoco, che i capiciurma sono veramente troppi e che, per giunta, la rotta non è quella buona. Siamo in alto mare. L’artista, come gli altri, deve remare a sua volta, senza morire, se è possibile, cioè continuando a vivere e a creare».

(Camus 1957, p. 923)




Basterebbero queste poche righe per spiegare quello che secondo me è il ruolo dell’artista, e quindi del drammaturgo, del regista, dell’uomo di teatro rispetto al suo tempo. Ma per non lasciare queste parole nella pura astrazione letteraria alla quale vengono confinate, se lette solo con gli occhi, e non dette ad alta voce, come avviene appunto sul palcoscenico, o avvenne durante la conferenza in cui vennero pronunciate, vorrei renderle vive con un esempio pratico, a me molto caro.
Il primo modello di teatro calato nella contemporaneità, e nella società che lo circonda, l’ho incontrato non lontano dal posto dove vivo io, in un paesino della Val d’Orcia, chiamato Monticchiello, un posto speciale, dove tutto il paese ogni estate va in scena, dal 1967.
Questo di per sé non è affatto speciale, in molti paesi italiani ci sono longeve compagnie amatoriali di livello, in cui recitano attori che non hanno niente da invidiare ai professionisti; la particolarità di Monticchiello è però in quello che viene messo in scena, cioè la propria storia, la propria vita, le riflessioni su cosa accade e accadrà, in quello che è stato definito da Giorgio Strehler un autodramma: «una forma particolare di dinamica scenica: un modo di vedere il teatro nell’incontro tra storia del passato - del proprio passato- e storia di oggi. E sarà perfettamente chiaro […] che in uno studio della propria storia c’è la coscienza di un quadro più vasto della storia, dove si giustificano episodi ed esperienze peculiari» (Guidotti 1974, p.18).
A livello pratico, l’autodramma è nato dal confronto del gruppo degli attori, gli abitanti del borgo, con un provocatore, non un semplice scrittore di testi teatrali, o una figura che raccolga le storie, o le memorie, ma un operatore culturale che si pone come voce interrogante: in risposta a tale figura, l’intero paese si riunisce, durante l’inverno, per discutere il testo da mettere in scena, le tematiche, i personaggi, cosa dire, insomma.
Da questo confronto, talvolta anche molto acceso, poiché i temi trattati sono sempre molto vicini alla quotidianità, e per questo problematici, nasce dapprima un canovaccio, e poi un testo vero e proprio, che viene recitato per circa un mese, durante l'estate, nella piazza del borgo.
Nasce così, nel 1969, il Teatro Povero di Monticchiello, un palco privilegiato dal quale parlare a migliaia di spettatori di ciò che accade in Italia e nel mondo, partendo da fatti quotidiani di un piccolo paese di neanche 300 persone, e da specifici eventi storici che ne hanno segnato la memoria; infatti, da più di quarant’anni i testi messi in scena ruotano intorno a un episodio drammatico della resistenza partigiana, quando i monticchiellesi furono messi al muro, e fatti rimanere per alcune ore sospesi in attesa dell’esecuzione (che per fortuna non avvenne).
Questa è appunto la tematica del primo spettacolo definito autodramma, “Quel 6 aprile del '44”, ma questo evento viene riproposto più volte nei testi successivi, quasi a significare un punto di partenza imprescindibile, da rivivere, ridiscutere e contestualizzare.
Si parte quindi dalla memoria di ciò che avvenne, per arrivare poi a parlare della contingenza, della crisi economica e morale, dell'incertezza del futuro, dei problemi lavorativi delle nuove generazioni, del rapporto dell'uomo con l'ambiente...
La ritualità del Teatro Povero è rimasta inalterata in tutti questi anni, anche se sono cambiati i modelli narrativi e le modalità della messa in scena, e anche il gruppo degli attori che si autonarrano è nel tempo cambiato, sebbene alcuni vadano ancora in scena, e siano ormai riconoscibili come gli “attori di Monticchiello”; il problema del rinnovamento della Compagnia, e dell’opportunità della fine di questa esperienza si è posto molte volte, negli ultimi anni, e persino di questo se n’è fatto spettacolo, trovando nel mezzo teatrale la cura ai suoi stessi mali, primo fra tutti la ripetitività.
A Monticchiello la memoria storica è veramente linfa vitale per tutto ciò che viene detto di nuovo, è prospettiva imprescindibile per guardare alla contemporaneità; negli anni è stata anche fardello scomodo e pesante, ma comunque presente e, a suo modo, interrogatrice implacabile dello svolgersi quotidiano della realtà.
Il caso di Monticchiello, il fare teatro che nasce da un’esigenza reale di comunicazione e di confronto, rappresenta bene secondo me quest’essere imbarcati nella galera del proprio tempo di cui parla Camus, cogliendo perfettamente la sensazione di spaesamento che prende ogni volta che si lascia la terra ferma per navigare verso un orizzonte non ancora rivelato.
È proprio questa sensazione di incertezza verso il futuro che ci richiama alla memoria, all'impegno e alla responsabilità, dandoci la chiave di interpretazione di ciò che ci circonda e che ci aspetta: il passato diventa vitale quando viene continuamente interrogato e posto a confronto con ciò che ne è nato, con le conseguenze storiche, sociali ed economiche che ne sono derivate.
Non è un caso se sempre più spesso per interpretare quello che sta accadendo oggi nel mondo si fa riferimento alla crisi del ’29, e si cerchino con essa similitudini, e differenze: non è un semplice esercizio di confronto, ma un modo per capire quale sia la direzione da prendere.
In questo contesto, il ruolo del drammaturgo, di chi può parlare attraverso la propria arte ad un pubblico, e da un palcoscenico esprimere le proprie idee, diventa cruciale: si ha infatti la possibilità di condividere con chi ti ascolta parole ed immagini, ed attraverso queste sviluppare concetti, richiamare ricordi, proporre vie di fuga, possibili strade alternative, e forse anche soluzioni.
Il mezzo teatrale è molto potente, perché il pubblico al quale si rivolge è già disposto ad abbandonare il ritmo quotidiano per dedicare del tempo alla visione di uno spettacolo: bisogna partire prima, comprare un biglietto, attendere l’aprirsi del sipario…
Il pubblico è quindi già sbilanciato verso il palcoscenico: un libro puoi aprirlo quando e dove vuoi, uno spettacolo devi andare a vederlo.
È un rito collettivo, induce al confronto, alla circolazione delle idee, delle proposte e, a differenza di un film proiettato in un cinema, la presenza dal vivo degli attori porta naturalmente alla partecipazione emotiva, all’identificazione, all’interrogazione (perché questo personaggio sta dicendo questo? Potrebbe decidere di dire o fare altrimenti!).
Questa opportunità di parlare, e di essere ascoltati, raggiunge la sua forza più grande quando la voce che prende vita viene dal passato, anche recente, e interroga direttamente il nostro presente: la memoria veste i costumi di un personaggio, e si mostra agli occhi di tutti, rivelandosi immediatamente reale, diventando così strumento prezioso per l’analisi del proprio tempo, togliendosi di dosso la polvere degli anni trascorsi.
La parola detta, non scritta, è l’essenza del teatro: è quindi naturale che il tempo faccia parte del lavoro del drammaturgo, il tempo storico, il tempo sociale, il tempo passato e il tempo presente, il tutto racchiuso dal tempo di una messa in scena e dallo spazio di un palcoscenico.


Bibliografia

- Camus A. (1957), Discorsi di Svezia - L’artista e il suo tempo (conferenza del 14 Dicembre 1957), in Opere, Bompiani, Milano 1961.
- Guidotti M. (1974), Il teatro povero di Monticchiello, Images 70 Editrice, Padova.


Webgrafia

www.teatropovero.it



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