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Green economy: tattica o strategia?

Sergio Salsedo

Premessa: verde speranza?

 

Green economy, economia verde, Ecological economics… addirittura Green New Deal: chi frequenta i mondi, virtuali e fisici, vicini all'ambientalismo e più in generale all'area progressista non può fare a meno di imbattersi quotidianamente e spesso più volte al giorno in citazioni e dissertazioni sul tema. Una ricerca per Green economy ristretta ai soli siti "italiani" rintraccia in Internet oltre 160.000 citazioni.

L'inflazione di interventi e discussioni in proposito è senza dubbio ben motivata. La contemporaneità tra la peggiore crisi economica della storia moderna e l'esplodere dell'emergenza climatica chiaramente giustifica da sola l'enfasi data a quella che appare come la soluzione in un colpo solo di due problemi: uscire dalla recessione, e affrontare alla radice le cause del riscaldamento globale dovuto ai combustibili fossili.

La prospettiva di disporre di una tale "bacchetta magica" è talmente suggestiva da lasciare poco spazio ad approfondimenti su due aspetti, uno operativo e l'altro concettuale, che appaiono invece cruciali per meglio comprendere la portata e i limiti delle soluzioni offerte dalla Green economy:


Con questo contributo si intende proporre alcune riflessioni a riguardo.

 

 

1. Green e politica

 

È inutile negare che dietro all'attenzione che i media e soprattutto gli addetti ai lavori dedicano all'economia verde ci sono anche considerazioni di opportunità politica ed elettorale. Mentre su altri temi la sinistra fatica ad esprimere proposte forti e caratterizzanti, capaci di contrastare i messaggi semplici e talvolta demagogici della destra, questa è un'area in cui neanche le straordinarie capacità mediatiche delle forze di governo riescono a nascondere la povertà di idee e di progetti che caratterizza quel campo per quanto riguarda sia la difesa dell'ambiente e del patrimonio naturale, che le strategie per affrontare la gravità e la novità di questa crisi economica.

Infatti, mentre in tutto il mondo governi di sinistra e di destra (a partire ovviamente da Obama negli Stati Uniti, passando per il nuovo governo giapponese, ma includendo anche esecutivi di ben altra estrazione come quelli tedesco e cinese) si sono affrettati ad adattare le loro politiche economiche e di stimolo in modo da coniugare necessità economiche ed ambientali[1], il governo italiano resta testardamente ancorato a vecchi schemi che puntano su risposte tradizionali per "uscire dalla crisi": la ripresa dei consumi anche mediante incentivi a industrie "insostenibili" per definizione come quella automobilistica, il rilancio della speculazione edilizia quale eterno volano della nostra economia. In linea con una generale strategia di "sopravvivenza alla crisi", in attesa che la congiuntura internazionale torni al "business as usual".

È quindi comprensibile l'interesse della sinistra, che vede nella Green economy anche un'opportunità di differenziarsi rispetto agli avversari – tradizionalmente insensibili alle questioni ambientali – con proposte chiare, coerenti e coraggiose che possono avere un grande ritorno di consensi, soprattutto in quei settori dell'elettorato che finora non hanno trovato interlocutori politici credibili su questi temi e si sono rifugiati nel voto di protesta o nell'astensione.

Il grande traffico di informazioni sull'argomento comporta però inevitabilmente rischi di confusione, ambiguità, e una sensazione di "chiacchiericcio propagandistico" che può portare ad una rapida disillusione.

Per capire come si possa parlare di economia verde, intendendo tutt'altro è istruttivo rileggere cosa scriveva l'anno scorso il Presidente del Consiglio nell'introduzione ad un libro sull'argomento[2]:



«La green economy è senza dubbio la nuova frontiera della crescita economica del XXI secolo. Si apre, dunque, una fase in cui la conservazione delle bellezze del nostro pianeta e il pieno rispetto dell'ambiente non saranno un freno allo sviluppo della società umana. Nella nuova epoca della green economy, infatti, la tutela degli ecosistemi avverrà lungo un cammino lastricato di realismo e concretezza».



Green economy quindi come viatico per uno sviluppo (ovviamente inteso come crescita quantitativa) senza fine. E che anzi permetta di giustificare con una patente ambientalista la politica del fare senza troppi vincoli:



«Si tratta di una nuova impostazione che sarà possibile grazie alle tecnologie a disposizione e a un approccio più pragmatico. D'altro canto, il fondamentalismo ambientalista ha fallito: non ha dato risultati concreti e in Italia ha condotto alla mancata realizzazione di infrastrutture fondamentali, a cominciare dalle centrali nucleari e dai termovalorizzatori.

La stagione del dogmatismo verde ha danneggiato la società senza preservare l'ambiente. Sul tema, il nostro governo userà tutti gli strumenti per favorire lo sviluppo della green economy evitando qualunque pericolosa distorsione ideologica. Posso dunque garantire che, così com'è avvenuto nel G8 a L'Aquila, l'Italia saprà essere in prima fila anche nelle politiche internazionali per l'ecologia e contro i cambiamenti climatici. E questo avverrà senza che le future decisioni ci danneggino».



Questo approccio quindi si guarda bene dal mettere in discussione l'equivalenza sviluppo = crescita e assegna alla Green economy esclusivamente il ruolo di volano per rimettere in moto la macchina economica, sostituendo o affiancando a produzioni tradizionali in crisi, nuove attività classificabili come ecologiche, in modo da tener stabile o meglio ancora aumentare il tradizionale e unico indicatore del benessere economico nazionale: la crescita del Prodotto interno lordo.

Peraltro, questa impostazione – che dovrebbe condurre ad un rilancio della produzione – malauguratamente non è associata ad azioni conseguenti e coerenti e quindi rischia di non condurre neanche ai risultati macroeconomici che si propone. Infatti come su molti altri temi, la destra italiana enuncia principi ed obiettivi che poi contraddice con scelte operative di segno completamente opposto.

E così questo governo si è opposto in ambito comunitario ai provvedimenti 20/20/20 per difendere, insieme ad alcuni paesi dell'est, l'industria pesante e meno sostenibile. Ha cercato di annullare i benefici fiscali per gli investimenti eco. E invece di puntare su energie rinnovabili, come fanno Germania, Spagna e Danimarca, preferisce aumentare la dipendenza dal gas russo e libico, e acquistare dalla Francia centrali nucleari rischiose e costose che potranno essere attive tra non meno di 15-20 anni – incurante di ogni considerazione sulla loro economicità e sulla sicurezza dell'esercizio e delle fasi di dismissione.

Sul fronte opposto, l'interesse della sinistra per la Green economy è sicuramente genuino e si innesta su una tradizione di attenzione all'ambiente che, sia pure con incertezze e contraddizioni, ha portato a risultati apprezzabili nelle esperienze di governo nazionale e soprattutto locali[3]. Però anche nel campo progressista esiste un margine di ambiguità su quali attività ed iniziative rientrino legittimamente nel campo dell'economia verde, e soprattutto su quale sia la funzione che si attribuisce a questo fenomeno: strumento "tattico" per superare la crisi o primo tassello per un completo ripensamento del nostro modello di sviluppo?

 

 

2. Green perché rinnovabile

 

Qualche riflessione sui criteri per la classificazione delle attività economiche che vengono prospettate come eco-compatibili appare importante come strumento per evitare le insidie di un eccessivo e indiscriminato entusiasmo.

Indubbiamente è verde un business che sia incentrato su prodotti o servizi intrinsecamente sostenibili, la cui realizzazione richiede esclusivamente risorse rinnovabili. In questa categoria si possono classificare senz'altro esempi come la generazione di energia da fonti rinnovabili, la produzione di imballaggi riutilizzabili o rigenerabili, il turismo a basso impatto in strutture ricettive combinate ad aziende agricole.

Attività di questo tipo appaiono teoricamente replicabili a piacere senza arrecare danni all'ambiente e senza porre questioni di sostenibilità, a meno di ipotizzare il raggiungimento di un livello tale di produzione da incontrare i limiti della capacità rigenerativa di una risorsa rinnovabile utilizzata (acqua, biomassa…), o della disponibilità di un elemento accessorio alla produzione non considerato in prima approssimazione (per esempio l'utilizzo di suolo per la installazione di pannelli fotovoltaici).

Cautela, relativamente a questa categoria di imprese, è comunque necessaria nella valutazione della sostenibilità dell'intera catena del valore coinvolta. Produzioni che ad una prima analisi possono apparire ambientalmente convenienti possono implicare effetti secondari disastrosi.

Un esempio clamoroso è l'utilizzo di olio di palma per la produzione di biodiesel, inizialmente accolto con entusiasmo come fonte di energia rinnovabile caratterizzata da un bilancio del ciclo CO2 favorevole e al tempo stesso capace di consentire sviluppo economico in zone del sud-est asiatico fino ad allora arretrate.

La successiva impennata della produzione (con punte del 400% in 10 anni in alcuni paesi) ha rapidamente mostrato la sostanziale insostenibilità dello sfruttamento di questa risorsa, a seguito del sistematico disboscamento di foresta tropicale praticato per ricavare nuove aree coltivabili, la drastica distruzione di biodiversità che ne consegue e, secondo le ultime valutazioni, persino un bilancio di CO2 sfavorevole a causa del rilascio di quella precedentemente intrappolata nel sottosuolo dei terreni disboscati[4].

 

 

3. Green perché "a basso impatto"

 

Una seconda categoria più ampia e sfumata è quella in cui la caratteristica green del prodotto o servizio consiste in un minore impatto ambientale rispetto a prodotti già esistenti. In questo caso si ragiona "per sottrazione", permettendo di definire (spesso a fini di promozione commerciale) come "eco" ad esempio un'automobile con motore a combustione interna, perché consuma significativamente meno carburante delle concorrenti, oppure un tipo di batteria perché ha un ridotto tenore di sostanze pericolose per l'ambiente.

Poiché lo sviluppo di nuovi prodotti o la modifica di quelli esistenti per ridurne l'impronta ecologica, richiede spesso una rivisitazione dei processi aziendali e delle tecniche produttive, questa classe di attività ha un forte potenziale di traino rispetto ad attività correlate che costituiscono in un certo senso l'indotto della Green economy e sono fortemente connesse ad innovazione e ricerca: ottimizzazione e rinnovo delle tecnologie di processo utilizzate, riuso o riciclo di materiali, risparmio e recupero energetico, persino adozione di sistemi software che supportino la minimizzazione dell'impatto ambientale sin dalla fase di design.  

Dal punto di vista marketing l'introduzione di prodotti "green" è un formidabile mezzo per rivitalizzare un mercato maturo o addirittura in declino. La spinta a rimpiazzare il proprio frigorifero con uno di classe A è un potente fattore di stimolo ai consumi; in modo analogo a come il desiderio di sostituire il proprio cellulare, sia pure perfettamente funzionante, con uno di ultima generazione, garantisce da anni la vitalità del settore della telefonia nonostante tassi di penetrazione già prossimi al 100%.

È quindi chiaro che attività di questo tipo hanno sicuramente un effetto benefico sull'impronta ecologica del sistema economico di un paese e al tempo stesso possono dare realmente  impulso all'economia nazionale: l'incentivazione delle imprese "verdi" è quindi davvero uno strumento tattico utile per affrontare le emergenze ambientali più urgenti – a partire dalla lotta ai cambiamenti climatici – e insieme facilitare l'uscita dalla crisi.

 

 

4. Oltre la Green economy?

 

Si deve però riflettere sui limiti che i meccanismi appena descritti hanno in una prospettiva di più lungo termine.

Come discusso, infatti, i benefici ambientali ottenuti con l'economia verde rientrano in gran parte in una logica di "riduzione del danno". Si producono beni nuovi o migliorati, in modo da utilizzare minori quantità di materie prime e di energia e con maggiore attenzione agli impatti sull'ecosistema dell'intero ciclo di vita dei prodotti. Ma fintanto che l'obiettivo dal punto di vista economico resta quello di aumentare indefinitamente la quantità dei manufatti e il loro valore aggiunto, questo approccio può solo spostare in avanti il limite temporale al quale l'intero sistema risulterà comunque insostenibile.

L'impegno per l'affermazione di una Green economy non deve perciò mettere in secondo piano il necessario ripensamento, avviato con difficoltà da qualche anno, del modello di sviluppo attuale basato su un continuo incremento dei consumi intrecciato ad una crescita demografica senza confini.

I limiti del modello corrente sono insiti in un paradigma che considera il sistema economico come isolato ed indipendente da quello biofisico, in cui esso in realtà è immerso. I vincoli derivanti dalla disponibilità limitata delle risorse della biosfera vengono semplicemente ignorati, conducendo alla ricerca di un "equilibrio" esclusivamente economico che implica una crescita senza fine della produzione e dei consumi, supportata dall'aumento della popolazione e della produttività.

Da alcuni anni è emersa finalmente la consapevolezza che ai due parametri classici dell'economia – lavoro e capitale prodotto dall'uomo – va aggiunto il terzo parametro "capitale naturale"; e questo, in un pianeta finito, è inevitabilmente limitato[5].

Ne consegue che la ricerca di un equilibrio non può più contemplare una espansione continua in un ambiente considerato illimitato: «oggi stiamo vivendo la transizione da un'economia da mondo vuoto [N.d.A. in cui il fattore limitante è la capacità produttiva del lavoro umano] ad un'economia da mondo pieno [N.d.A. in cui il fattore limitante è il capitale naturale dell'ecosistema]»[6].

La soluzione proposta nell'approccio dello sviluppo sostenibile consiste nella ricerca di un equilibrio per l'intero sistema costituito dalla somma della componente economica e di quella biofisica, secondo l'idea che uno "sviluppo" (cambiamento qualitativo) possa prendere il posto di una "crescita" (cambiamento quantitativo), e passando attraverso un'opportuna valorizzazione del capitale naturale[7]. In sostanza il ciclo economico non deve essere più sostenuto da sempre maggiori quantità di beni prodotti, scambiati ed accumulati, ma da un continuo miglioramento della qualità (anche ambientale) dei beni, che permetta di ridurre il fabbisogno di risorse in modo consistente con la capacità della biosfera e preservando quindi il capitale naturale per le generazioni future.

Nell'analisi dei fautori della "decrescita" si va oltre, criticando in modo radicale l'equivalenza tra disponibilità di merci e benessere comunque insita nella teoria economica e proponendo una decisa riorganizzazione delle attività umane verso l'autoproduzione e lo scambio non monetario di servizi[8].

Se è evidente la connessione tra modello dello sviluppo sostenibile e Green economy (concepita come il naturale strumento per riorientare le attività produttive in modo da minimizzare l'intensità e l'impatto dell'utilizzo delle risorse naturali), più sfumata e per qualche verso conflittuale risulta invece la relazione tra economia verde e teoria della decrescita: in quest'ultima, pur nello scetticismo verso la possibilità di realizzare uno sviluppo che non implichi anche crescita, si identifica comunque nell'utilizzo di nuove tecnologie una leva importante per la riduzione dei consumi di beni non essenziali (come ad esempio mediante il risparmio energetico derivante da tecniche costruttive innovative).

Data per condivisa la necessità di superare un modello basato su una espansione quantitativa dell'economia, in ogni caso le prospettive della Green economy non devono e non possono essere confuse con un salvacondotto per una crescita illimitata.



[1] Che questo processo di adattamento sia in corso anche negli ambienti più radicali è dimostrato da Paul Burkett, Marxism and Ecological Economics: toward a Red and Green Political Economy, Brill, Leiden-Boston 2006.
[2] T. GELISIO, M. GISOTTI, Guida ai Green Jobs, Edizioni Ambiente, Milano 2009.
[3] E. BORGHI (a cura di), La sfida dei territori nella Green economy, pref. di E. Letta, il Mulino-Arel, Bologna-Roma 2009.
[4] A. HOOIJER ET ALII, Peat-CO2, Assessment of CO2 Emissions from Drained Peatlands in SE Asia, in Delft Hydraulics report Q3943, Wetlands International, 2006.
[5] H.E. DALY, Beyond Growth, Beacon Press, Boston 1996.
[6] E. TIEZZI, N. MARCHETTINI, Che cos'è lo sviluppo sostenibile?, Donzelli, Roma 1999.
[7] R. COSTANZA ET ALII, The Value of the World's Ecosystem Services and Natural Capital, in "Nature", 1997.
[8] Si vedano gli studi di Serge Latouche, tra i quali a titolo esemplificativo si segnalano: La scommessa della decrescita, Feltrinelli, Milano 2007, e Breve trattato sulla decrescita serena, Bollati Boringhieri, Torino 2008. Cfr., per una rapida illustrazione, S. LATOUCHE, Why Less Should Be So Much More, in "Le Monde Diplomatique" (Novembre 2004), e l'intervista pubblicata in questo stesso numero di "Cosmopolis": Scommettiamo sulla decrescita.
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